Patto chiaro, amicizia lunga?

Paolo Paesani dopo aver riassunto quanto emerge da alcune recenti ricerche sul funzionamento delle regoli fiscale europee, riflette sulle prospettive di riforma di tali regole nella fase di avvio dell’attività della nuova Commissione Europea. Alla luce della situazione economico-politica europea, Paesani ritiene che la semplificazione e una maggiore attenzione al contenimento della spesa pubblica saranno le direttrici attorno alle quali più probabilmente si realizzerà la riforma del Patto di Stabilità e Crescita.

Il Patto di Stabilità e Crescita è forse la più controversa fra le regole che disciplinano la vita comune dei membri dell’Unione Europea. Da un lato, molti lo vedono come fonte di austerità eccessiva e come ostacolo alla possibilità di adottare serie politiche di crescita per molti paesi. Dall’altro lato, il Patto è accusato di aver perso la sua “capacità di mordere”, permettendo flessibilità e scappatoie anche in presenza di violazioni palesi delle sue regole. Nel 2002, il Presidente Prodi lo definì “stupido”, pur usando quell’aggettivo in maniera più sottile di quanto la parola in sé non suggerisca per riferirsi alla necessità di riformare il Patto nel senso di una maggiore solidarietà.

Il Bollettino del Fiscal Board Europeo, pubblicato ad Agosto del 2019, tratteggia la visione ufficiale e lo stato dell’arte in materia di regole fiscali europee. L’architettura originale delle regole fissate nel 1992 a Maastricht comprendeva disposizioni volte a promuovere la disciplina fiscale tra cui: il divieto di disavanzi eccessivi, il divieto di finanziamento monetario, la clausola che escludeva il bail out e il divieto di accesso privilegiato alle istituzioni finanziarie da parte dell’emittente pubblico. Questa architettura centrata sul Patto di Stabilità e Crescita, con il braccio preventivo e quello correttivo, aveva tuttavia sottostimato i problemi e i rischi fiscali derivanti da squilibri macroeconomici persistenti.

Nella fase di avvicinamento alla crisi greca, mentre le condizioni macroeconomiche dell’euro-area erano ancora soddisfacenti, le regole fiscali sono state applicate debolmente; inoltre in molti paesi, tra cui l’Italia, l’elevato rapporto debito pubblico/PIL non è diminuito con la rapidità e nella misura richiesta. L’arrivo della crisi dei debiti sovrani e gli effetti di quella crisi sui sistemi bancari hanno spinto l’economia europea verso la recessione e le finanze pubbliche di molti paesi verso un significativo deterioramento con aumento del rischio d’incorrere in una procedura per deficit eccessivo.

Sulla base degli insegnamenti tratti dalla crisi, le riforme note come six-pack, two-pack e Fiscal compact, hanno promosso il rafforzamento delle governance economica dell’UE in cinque modi. Primo, riorientando le regole fiscali verso un maggior controllo del debito e della spesa pubblica. Secondo, rafforzando le sanzioni previste dal braccio correttivo del patto. Terzo, espandendo il monitoraggio degli squilibri macroeconomici. Quarto, creando istituzioni fiscali indipendenti a livello nazionale. Quinto, introducendo meccanismi condivisi per la risoluzione delle crisi e avviando il processo di unione bancaria. Da allora le regole fiscali europee sono state continuamente modificate, reinterpretate, e rielaborate con il risultato di renderle ancora più complesse di quanto già  non fossero. Il livello crescente di complessità unito a frizioni tra i differenti attori istituzionali coinvolti nell’applicazione del Patto ha quindi contribuito a metterlo ulteriormente in discussione, sollecitando l’avvio di un nuovo processo di riforma.

Il bilancio sintetico sugli effetti del Patto, tracciato dai due economisti olandesi De Jong e Gilbert (2019), arricchisce questo quadro d’insieme. Partendo da un data-base in tempo reale delle 22 Procedure per deficit eccessivo iniziate fra il 2003 (Francia e Germania) e il 2017, e controllando per una molteplicità di fattori, i due autori  sostengono che ricevere una raccomandazione a realizzare un aggiustamento di bilancio superiore all’1% del PIL porta a una proiezione di consolidamento vicina all’1% e a un consolidamento effettivo pari a circa lo 0,8% del PIL. Questo risultato implica che in particolare fra il 2010 e il 2014, quando le raccomandazioni si sono susseguite una dopo l’altra, la Procedura per deficit eccessivo ha effettivamente favorito una correzione di bilancio, contribuendo ad accentuare l’ampiezza delle fluttuazioni cicliche. D’altra parte, il braccio preventivo si è rivelato debole nel contrastare  questi effetti pro-ciclici. Come documentano Hessel, De Jong e Gilbert (2017) un numero significativo di nazioni europee non ha mai rispettato gli obiettivi di medio termine definiti nell’ambito del fiscal compact, anche in presenza di condizioni macroeconomiche favorevoli. Come dire che si contengono gli squilibri più gravi senza mettere davvero in sicurezza le finanze pubbliche dei paesi più fragili dal punto di vista fiscale.

Queste evidenze, insieme ad altre dello stesso tenore, confermano la necessità di rivedere il Patto, aumentando l’efficacia del braccio preventivo e riducendo così la necessità di introdurre pesanti correzioni fiscali in tempi di debole congiuntura. Vanno in questa direzione alcune proposte avanzate di recente e  imperniate su tre parole d’ordine: coerenza fra limiti spesa e sentieri di riduzione del debito, superamento dell’idea di sanzione, semplicità.

