Il Rapporto di Mario Draghi sul futuro della competitività (insieme a quello di Enrico Letta sul mercato unico) è una pubblicazione fondamentale, destinata a definire l’agenda della prossima Commissione europea. Secondo Draghi, le fondamenta del modello di crescita economica europea sono messe a dura prova. L’espansione del commercio mondiale è in declino, l’era del gas russo a basso costo è finita e le nuove preoccupazioni per la sicurezza richiedono una revisione fondamentale delle politiche. Per affrontare la sfida è necessario mobilitare 800 miliardi di investimenti pubblici e privati. In poche parole, i responsabili politici europei devono cambiare paradigma nel governare l’economia se l’UE vuole rimanere rilevante mentre si intensifica la competizione economica e politica tra Cina e Stati Uniti.
Dal punto di vista dello Stato sociale, il Rapporto rappresenta un significativo passo avanti nel considerare in termini positivi la relazione tra crescita economica e politica sociale. La forte enfasi sulla produttività sostenuta da conoscenze e competenze segna le distanze dalla focalizzazione sulla competitività di costo (intesa come basso costo unitario lordo del lavoro) che ha dominato i primi anni della Grande Recessione e riporta in primo piano la concezione della politica sociale come fattore produttivo. Tuttavia, riteniamo che l’appello di Draghi a “preservare” il modello sociale europeo sia inutilmente difensivo, come se in tempi di invecchiamento accelerato e di maggiore competizione geopolitica, la competitività e la produttività non rientrassero nelle competenze degli Stati sociali europei. Non è così: la prosperità economica è funzione della produttività e dell’occupazione, che è proprio ciò che uno Stato sociale solido supporta.
Il Rapporto Draghi avrebbe tratto vantaggio da una lettura più attenta del Rapporto del gruppo di alto livello 2023 The Future of Social Protection and the Welfare State, commissionato dalla Commissione europea (di seguito Rapporto HLG). Draghi può essere concreto sulla “questione dei soldi”, ovvero sui miliardi per investimenti pubblici e privati, ma il Rapporto è piuttosto impreciso sulla “questione delle persone”, ovvero su coloro che devono essere mobilitati e come. Inoltre, il Rapporto non dedica sufficiente attenzione alle questioni di governance. Draghi riconosce che la popolazione europea in età lavorativa è destinata a diminuire di 25-30 milioni di unità nei prossimi anni, ma non offre una soluzione articolata. La demografia non è un destino. In questo contributo, sosteniamo che uno Stato sociale efficace, che sostenga il potenziale lavorativo non sfruttato dell’Europa attraverso un’occupazione inclusiva con una maggiore autonomia per le famiglie a doppio reddito e un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata, è fondamentale per realizzare un’Unione europea più competitiva e prospera. Contestiamo inoltre la proposta di Draghi di ridimensionare la governance economica della UE.
Riformulare la narrativa sulla spesa per il welfare e la crescita economica. Per dimostrare che tipo di Stato sociale è necessario per sostenere un’economia più competitiva, è innanzitutto essenziale contrastare alcune idee popolari, ma sbagliate, sul rapporto tra spesa sociale e crescita economica. L’invecchiamento della popolazione – con l’aumento dell’aspettativa di vita e il calo della fertilità – comporta infatti ulteriori pressioni fiscali sulla spesa pubblica. Per troppo tempo, il dibattito sull’invecchiamento della popolazione si è largamente concentrato sui risparmi per ridurre i costi unitari del lavoro, i deficit fiscali e gli indici di dipendenza degli anziani. Una delle chiare lezioni politiche della Grande Recessione è che il consolidamento fiscale – soprattutto nell’Europa meridionale – ha, di fatto, aggravato la recessione. Il presupposto errato di un presunto trade-off tra spesa per il welfare e crescita economica ha precluso le riforme degli investimenti sociali necessarie perché i modelli di welfare siano di sostegno della produttività e della partecipazione alla forza lavoro. È indispensabile riconoscere che non esiste una relazione negativa tra la spesa sociale e la crescita economica o la competitività, anzi. Come mostrano le figure 1 e 2 (siamo grati a Daniel Alves Fernandes dell’Università di Leiden per il suo aiuto nella compilazione di tutte le figure), i paesi europei che spendono molto in welfare ottengono risultati migliori in termini di crescita pro capite e di indicatori di competitività proprio perché sostengono la produttività e l’occupazione.
