ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 175/2022

4 Luglio 2022

Per una legge sul salario adeguato in Italia: in favore dell’erga omnes salariale e contro il salario minimo legale

Vincenzo Bavaro interviene nel dibattito sul salario minimo e sostiene che l’intervento legislativo non dovrebbe consistere nella fissazione del livello di quel salario ma nel dare sostegno, nel modo che indica, alla contrattazione collettiva nazionale.

I termini del dibattito che si è ravvivato in Italia da qualche anno in materia di diritto al salario adeguato sono ormai noti ai lettori del Menabò; pertanto, non è il caso di richiamarlo in modo preciso. Posso dire che vi sono due soluzioni di fondo, seppur con diverse sfumature: da una parte coloro che ritengono necessario che anche in Italia si adotti una legge che preveda la determinazione diretta da parte della legge, richiamando l’esempio del sistema introdotto in Germania a partire dal 2015 (cfr. E. Menegatti, Un salario minimo anche per l’Italia? Spunti di riflessione dall’esperienza comparata, Menabò, 30 aprile 2022); dall’altra parte coloro che ritengono che occorra lasciare che l’autorità salariale in Italia resti affidata alla contrattazione collettiva e – di conseguenza – che qualsiasi intervento legislativo abbia, piuttosto, la funzione di sostenere la contrattazione tramite il c.d. erga omnes salariale, cioè l’estensione generalizzata dei salari previsti dalla contrattazione collettiva.

Nei limiti dello spazio affidato in questa sede, proverò a spiegare le ragioni per le quali sostengo che è necessario un intervento legislativo in materia salariale a sostegno della contrattazione collettiva nazionale tramite l’estensione generalizzata dei salari previsti dai contratti collettivi leader (quelli tecnicamente qualificati come «stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative al livello nazionale»). Prima però credo sia utile spiegare per quale ragione ritengo pericoloso intervenire con una legge che stabilisca direttamente il salario minimo.

Le ragioni contrarie al salario minimo fissato dalla leggeTutti concordano sul fatto che in Italia il problema dei bassi salari deriva anche dal c.d. ‘far west contrattuale’ cioè dalla concorrenza fra salari derivanti dalla concorrenza fra più contratti collettivi presenti in un medesimo settore produttivo (l’ambito) che, appunto, stabiliscono salari differenti. Il problema principale derivante dalla concorrenza al ribasso tra le fonti di determinazione del salario consiste nella possibilità che un operatore economico possa scegliere fra diversi salari da applicare ai propri dipendenti scegliendo liberamente il contratto nazionale da applicare.

Date le regole vigenti in materia di vincolatività dei contratti nazionali, una legge che stabilisse in Italia un salario minimo universale fisserebbe un salario inderogabile da chiunque, senza però negare la possibilità per le imprese di scegliere quale contratto nazionale e – soprattutto – scegliere se applicare un contratto. Se dunque il salario previsto da un contratto nazionale non è vincolante per tutti mentre tutti devono rispettare il minimo legale, non è difficile vedere quale formidabile opportunità vi potrebbe essere per un’impresa di applicare il salario minimo imposto dalla legge senza essere obbligata ad applicare il salario previsto dai contratti nazionali.

Non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che i salari minimi previsti dalla legge, ovunque adottati, sono sempre inferiori ai salari previsti dai contratti nazionali (in genere 60% del salario mediano o 50% del salario medio) e, quindi, avere un salario legale universale sostanzialmente coincidente (o di poco superiore) al salario contrattuale più basso previsto dai contratti collettivi. Sennonché non ci sono solo i salari contrattuali bassi, fino alla soglia di povertà, ma anche decine, anzi centinaia, di Contratti nazionali che prevedono minimi tabellari superiori, anzi di molto superiori alla ipotetica soglia minima legale.

Ebbene: poter scegliere fra un salario legale più basso e un salario contrattuale più alto significa legalizzare il dumping salariale operato dalla legge stessa sui contratti collettivi. Insomma, sarebbe un bel capolavoro fare forse peggio di com’è adesso dato che un lavoratore con basso salario può almeno chiedere a un Giudice di vedersi applicato il minimo salariale tabellare previsto dal contratto nazionale.

C’è poi un altro aspetto che occorre tenere ben chiaro: siccome queste soglie legali vengono misurate sui c.d. minimi contrattuali, la differenza rispetto ai salari contrattuali dovrebbe essere fatta tenuto conto di tutto il trattamento retributivo previsto dai contratti nazionali che non coincide solo con i minimi tabellari. A chi si esercita nelle comparazioni statistico-economiche chiederei se i numeri utilizzati tengono conto solo dei minimi tabellari oppure dell’intero trattamento economico che un lavoratore ha diritto ad avere se gli viene applicato un contratto collettivo. Per tornare alla Germania, sarebbe interessante comparare il salario di un operaio edile tedesco cui si applica il salario minimo orario di 12 euro col salario orario percepito da un operaio edile di medesimo livello cui viene applicato il contratto collettivo di settore.

Problemi e soluzioni favorevoli all’erga omnes salariale. Affidare l’autorità salariale alla contrattazione collettiva è invece una misura necessaria a rendere legalmente vincolante salari più alti rispetto a quello che potrebbe fare un salario universale previsto dalla legge in una situazione in cui – è bene ribadirlo – i contratti nazionali non sono vincolanti per tutti e liberamente applicabili.

