ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 178/2022

14 Settembre 2022

Perché l’antipolitica

Vittorio Mete partendo dalla considerazione che l’antipolitica è l’ospite scomodo della democrazia, propone una definizione del fenomeno, distinguendo tra antipolitica dal basso – praticata dai cittadini – e antipolitica dall’alto – praticata da segmenti delle élite politiche. Mete individua alcune cause sociali, culturali e politiche delle varie forme di antipolitica e conclude con qualche indicazione su cosa politici, cittadini, media e accademici potrebbero fare per tenerla, per quanto possibile, a bada.

In un recente volume (Antipolitica. Protagonisti e forme di un’ostilità diffusa, il Mulino, 2022) ho provato a gettare un po’ di luce sulle diverse forme che può assumere il tanto evocato, ma sempre vagamente definito, sentimento di antipolitica. Nel farlo, ho adottato il punto di vista che mi è proprio, vale a dire quello del sociologo della politica. Dal momento che i sociologi sono pagati per mettere in discussione i luoghi comuni, ho tentato di fare del mio meglio per affrontare criticamente il tema del travagliato rapporto dei cittadini con la politica. Il compito non è dei più semplici perché il fenomeno è frutto di un intreccio di fattori che spaziano dalle trasformazioni della politica (i partiti, le carriere politiche, la partecipazione) a quelle che toccano le nuove identità e condizioni sociali dei cittadini (più istruiti, più informati, meno deferenti) alle nuove forme della comunicazione politica (frammentazione del discorso politico, logica del sound byte, personalizzazione, spettacolarizzazione) e molto altro ancora.

Per raccapezzarsi in questo quadro così confuso e incerto, è allora utile fornire una definizione di “antipolitica”, procedere a qualche distinzione di massima, individuare la principali cause della sua diffusione e indicare qualche possibile strategia contenitiva (o anche solo lenitiva). Cominciando con la definizione, l’antipolitica può essere definita come l’insieme dei sentimenti, degli atteggiamenti e dei comportamenti attraverso i quali si esprime avversione, disprezzo, ostilità e perfino odio nei confronti dei principali simboli e attori della politica democratica. Gli antipolitici guardano con sospetto ed esprimono giudizi severi sugli uomini politici, specie se di professione. Considerano i partiti come luoghi in cui si intrecciano oscure solidarietà e si concludono affari poco limpidi. Vedono le istituzioni della rappresentanza – assemblee rappresentative ed esecutivi – come spazi distaccati dalla vita reale, frequentati da persone attente solo al proprio tornaconto personale e che beneficiano di privilegi immeritati. L’antipolitica può poi essere considerata come una delle dimensioni del populismo. I populisti, detto in altri termini, oltre a essere animati da atteggiamenti antintellettuali, a contrapporre popolo ed élite e attribuire una unità di intenti e di interessi al popolo, sono generalmente anche antipolitici. Al contrario, si può essere antipolitici senza essere populisti.

Proprio come si fa coi populisti, è poi utile distinguere tra politici antipolitici e cittadini antipolitici. Si può allora parlare di un’antipolitica dall’alto, che riguarda la classe politica e i dirigenti di partito (quelli che, spesso impropriamente, sono chiamati “leader”), e un’antipolitica dal basso, che attiene invece agli elettori. Va da sé che i due fenomeni sono strettamente legati e diano a volte forma a una spirale per la quale è l’esistenza di un’ampia massa di cittadini antipolitici che induce i politici ad adottare retoriche antipolitiche al fine di conquistarli alla loro causa. Quando sono i politici stessi a parlar male dei politici e i partiti antipartito si diffondono, i cittadini non possono che rafforzare la propria credenza nella inutilità e dannosità della politica, dei suoi attori e delle sue istituzioni.

A proposito dell’antipolitica, un errore che spesso si compie è considerarla un fenomeno nuovo o comunque recente. In verità, i partiti e i politici hanno sempre deluso porzioni consistenti dell’elettorato. La politica ha sempre avuto i suoi detrattori e i suoi critici. La storia è piena di politici che hanno criticato le forme della politica col malcelato intento di fare le scarpe ai politici in quel momento al potere. Magari sotto altro nome, l’antipolitica fa dunque parte della fisiologia della democrazia. Ma quali sono oggi le fonti più copiose di antipolitica? Per rispondere a questa domanda è opportuno riprendere la distinzione tra antipolitica dall’alto e dal basso prima accennata.