Ciò che conta, per comprendere meglio il rapporto tra spesa sociale e crescita economica, non è l’entità della spesa, ma la sua composizione. A questo proposito, come mostreremo in un nostro libro di prossima pubblicazione, gli Stati membri dell’UE presentano enormi differenze. Quelli con un alto tasso di occupazione e di competitività, come la Danimarca o i Paesi Bassi, destinano quote più o meno uguali della loro spesa sociale ai giovani (ad esempio, istruzione e assistenza all’infanzia), alla classe operaia (ad esempio, protezione sociale) e agli anziani (ad esempio, spesa pensionistica e assistenza a lungo termine). In Grecia e in Italia, circa due terzi della complessiva spesa sociale sono destinati agli anziani, lasciando poco per investire nei bambini, sostenere le famiglie a doppio reddito o sostenere i disoccupati.
Alta occupazione e alta produttività sono del tutto compatibili con un modello di welfare basato sull’investimento nei giovani e sul sostegno alle famiglie a doppio e singolo reddito. Questa strategia permette di rispettare gli attuali impegni nei confronti degli anziani in materia di pensioni e assistenza. In altre parole, esiste un vasto potenziale non sfruttato per migliorare il progresso economico e il benessere sociale in tutta l’UE.
La sfida che i mercati del lavoro europei devono affrontare per adeguarsi all’invecchiamento demografico è epocale ma gestibile. Nelle proiezioni demografiche si prevede comunemente che l’indice di dipendenza degli anziani (cioè il rapporto tra le persone in età lavorativa e quelle più giovani e anziane) si deteriorerà nei decenni a venire. L’HLG ipotizza che questo rapporto rimarrebbe invariato se il tasso di occupazione tendesse a circa l’85% e se, allo stesso tempo, l’età media di pensionamento salisse a 70 anni. È importante sottolineare che queste congetture non sono irrealistiche, dato che oggi alcuni Stati membri raggiungono tassi di occupazione vicini all’80% e il pensionamento volontario tardivo – cioè oltre l’età pensionabile ufficiale – è comune. Mentre la carenza di manodopera si fa sentire, circa il 21% della forza lavoro europea rimane inattiva. Secondo le stime dei servizi della Commissione europea, se si portassero tutti gli Stati membri alla pari con quelli che ottengono i migliori risultati si potrebbero inserire nel mercato del lavoro 17 milioni di donne, 13 milioni di anziani e 11 milioni di persone poco qualificate (le categorie si sovrappongono). Tuttavia, per raggiungere questo obiettivo, occorre una profonda trasformazione dello Stato sociale. È qui che il paradigma politico dell’investimento sociale, la principale raccomandazione politica del HLG, acquista maggiore importanza.
Lo stato sociale orientato agli investimenti sociali. Nelle società che invecchiano, la forza dell’economia della conoscenza nel lungo termine dipende sempre più dal contributo che la politica sociale può dare all’economia produttiva. Questo aspetto si comprende meglio adottando una prospettiva che comprenda l’intero arco della vita. Un pensionamento sicuro dipende in modo cruciale da come le persone si sono comportate durante la loro vita lavorativa, il che, a sua volta, è fortemente correlato alla qualità dei loro anni d’infanzia. In effetti, è in atto una logica di “moltiplicatore del corso della vita”, in base alla quale i ritorni cumulativi delle politiche sociali, di cui si beneficia nel corso della vita, generano un ciclo di benessere in termini di maggiore occupazione, uguaglianza di genere, minore povertà intergenerazionale, maggiore produttività e crescita e migliore sostenibilità fiscale.
