ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 178/2022

14 Settembre 2022

Perché i programmi politici sembrano così simili e vaghi (*)

Enrico D’Elia richiama la teoria secondo cui quando il sistema elettorale è maggioritario, i partiti sono indotti a convergere sulle posizioni dell’elettore “mediano” e perciò su molte questioni propongono programmi piuttosto simili tra loro e poco innovativi. D’Elia sostiene che questa tendenza si rafforza se gli elettori che non si sentono rappresentati scelgono di astenersi e ritiene che la quota proporzionale prevista dall’attuale sistema elettorale, il rosatellum, non sia sufficiente per attenuare questi fenomeni.

E’ tempo di elezioni e, come di consueto, le diverse formazioni politiche presentano i loro programmi elettorali. Su molti temi i programmi presentano forti somiglianze, appena attenuate da sfumature lessicali, ambiguità, sottolineature ed omissioni. Siamo dunque ben lontani dalla radicalità tipica degli anni settanta.

Ad esempio, in tema di lotta alla povertà e all’esclusione sociale, tutte le maggiori forze politiche prevedono un sistema di sussidi a favore dei meno abbienti, seppure con diverse qualificazioni. Il centro-destra propone l’estensione dell’assegno unico universale e l’aumento delle pensioni minime, riservando il reddito di cittadinanza (RdC) solo ad alcuni casi estremi; il centro-sinistra propone una integrazione delle retribuzioni più basse e un salario minimo orario, oltre ad un ritocco del RdC; Italia viva e Azione prospettano una revisione del RdC, un salario minimo e aiuti alimentari; il Movimento 5 stelle propende per un rafforzamento del RdC e l’introduzione di minimi salariali. Tutte le forze promettono sgravi fiscali, variamente calibrati, mentre differenze più sostanziali si riscontrano sull’immigrazione e sulle riforme istituzionali.

Per compensare questa uniformità, e per non rischiare di scontentare particolari gruppi di elettori, i partiti sono spesso “costretti” a formulare proposte piuttosto vaghe. Elaborando i programmi presentati per le elezioni politiche del 2018, l’Istituto Cattaneo ha rilevato che, in media, tre quarti dei testi era costituito solo da affermazioni generiche e solo il 25 per cento conteneva proposte politiche verificabili. Quest’ultima quota scendeva a circa il 20 per cento su politica estera, lavoro e ambiente. Inoltre le “distanze” tra le formazioni maggiori erano abbastanza limitate, se valutate rispetto alla classica dicotomia “destra-sinistra”. A sorpresa, il partito più equidistante dalle posizioni estreme risultava essere il Movimento cinque stelle. Si rilevava una maggiore difformità di opinioni sull’integrazione europea, che è comunque un dato di fatto difficilmente modificabile nel corso di una legislatura. In attesa di simili analisi per i programmi appena presentati, è facile pronosticare che i risultati non saranno troppo differenti da quelli del 2018.

E’ probabile che questa uniformità non derivi da mancanza di idee o da una eccessiva accondiscendenza verso soluzioni “mainstream” che possano raccogliere il plauso degli investitori e delle istituzioni internazionali. Può aiutare a spiegare questo fenomeno il teorema dell’elettore mediano, formulato da Duncan Black oltre 70 anni fa e reso popolare da Anthony Downs una decina di anni dopo, secondo il quale in una sfida uninominale conviene a tutti i candidati attestarsi sulla posizione che, in una scala ordinata di opzioni politiche, divide esattamente a metà la distribuzione di frequenza dei consensi tra i votanti. Va da sé che si tratta presumibilmente di posizioni moderate e favorevoli al mantenimento dello status quo.

