ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 172/2022

19 Maggio 2022

Opportunità e limiti del salario minimo legale: un raffronto europeo

Salvo Leonardi valuta le varie proposte avanzate in tema di salario minimo alla luce delle variegate esperienze nazionali che si distinguono soprattutto per la natura legale o contrattuale del salario minimo. Il quadro che ne emerge è complesso e non consente facili conclusioni. In particolare il salario minimo legale, pur avendo diversi pregi, non appare in grado di garantire la fuoriuscita dai bassi salari e dal lavoro povero se non è accompagnato da politiche di welfare, di stabilizzazione e controllo ispettivo.

1. Il tema del salario minimo è fra quelli che oggi, pressoché ovunque, animano di più l’agenda politico-sindacale. A livello nazionale, sindacati e partiti di sinistra rivendicano un suo significativo incremento, laddove in sede europea cresce la consapevolezza di dover contrastare povertà e ristrettezze, riconoscendo il diritto a percepire retribuzioni eque e dignitose. Dopo le mortifere politiche austeritarie post-2008, le istituzioni dell’UE hanno finalmente compreso di dover mutare rotta, come attesta la proposta di Direttiva per minimi salariali adeguati, avanzata a fine 2020 e ora sul tragitto finale, fra Commissione e Consiglio. L’obiettivo è di favorire l’accesso dei lavoratori alla tutela garantita del salario minimo, sotto forma di salari determinati da contratti collettivi o di un salario minimo legale, laddove esistente. Essendo a dir poco inverosimile un’ipotesi di soglia nominale uguale per tutti i 27 Stati membri, l’orientamento è di conseguire con appositi piani nazionali dei rapporti percentuali. Ovvero: a) il 60% del livello mediano (50% del medio), b) un tasso di copertura contrattuale al 70-80%. Traguardi entrambi lontani, nella maggior parte dei paesi, specialmente per il secondo, con medie nazionali nell’ordine della metà.

Al contempo, ha preso corpo in Italia un serrato confronto intorno all’opportunità di modificare il sistema di determinazione dei minimi retributivi, trasmigrando dal primato esclusivo della contrattazione, ad uno con minimo legale a suo supporto, e in ultima istanza. Dopo il passaggio della Germania, nel 2015, non si sono più verificati casi analoghi di cambio di casella. Nessuno nei paesi a sistema legale invoca di passare a quello contrattuale, come del resto nessuno, in Austria e nei paesi nordici, chiede di fare in contrario. Anzi; persino dinanzi ad una proposta moderata come quella di Bruxelles, i nordici hanno alzato un durissimo fuoco di sbarramento. Solo l’Italia e Cipro si stanno interrogando sulla opportunità di mutuare una qualche forma di salario legale, segno di un certo malcontento riguardo al funzionamento complessivo del nostro sistema, caratterizzato sì da alcuni indicatori molto lusinghieri (copertura contrattuale, rapporto minimi/mediani, sindacalizzazione), ma anche da altri incontestabilmente critici (elevato grado di elusione, paghe basse e bassissime in certi comparti, contrattazione pirata).

2. Tutti i paesi dispongono di un sistema volto a stabilire minimi salariali. In 22 Stati membri, tramite legge; in 5 con la contrattazione collettiva. Fra questi, insieme a nordici e austriaci, ci siamo noi. Legge e contrattazione possono anche convivere, operando in maniera complementare. E’ così in Belgio, in Spagna o in Germania. Il SML non lede la contrattazione dove si faceva prima ma, dati alla mano non ne favorisce nemmeno lo sviluppo dove non c’era; servizi e terziario povero, dove quasi sparisce. Dove vige il sistema legale, le parti sociali non escono di scena, concorrendo più o meno direttamente alla fissazione e indicizzazione dei minimi, ad esempio in sede di organismi tripartiti, come pure suggerisce qualche proposta italiana.

La distanza che separa fra loro i minimi retributivi, dentro l’UE, è piuttosto clamorosa: fra il livello più alto (Lussemburgo) e quello più basso (Bulgaria), il rapporto è all’incirca di dieci a uno (Fig. 1).