Partendo da questa premessa, Lars Feld (Direttore del Walter Eucken Institut e professore di politica economica a Friburgo) insieme a un gruppo di colleghi tedeschi (Feld et al. 2018) propone l’introduzione di una nuova regola unica relativa alla spesa pubblica, che prenda il posto delle attuali regole multiple su deficit (nominale e strutturale), debito e spesa. Secondo questa nuova regola, il tasso di crescita della spesa pubblica primaria in termini nominali al netto dei trasferimenti ciclici a favore dei disoccupati e di misure discrezionali una tantum, senza altre eccezioni, dovrebbe collocarsi al di sotto di una soglia di riferimento calcolata tenendo conto del tasso di crescita potenziale, dell’inflazione e di una serie di fattori tecnici tra cui deviazioni dal valore di riferimento per il saldo strutturale di bilancio, errori di stima, effetti di entrate discrezionali oltre che dell’esigenza di avvicinare il rapporto fra il debito pubblico e il PIL al valore di riferimento del 60%. La scelta di concentrarsi sul contenimento della spesa pubblica, in maniera tanto più incisiva quanto maggiore il livello di partenza del rapporto debito pubblico/PIL è coerente con lo spirito e l’impianto di fondo del Patto.

Nelle intenzioni di chi la propone, questa nuova regola avrebbe il vantaggio di semplificare il dibattito pubblico, concentrando l’attenzione su un indicatore di facile comprensione sul quale il governo può incidere direttamente. Tutti i problemi tecnici relativi ai metodi di stima delle variabili rilevanti, agli errori di misura, alle revisioni, alla pro-ciclicità, passerebbero – per così dire – dietro le quinte. Allo stesso tempo, non si perderebbero né lo spirito che ha animato le varie riforme del Patto di Stabilità e Crescita in questi anni né la possibilità di “sanzionare” i governi spendaccioni. Semplificare lo schema e concentrarsi su una regola sola, su un numero solo, al riparo dalla eccezioni e dagli interventi discrezionali, con l’aiuto di istituzioni indipendenti e consigli fiscali nazionali.

Questa proposta indica in una trasformazione graduale la strada da seguire nella riforma del Patto di Stabilità e Crescita. Molte altre proposte simili o molto più ambiziose, come quella avanzata da Agnès Benassy-Quère et al (2018) per riconciliare condivisione del rischio e disciplina di bilancio, sono sul tappeto in questo momento. Di queste proposte di riforma si può dire che procedono in maniera incrementale, imparando dagli errori del passato, senza mettere in discussione davvero il Patto e i principi sui quali esso si fonda.

A fronte delle richieste di riforma, che vengono da molti economisti e di recente anche dal nostro Presidente Mattarella, vi è chi invoca misure più radicali, dall’eliminazione di tutti gli investimenti pubblici dal calcolo del deficit, come ha fatto nel 2016 Gustavo Piga, fino all’abolizione tout court del Patto.  Escludendo le proposte più radicali, che difficilmente la nuova Commissione presieduta dalla Signora Van der Layen adotterà, cosa possiamo aspettarci?

La previsione che al momento appare più plausibile è che, entrata a regime la nuova Commissione, il Patto venga effettivamente semplificato, concentrando l’attenzione dell’opinione pubblica su un numero solo, spostando per quanto possibile gli aspetti tecnici dietro le quinte e attenuando l’enfasi sulle sanzioni previste dal braccio correttivo del Patto. Troppe voci, e molto autorevoli, cominciano ad auspicare interventi di questo genere e la coerenza di queste proposte con l’idea di cambiare senza stravolgere la sostanza del Patto rende ancora più plausibile che una riforma nel senso indicato verrà introdotta nel breve-medio termine.

Una riforma del genere, potrebbe offrire alla nuova Commissione la possibilità di un “bel gesto”, di un segnale di attenzione verso chi critica il Patto per la sua mancanza di trasparenza, per la pro-ciclicità, per giustificare sanzioni eccessive. Certo, la fine della parabola politica di Angela Merkel, l’appannarsi della presidenza Jupiterienne di Macron, la pressione del gruppo di Visegrad, per non parlare della situazione del nostro Paese, non lasciano prevedere  mutamenti epocali, né un cambiamento decisivo di rotta rispetto al cammino percorso fin qui. In questo senso, le riforme che si profilano all’orizzonte non porteranno quindi a una revisione della filosofia di fondo per la quale è prioritario controllare la spesa pubblica e contenerla per quanto possibile, soprattutto per i paesi ad alto debito.

In un’intervista rilasciata al quotidiano il Manifesto nel Gennaio 2014, l’economista De Cecco scomparso nel 2016 e ricordato in occasione della recente terza edizione delle Giornate dell’Economia a lui intitolate, affermava

Sono convinto, che oggi esiste un livello di spreco grandioso delle risorse pubbliche. Nei comuni, nelle province e specialmente nelle regioni. La spending review si deve fare, anche nel caso in cui non ci fosse una pressione straniera come quella che stiamo subendo, oppure quel maledetto contratto fiscale che si chiama «Fiscal Compact» che abbiamo deciso di tirarci addosso da soli. Quello che però tutti dovrebbero capire è che ogni euro risparmiato è un euro che non andrà in tasca a qualcuno. Quando si vuole tagliare un euro di spesa pubblica c’è qualcuno che non lo riceve. Ad esempio oggi c’è tanta gente che ha quel poco di lavoro che ha grazie a questa spesa pessima. Bisogna capire che fine faranno. 

Queste parole indicano quale siano i veri obiettivi di una buona politica fiscale e di una possibile riforma del Patto di Stabilità. Non tanto e non solo obiettivi quantitativi di contenimento della spesa pubblica, quanto piuttosto obiettivi qualitativi, difficili da quantificare, che si raggiungono lavorando con impegno e di buona lena, senza dimenticare il principio della domanda effettiva.

Schede e storico autori