Per quanto riguarda l’antipolitica dal basso, è in primo luogo da notare che, per dirla con una battuta, non ci sono più i cittadini di una volta. La massiccia crescita dei livelli di istruzione, la trasformazione in senso antiautoritario e antigerarchico della società, il drastico crollo della deferenza sono tutti fattori che inducono un cambiamento profondo del rapporto tra cittadini, politica e politici. Si creano così, tra le altre cose, aspettative illusorie sulle risposte che la politica e la democrazia possono fornire. La politica democratica, infatti, genera continuamente equivoci su cosa aspettarsi da essa e questi equivoci la condannano inesorabilmente a deludere. Alla lunga, com’è inevitabile che sia, la sistematica delusione delle aspettative si tramuta in disaffezione e ostilità.

Altre cause dell’antipolitica dei cittadini riguardano alcune trasformazioni della sfera politica. Prendiamo il principale bersaglio degli antipolitici: i politici di professione. Indipendentemente dal partito di appartenenza e dei gruppi sociali che proclamano di voler rappresentare, i politici appaiono sociologicamente sempre più simili tra loro: hanno un’estrazione sociale e livelli di istruzione per lo più medio-alti, provengono da ambiti lavorativi socialmente apprezzati. Per esempio, negli ultimi 30 anni i liberi professionisti sono stati il ceto professionale più rappresentato nel parlamento italiano, con una percentuale che oscilla tra il 30% e il 40%. Considerati tutti insieme, gli inoccupati, gli studenti e gli operai sono stati a lungo sotto il 5% e solo nelle ultime due legislature, con l’ingresso in massa dei neofiti della politica del Movimento 5 Stelle, hanno sfiorato il 10%. Inoltre, solo circa il 5% dei parlamentari eletti nel 2018 possiede la licenza elementare o media, mentre un altro 20% ha conseguito il diploma di maturità. Tutti gli altri sono laureati, alcuni anche con un titolo postlaurea come il dottorato di ricerca. È vero che una perfetta rappresentanza sociologica dell’elettorato non è mai esistita, ma ai tempi dei partiti di massa questa “imperfezione” risultava più accettabile perché era diffusa l’idea che spettasse ai partiti rappresentare e difendere gli interessi di specifiche classi o gruppi sociali. Nel momento in cui i partiti diventano interclassisti e abbandonano l’idea di essere il braccio politico di una classe sociale, ecco che il guscio sparisce e i politici rimangono nudi davanti ai loro elettori. Anche da qui nasce l’idea – che in molti genera ostilità e disprezzo – che i politici siano un gruppo di privilegiati.

Anche alcune trasformazioni dei partiti contribuiscono a generare la rabbia e l’ostilità che serpeggia nell’elettorato. Secondo l’analisi sviluppata a metà anni ’90 da Richard Katz e Peter Mair, il più importante tratto evolutivo dei partiti contemporanei consiste nell’aver sostituito la loro “naturale” logica competitiva con una collusiva. I partiti avrebbero alzato barriere per impedire a nuovi attori l’ingresso nel campo della politica, dando vita ad accordi di cartello finalizzati a mantenere posizioni oligopoliste all’interno del mercato politico. Da spazio fisico e simbolico in cui i cittadini potevano partecipare e organizzarsi per far arrivare la propria voce e le proprie richieste fin dentro le istituzioni, i partiti sono diventati oggi un luogo quasi esclusivamente popolato da eletti. Le loro campagne elettorali sono sempre più professionalizzate e affidate ad agenzie specializzate che riservano i loro servizi al miglior offerente. L’impegno degli attivisti per la conquista del consenso elettorale sul territorio conta ora molto meno. La conseguenza è che nei partiti contemporanei la figura dei militanti diventa obsoleta e irrilevante. Tuttavia, la partecipazione non scompare del tutto, ma assume forme e significati diversi. Essa diviene poco più che una coreografia che correda e legittima le narrazioni di un capo, ormai unico riferimento riconoscibile del partito. Se gli iscritti e gli attivisti diventano quasi irrilevanti, per portare avanti campagne elettorali centrate sulla comunicazione e sulla continua realizzazione di sondaggi di opinione servono, invece, molte risorse economiche. Queste risorse arrivano al partito grazie alla loro presenza nelle istituzioni, sotto forma di finanziamento pubblico o di risorse messe a disposizione degli eletti. Si realizza così un abbraccio, sempre più stretto, tra il partito e lo Stato. Da associazioni di cittadini accomunati da un ideale politico, i partiti si trasformano in agenzie di professionisti ai quali sono delegati alcuni compiti necessari per far funzionare la democrazia e il suo circuito elettorale. Malgrado alcune trasformazioni possano giudicarsi inevitabili e figlie dei tempi, molti cittadini sono affetti da un sentimento di retrotopia e continuano a percepire come “giusto” e buono solo un modello di partito fatto di militanza e partecipazione. Si genera così un sentimento di delusione e ostilità che si indirizza verso gli uomini di partito e tutti i politici di professione ritenuti responsabili di questa trasformazione, percepita come una degenerazione.