Fig. 1: Salari minimi legali al 1° gennaio 2022 (€ per ora)

Fonte: Leubker, Schulten, WSI 2022

Da segnalare i significativi e incoraggianti incrementi fatti registrare nell’ultimo anno in vari paesi ma soprattutto in Lettonia (+16,3%) e Spagna (+22%). Se dal dato nominale passiamo a quello parametrato sul costo della vita, la graduatoria rimane invariata, ma con un quasi dimezzamento del gap fra paesi. Il metodo più significativo di comparazione è probabilmente quello che correla il livello del salario minimo con quello mediano, oppure medio (indice di Kaitz). Con la sola eccezione di Francia e Portogallo, intorno al 60%, tutti gli altri paesi a minimo legale stanno sotto quella soglia che, ricordiamo, indica bassi salari e rischio povertà (Fig. 2).

Fig. 2: Indice di Kaitz nei paesi membri dell’UE, in % sui salari mediani e medi di un lavoratore a tempo pieno (2020)

Per i paesi in cui non vige il SML, il calcolo dell’indice di Kaitz è più impervio, mancando un valore unico intersettoriale. Chi si è cimentato con la media dei minimi dei minimi, ad esempio in sede OCSE, ha rilevato come in Italia questo indice sia, non solo il più alto di quell’area, ma anche di circa 20 punti, rispetto al migliore fra quelli a minimo legale. Si consideri inoltre che in questi ultimi, la legge dispone numerose deroghe (età, tipo di contratto, talune professioni), in virtù delle quali centinaia di migliaia di lavoratori ne restano più o meno temporaneamente esclusi. A ciò si aggiungano le pratiche elusive con cui i datori di lavoro aggirano il vincolo, truccando sulla durata degli orari o spacciando per obbligazioni di risultato lavoro subordinato. Abusi denunciati dai sindacati tedeschi che, con un numero di ispettori dieci volte il nostro, ne richiedono un forte potenziamento. Altra lezione, in quanto senza un forte adeguamento di questi strumenti, una legge di per sé garantirà poco o nulla, come mestamente constatiamo su caporalato e incidenti sul lavoro.

3. Oggi, dicevamo, siamo fra i pochi paesi europei a non disporre di un SML, con gli scandinavi da una parte e gli austriaci dall’altro. Cosa ci unisce e cosa ci divide da questo piccolo e tuttavia significativo gruppo di paesi? Innanzitutto un livello molto alto di copertura contrattuale settoriale, in grado di costituire un efficace equivalente funzionale del SML. Le statistiche internazionali e nazionali ci accreditano fra il 97 e il 100%; addirittura i primi nell’UE. E ciò, si badi, senza nemmeno disporre di uno strumento automatico di estensione erga omnes dei contratti.

Fig. 3: Copertura contrattuale stimata e connotazione degli accordi nel settore privato (> 10 addetti)

Questo dato, lusinghiero, non è tuttavia sufficiente a garantire tutti quei benefici che ci si potrebbe attendere. E’ infatti elevata la quota di evasione, specie in certi settori e territori; troppo basse alcune retribuzioni; clamoroso e nocivo il dumping salariale dei contratti pirata. Abnormi nel numero ma irrisori nella copertura effettiva, fanno nei servizi ciò che le delocalizzazioni producono nell’industria: basta evocarne la minaccia per condizionare al ribasso i tavoli negoziali maggiori.

Rischi e problemi che riguardano una quota minoritaria ma crescente di lavoratori, ma che basta a giustificare le intenzioni del legislatore, o verso una norma che applichi l’art. 36 della Cost., o inverando la seconda parte dell’art. 39, con una legge sulla rappresentanza e l’erga omnes. Della prima via, il Ddl Catalfo (M5S) è il progetto più noto e suscettibile di arrivare in porto. Il suo obiettivo inverare i principi costituzionali della giusta retribuzione a quanti oggi ne percepiscono di molto basse. La norma si riferisce al trattamento economico complessivo (TEC), che non potrà essere inferiore a quello in vigore per il settore e per la zona nella quale si eseguono le prestazioni di lavoro (..) e comunque non inferiore a 9 euro all’ora, indicizzati, al lordo degli oneri contributivi e previdenziali. Il riferimento è al CCNL siglato dalle associazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In caso di più CCNL applicabili, o se non ve ne fosse alcuno, si applicherà quello più rappresentativo, in base al T.U. del 2014. L’articolato presenta elementi indubbiamente apprezzabili. I passaggi più problematici riguardano la platea interessata, l’importo (fisso o in %) e la risoluzione della questione della maggiore rappresentatività. Innanzitutto: a chi si applicherà la legge? Sappiamo che i CCNL coprono già la totalità del lavoro dipendente. Si potrebbe pensare agli addetti della Gig economy, ma non prima di averne qualificato per legge la subordinazione, essendo altrimenti impraticabile un compenso su base oraria. Poi ci sono i 9€ l’ora. Sono tanti o pochi? Possono apparire tanti se li si rapporta al solo trattamento economico minimo (TEM) orario, dove solo paesi molto più ricchi e uniformi del nostro superano quella soglia. Sono pochi se riguardano invece, come si legge nel testo, il trattamento economico complessivo (TEC), incluse le quote rateizzate di 13^, 14^ e Tfr. Nel qual caso si tratterebbe di una soglia più bassa della quasi totalità dei CCNL più applicati, con rischi non del tutto pronosticabili in futuro. Infine, la rappresentatività comparativamente maggiore. Il riferimento alla legge del 1986 sul CNEL non è sufficientemente selettiva, posto che associazioni che vi siedono firmano già CCNL ribassisti, mentre quello al T.U. del 2014, sconta il suo fragile fondamento volontaristico, a causa del quale, a 8 anni dalla stipula, non è a regime neppure dove dovrebbe già.