La dimostrazione formale del teorema è piuttosto complessa e lo stesso risultato è soggetto a parecchie varianti se ci sono più di due concorrenti e se non vige il sistema maggioritario puro. Intuitivamente, supponiamo che gli elettori possano scegliere solo tra due candidati, ciascuno dei quali propone un diverso livello di pressione fiscale: A (più alta) e B (più bassa). L’aliquota A sarà preferita sicuramente da coloro che ne vorrebbero una più alta e da una parte di coloro che preferirebbero un’aliquota intermedia tra B ed A. All’opposto, l’opzione B sarà scelta da chi vuole un livello di tassazione inferiore a B e da una parte di quelli che preferiscono un livello di tassazione compreso tra B ed A. I due bacini di consenso potenziale hanno dunque un’area in comune, compresa tra B ed A, che è contendibile variando l’aliquota proposta. Se è così, ad entrambi i candidati conviene ridurre al minimo questa zona grigia, riducendo la distanza tra le rispettive proposte. Inoltre, visto che entrambi hanno bisogno di almeno il 50 per cento dei consensi per vincere, convergeranno verso un’aliquota che corrisponde alle preferenze della metà esatta dei votanti. Si noti che questo valore non coincide necessariamente con la media delle preferenze, a meno che queste non si distribuiscano in modo simmetrico attorno alla media.

Questo risultato si basa su almeno tre presupposti cruciali. Il primo è che le diverse opzioni politiche si possano ordinare in senso crescente; il secondo è che le preferenze degli elettori siano note ad entrambi i candidati; il terzo è che un solo candidato vinca e attui il suo programma. In realtà, non sempre le politiche possono essere rappresentate come punti su una scala di valori numerici. Per esempio, è quasi impossibile farlo per le riforme istituzionali, la collocazione internazionale del paese, l’adesione ad una moneta comune, le politiche dell’immigrazione. Non a caso, sono proprio questi i temi su cui i programmi politici si differenziano maggiormente. Nonostante i progressi della demoscopia, è difficile conoscere in anticipo l’orientamento degli elettori sui diversi temi. Ciò lascia ai candidati ampi margini di incertezza sulle politiche da proporre. Infine, se si adotta il criterio proporzionale, invece di quello maggioritario puro, gli eletti avranno interesse a puntare su diversi segmenti del corpo elettorale per poi accordarsi tra loro ex post su politiche intermedie tra le diverse opzioni, che difficilmente coincidono con l’opinione dell’elettore mediano.

Il teorema dell’elettore mediano è stato sottoposto a parecchie critiche e qualificazioni. In particolare, ha poco valore pratico se gli elettori sono divisi pregiudizialmente in diversi gruppi, in modo tale da creare dei picchi di consenso nella distribuzione di frequenza delle opinioni complessiva. In questo caso alcuni candidati potrebbero concentrarsi sul gruppo più numeroso di elettori, determinando una polarizzazione dell’offerta politica, piuttosto che la convergenza verso posizioni mediane. Nel complesso, tuttavia, l’inseguimento dell’elettore mediano sembra funzionare, come dimostrano anche vari studi empirici. Ad esempio, l’età dell’elettore mediano sembra spiegare la preferenza verso il debito pubblico nei maggiori paesi OCSE meglio dell’età media della popolazione. All’influenza (talvolta indicata come “dittatura”) dell’elettore mediano sembra riconducibile anche la progressiva convergenza dei programmi dei partiti alle elezioni europee. Non manca chi spiega perfino la polarizzazione tra alcune posizioni dei partiti con una variante del teorema in cui la conoscenza della vera distribuzione degli elettori è più o meno sbagliata o addirittura manipolata ad arte. In ogni caso, le scelte degli elettori e dei candidati possono essere guidate anche da criteri non opportunistici, nel qual caso il criterio dell’elettore mediano non ha troppo valore.

Se troppi candidati convergono verso il centro, l’elettore ha più difficoltà a distinguerli in base alle istanze programmatiche ed inoltre molti di loro possono sentirsi scarsamente rappresentati. Ciò favorisce due fenomeni ben noti anche in Italia: la personalizzazione della politica e l’aumento dell’astensionismo. Tramite la personalizzazione i partiti tentano di spostare l’attenzione dei votanti sulle caratteristiche individuali (e perfino estetiche ) dei candidati, visto che il criterio dell’elettore mediano spinge a proporre programmi abbastanza simili tra loro. Quest’ultimo fenomeno, a sua volta, riduce il numero di elettori che riescono a identificarsi nelle principali opzioni politiche sul tavolo e quindi favorisce la disaffezione alla politica e l’astensione.