Da queste poche battute, che riassumono il ragionamento più ampio e articolato sviluppato nel libro, si evince che le cause della diffusione dell’antipolitica non sono né superficiali, né recenti. È dunque probabile che esse accompagneranno la politica e la democrazia ancora a lungo. Del resto, in una società altamente differenziata, complessa, frammentata, in rapido mutamento, mediatizzata, e che è attraversata da processi di accumulazione capitalistica che producono diseguaglianze insopportabili tra paesi ed entro ciascun paese, il posto assegnato alla politica è particolarmente scomodo e i suoi “fallimenti”, non importa se reali o solo percepiti, appaiono inevitabili. Quel che si può allora fare per restringere il gap delle aspettative che genera il cattivo giudizio nei confronti della politica è lavorare su due fronti: quello della classe politica e quello dei cittadini. Sul lato dell’offerta, sarebbe utile che i politici frenassero la pazza corsa delle promesse demagogiche e irrealistiche che alimentano le aspettative dei cittadini. Sul lato della domanda, i cittadini dovrebbero imparare a conoscere meglio la politica, evitando di scambiarla per un podio da cui è possibile modellare a piacimento la realtà.

In mezzo, tra i politici e i cittadini, si situano i media e gli studiosi. I primi, com’è evidente, sono parte essenziale della questione. Le rappresentazioni della politica che essi confezionano – basate su trame personalistiche, analisi stereotipate, spettacolarizzazione dei problemi sociali, imposizione del frame della crisi permanente, enfatizzazione dei fallimenti ecc. – mistificano la pratica e depistano i cittadini. La politica democratica non è raccontata per come è veramente, vale a dire un faticoso, incerto e imperfetto processo di governo e di mediazione di interessi legittimamente contrastanti, ma come un mondo artefatto popolato da bugiardi seriali, litigiosi, nullafacenti e immotivatamente privilegiati.

Gli accademici sono anch’essi parte del problema, con le loro analisi su come la democrazia dovrebbe funzionare e come, invece, (non) funziona. Troppo spesso le rappresentazioni normative e irrealistiche della politica aumentano il gap delle aspettative. È vero che il loro è appena un bisbiglio rispetto alla grancassa dei media, ma le due arene non sono poi così nettamente separate e i discorsi prodotti in un ambito possono, in modi più o meno lineari, riversarsi nell’altro e contribuire a dar forma alla cultura politica e alle credenze diffuse di un paese.

La conclusione del ragionamento è allo stesso tempo amara e paradossale: proprio nel momento in cui ne avremmo più bisogno, per governare fenomeni sociali complessi e di portata globale, l’azione della politica democratica è indebolita dalla sfiducia dei cittadini e dalle continue e sfibranti denunce di politici spregiudicati, dei media, degli imprenditori, degli esperti. La politica democratica non è onnipotente, ma nemmeno del tutto imbelle e incapace di incidere sulla realtà. Dal momento che non esiste un vuoto di potere, farla arretrare implicherebbe lasciare spazio ad altre forze regolatrici della vita sociale, come la politica autoritaria, il mercato, la tecnocrazia o la teocrazia. Tutto considerato, malgrado le sue evidenti e fisiologiche imperfezioni, conviene allora trattar meglio la politica democratica, pretendere che svolga bene il compito che la società le assegna e tenersela ben stretta.

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