Va detto che se si arrivasse a prevedere l’efficacia generale dei contratti nazionali a maggior ragione non ci sarebbe bisogno di avere un salario fissato per legge, dal momento che attraverso la contrattazione collettiva erga omnes si avrebbe una copertura totale dei lavoratori. Senza entrare nel merito di questa prospettiva, mi limito a dire che il problema italiano rimanda alla mancata attuazione dell’art. 39 Cost. Si sostiene che per risolvere definitivamente il problema si dovrebbe agire proprio in tal senso: quindi misurare la rappresentatività dei sindacati e delle associazioni d’impresa per poi, una volta definiti gli ambiti settoriali di applicazione dei contratti, attribuire automaticamente efficacia generale a tutti i trattamenti economici e normativi. Solo che – inutile negarlo – sebbene questa soluzione sarebbe la migliore è anche la più difficile da perseguire per ragioni soprattutto politiche connesse al sistema di rappresentanza sociale molto frammentato.

Se non ottima, buona è comunque la soluzione di collocarsi in una consolidata tradizione. Si tratta di prevedere che la retribuzione attuativa dei principi dell’art. 36 Cost. (proporzionalità e sufficienza), cioè la retribuzione adeguata, sia equivalente al trattamento economico complessivo previsto dai contratti collettivi nazionali di categoria sottoscritti dalle associazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale. Un intervento legislativo, al contempo, di straordinaria promozione del sistema storico di relazioni industriali italiano e di innalzamento dei salari complessivi assicurati a tutti i lavoratori dipendenti italiani.

Su questa soluzione emergono obiezioni o quantomeno dubbi (per esempio L. Corazza, Per legge, ma non troppo. Il rebus del salario minimo nella crisi della contrattazione, Menabò, 3 maggio 2021) che, a mio avviso, sono superabili.

1) Un primo argomento solleva dubbi sulla capacità selettiva del criterio della maggiore rappresentatività comparata, perché non sarebbe idoneo a selezionare in un medesimo ambito di applicazione quale sarebbe il contratto nazionale applicabile in quanto non ci sono criteri certi di misurazione della rappresentatività. L’argomento, pur comprensibile, è abbastanza sorprendente perché emerge in modo consistente solo adesso mentre si tratta di un criterio selettivo che la Legislazione italiana adotta da oltre venti anni. È vero che oggi vi è una maggiore frammentazione nella rappresentanza e, quindi, una maggiore pluralità di contratti nazionali; tuttavia, ciò non vuol dire che non si è in grado di scegliere fra i 45 contratti nazionali relativi al settore meccanici, depositati al CNEL, quali sono i 4 o 5 contratti sottoscritti dalle organizzazioni più rappresentative. In fin dei conti si tratta di fare quanto i Giudici italiani fanno da tempo e oppure le Autorità amministrative con numerosi atti o circolari. Che poi in qualche settore vi possa essere una certa equivalenza fra le organizzazioni è ben possibile; tuttavia – per esempio sul versante sindacale – è assai difficile che vi possano essere sindacati che al livello nazionale siano più rappresentativi di CGIL, CISL e UIL messi assieme. Nondimeno, se così non dovesse essere, spetterebbe comunque ai Giudici o alle Autorità amministrative comparare la maggiore rappresentatività con gli indici ormai consolidati.

2) Un secondo argomento è collegato al primo e riguarda la difficoltà di definire l’ambito entro cui effettuare la misurazione. Ebbene: innanzitutto l’ambito in cui effettuare la comparazione è quello nazionale. In secondo luogo, il problema sarebbe quello di definire il settore merceologico-produttivo in cui poi andare a misurare la rappresentatività. Così ragionando, però, si resta legati a una concezione ‘oggettiva’ della categoria negando che l’ambito di riferimento è un segmento del mercato del lavoro delimitato in base a innumerevoli variabili valutate dalle rappresentanze sociali di quel mercato. Per intenderci: dire ‘metalmeccanici’, per FIM, FIOM e UILM vuol dire mettere insieme – per esempio – l’installazione di impianti, la siderurgia, la fabbricazione di infissi e l’informatica. Discutere ex catedra su questo è semplicemente inutile perché a chi altri se non agli attori negoziali spetta delimitare il mercato del lavoro? Piuttosto, occorre affidarsi alla maggiore rappresentatività comparata degli attori negoziali e affidarsi alla loro più affidabile delimitazione dei perimetri.

3) Infine, si ritiene che un intervento legislativo diretto sul salario sarebbe utile anche a contrastare i bassi salari previsti anche dai contratti nazionali siglati dai sindacati confederali maggiormente rappresentativi. Se prendiamo ad esempio il settore delle pulizie di immobili, posto che qui è stabilito un salario di livello basso, sarebbe utile sapere in base a quale criterio un’autorità Pubblica dovrebbe stabilire un salario superiore e di quale entità: la verità è che sarebbe un criterio paradossalmente meno affidabile di quello attuale. In ogni caso, a ben vedere, pare che questo rimprovero derivi fondamentalmente da un solo contratto collettivo, quello sempre citato del settore Servizi fiduciari, che fa concorrenza a quello del settore Multiservizi su cui, però, per fortuna diversi Tribunali italiani stanno cominciando a sanzionarlo per violazione del principio di proporzionalità e sufficienza. Anche in questo caso, non nego che vi possa essere qualche situazione analoga ma è bene sapere che si tratta di situazioni limitate e, comunque, governabili da un sistema di contrattazione collettiva affidata a soggetti comparativamente più rappresentativi.

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