4. In conclusione, non esiste in astratto, la superiorità di un modello su un altro. Ognuno è il riflesso dinamico delle specificità nazionali. Il salario minimo legale non può e non deve certo essere demonizzato. Ma lo si deve considerare con pragmatismo e cautela, onde evitare attese palingenetiche, destinate a rimanere frustrate alla prova dei fatti, se non addirittura a preparare il terreno a qualche amara eterogenesi.

A lungo, sindacati mediamente più forti che non oggi, hanno rivendicato per sé la sovranità salariale, ritenendola parte incedibile del proprio core business, mediante la contrattazione collettiva. Italiani e scandinavi si attestano ancora oggi su questa linea interpretativa, timorosi di un depotenziamento dell’autonomia collettiva. Concepito per ovviare a talune debolezze del sindacato e della contrattazione, il SML potrebbe finire col suggellare definitivamente il declino di entrambi, come nel caso francese.

In termini generali, la legge ha l’indiscutibile pregio di fornire, rispetto alla contrattazione, maggiori garanzie riguardo alla universalità della sua copertura, come anche della certezza ed esigibilità dei trattamenti che dispone. Tende a ridurre i differenziali fra i vari settori e può sospingere verso l’alto l’intera dinamica salariale. Non vi sono contraccolpi sull’occupazione, come hanno dimostrato l’economia tedesca e l’ultimo Nobel per l’economia, laddove invece talune agevolazioni contributive volte a ridurre il costo per le imprese, provoca ricadute su pensioni e welfare. Al contempo, il SML tende ovunque ad attestarsi su livelli assoluti e relativi bassi, e anche molto bassi. Senza integrazioni del welfare e/o della contrattazione, e questo va sottolineato, nessun paese a minimo legale consente di uscire dalla condizione di working poor. Accentua la dimensione tecnocratica della determinazione salariale, nelle sedi tripartite. E’ più soggetta alla contingenza politica; che può si dare mano libera a governi come quello Sanchez o Scholtz, per fare in un balzo seri progressi. Ma può anche risentire dei congelamenti durante esecutivi ostili, come negli USA, o divenire la prima vittima delle restrizioni austeritarie, come in Grecia.

Di contro, i vantaggi e gli svantaggi del sistema contrattuale sono pressoché rovesciati. Stabilisce livelli minimi comparativamente più alti; è più duttile in rapporto alla qualifica dei lavoratori; preserva il ruolo delle parti sociali e del sindacato quale autorità salariale ed è relativamente meno esposto alla contingenza politica-economica; con o senza governi pro-labor. Ma offre minori garanzie di universalità, certezza ed esigibilità; patisce di una maggiore dispersione dei differenziali fra settori.

Le parti sociali italiane, e soprattutto i sindacati maggiori, propendono per una soluzione che rispetti e salvaguardi l’autonomia collettiva, attraverso una attuazione di tutto l’art. 39 che attinga al modello del pubblico impiego e del T.U.. Ma a ciò andranno necessariamente aggiunte modifiche per ridurre sensibilmente la precarietà del lavoro. Poco o nulla può fare infatti un aumento della paga base oraria, se il datore resterà libero di far durare un contratto per poche ore alla settimana o qualche mese nell’anno. A consuntivo, la quota di lavoro povero rimarrà ugualmente alta, se non identica, vanificando i buoni intenti della riforma. La Spagna si è già mossa in questa direzione e i primi dati sembrano più che incoraggianti.

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