Da questo punto di vista, il caso italiano è esemplare. Da quando furono abolite le preferenze e fu abbandonato il sistema proporzionale nel 1993, l’area dell’astensionismo si è progressivamente allargata, specialmente nelle elezioni locali, dove il maggioritario trova la sua massima applicazione nell’elezione dei sindaci a doppio turno. A partire dagli anni novanta l’area del non voto alle elezioni politiche è così salita da circa il 12 per cento a poco meno del 30 per cento nel 2018. Ovviamente la disaffezione al voto dipende anche da molti altri fattori, anche sociali e culturali, ma il progressivo allentamento del legame (talvolta patologico) tra elettori ed eletti ha certamente avuto un ruolo importante nella diffusione dell’astensionismo.

L’aumento degli astenuti rischia di avviare un circolo vizioso in cui i partiti, per convergere al centro, tagliano le proposte più estreme, anche a costo di lasciarle a formazioni di nicchia senza alcuna speranza di entrare in parlamento, riducendo ulteriormente la capacità di rappresentare tutto l’elettorato e favorendo così un ulteriore allargamento dell’area del non voto. Si tratta di una tendenza molto pericolosa, che rischia di svuotare i processi di decisione democratici e di minare la coesione sociale. Ad esempio, Schafer e altri mostrano che il crescente astensionismo tra i più poveri sposta progressivamente verso l’alto il livello di disuguaglianza preferito da chi vota effettivamente, cioè il contrario di quanto previsto dalle versioni più semplici del teorema dell’elettore mediano, secondo cui una maggiore disparità dei redditi farebbe spostare il “centro” della distribuzione delle opinioni degli elettori verso politiche redistributive più aggressive.

La rincorsa dell’elettore mediano è una chiave di lettura sostanzialmente valida anche in un sistema ibrido come il rosatellum, in cui solo un terzo dei parlamentari è eletto tramite scontri diretti e non è possibile esprimere preferenze tra i candidati inseriti nel listino proporzionale bloccato. Al massimo si può assistere al paradosso di candidati uninominali che devono apparire abbastanza moderati da attirare gli elettori di centro, circondati da formazioni e concorrenti incaricati di rappresentare gli interessi, anche contrastanti, di singoli segmenti della società. In questo modo i partiti distribuiscono il rischio tra le due componenti della lista. Da questo punto di vista, è esemplare la vicenda dei rigassificatori e dei termovalorizzatori, sostenuti da chi insegue gli interessi dell’elettore mediano del proprio collegio e contestati da alcuni colleghi di partito, collocati nei listini proporzionali bloccati, ai quali conviene rappresentare interessi territoriali specifici.

Probabilmente i sistemi elettorali maggioritari favoriscono la governabilità, ma riducono inevitabilmente la rappresentanza del corpo elettorale. L’inseguimento dell’elettore mediano accentua quest’ultimo aspetto, e ciò comporta sia lati positivi che negativi. Tra i primi, la convergenza al centro conferisce maggiore continuità alle politiche economiche e sociali, anche se scoraggia riforme particolarmente ambiziose ed avanzate, che difficilmente vanno incontro alle preferenze dell’elettorato di centro. Tra i difetti del modello maggioritario, e delle conseguenti strategie elettorali, c’è la sostanziale esclusione dalle assemblee elettive delle istanze più estreme, che rischia di far trascurare le richieste delle fasce di popolazione meno integrate e di trasferire il confronto sociale dalle sedi istituzionali alle piazze. Inoltre l’incentivo a proporre programmi abbastanza simili favorisce l’impoverimento del dibattito politico ed il ricorso sempre più frequente alla personalizzazione per differenziarsi agli occhi degli elettori, in mancanza di chiare divergenze programmatiche. Tutto ciò dovrebbe suggerire molta prudenza nell’adozione di sistemi fortemente maggioritari, soprattutto da parte dei partiti che intendono perseguire un programma di riforme progressiste.


(*) Le opinioni espresse in questo articolo non coinvolgono in alcun modo le istituzioni con cui collabora l’autore.

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