Il ciclo inizia con investimenti precoci nei bambini attraverso un’istruzione e un’assistenza di buona qualità per la prima infanzia, che si traducono in migliori risultati scolastici. Questo, a sua volta, si ripercuote su un’occupazione più alta e più produttiva nel medio termine. Nella misura in cui la partecipazione all’occupazione è sostenuta da politiche di conciliazione vita-lavoro, tra cui servizi di assistenza all’infanzia a prezzi accessibili e congedi parentali generosi, si riducono i divari di genere nei salari e nell’occupazione, poiché le famiglie a doppio reddito offrono una migliore protezione contro la povertà infantile. Gli investimenti in stili di vita attivi e salutari, un maggiore accesso alla formazione e opzioni di pensionamento più flessibili consentono agli anziani di lavorare più a lungo. Nel complesso, queste politiche contribuiscono a rendere l’occupazione più elevata, stabile e produttiva nel corso della vita, con la conseguenza di ampliare la base imponibile e di poter sostenere gli impegni complessivi in materia di welfare. In breve, la logica di base dello “Stato sociale basato sull’investimento” è che per mantenere le pensioni è necessario investire nei bambini!
La logica dello Stato sociale basato sull’investimento si allontana dalla concezione classica dello Stato sociale, che lo vede principalmente al servizio della redistribuzione. Parte dall’assunto di base che tutti facciamo affidamento sul welfare in diverse fasi della nostra vita per motivi di salute, pere l’istruzione, per la cura dei bambini, nei periodi di disoccupazione, nel pensionamento e per l’assistenza agli anziani. Poiché i beneficiari del welfare sono per lo più categorie transitorie, è più proficuo analizzare come l’erogazione del welfare interagisca dinamicamente con la demografia familiare (genere, fertilità), l’istruzione e la formazione delle competenze (offerta effettiva di lavoro e produttività) in relazione alla futura base imponibile, soprattutto in periodi di demografia avversa.
Dal punto di vista della redistribuzione, una critica comune è che la riforma degli investimenti sociali devierebbe la spesa a danno dei classici programmi di protezione sociale e/o avvantaggerebbe in modo sproporzionato le classi medie già benestanti (i cosiddetti effetti Matthew). Tuttavia, come abbiamo dimostrato in un recente rapporto, questa è un’altra convinzione errata: i Paesi che ottengono risultati migliori negli investimenti sociali ottengono risultati migliori anche nella maggior parte degli indicatori di equità. Reti di sicurezza adeguate e inclusive sono parte integrante dello Stato sociale degli investimenti sociali e addirittura una condizione preliminare per il suo successo. La pandemia COVID-19 ci ha ricordato che le reti di sicurezza sono fondamentali per preservare la domanda e l’occupazione e consentire ai Paesi di riprendersi rapidamente.
Inoltre, come mostrato nella Figura 3, non esiste un trade-off tra la spesa per i servizi abilitanti (tra cui assistenza all’infanzia, istruzione e formazione, politiche attive del mercato del lavoro, invecchiamento attivo e assistenza a lungo termine) e la spesa per la protezione sociale classica (per i sussidi di disoccupazione, l’assistenza sociale, le prestazioni familiari e le pensioni). I Paesi che spendono di più per i servizi sociali abilitanti impegnano anche più risorse per la protezione sociale.
Infine, gli investimenti sociali, come tutti gli investimenti, danno i loro frutti nel medio termine, ma hanno bisogno di risorse immediate per essere finanziati. Questo ci porta alla nostra seconda riserva nei confronti del rapporto Draghi, che riguarda la governance.
Inserire l’investimento sociale nella governance economica europea. Mentre siamo d’accordo con la diagnosi di Draghi riguardo alle sfide e alle opportunità, l’analisi della governance ci sembra meno convincente. Draghi sostiene che il Semestre europeo per il coordinamento delle politiche si è rivelato troppo burocratico e largamente inefficace e che, pertanto, dovrebbe essere sostituito da un nuovo Quadro di coordinamento della competitività incentrato sulle priorità strategiche a livello europeo, lasciando inalterate solo le regole di bilancio. Ci permettiamo di dissentire. Nel corso degli anni, il Semestre europeo ha acquisito la competenza intellettuale per orientare la riforma del welfare in direzione degli investimenti sociali. Il Semestre è diventato un veicolo di apprendimento sociale in grado di promuovere l’iniziativa politica con i feedback del monitoraggio sulle priorità della riforma. Sebbene spetti anzitutto alla politica nazionale di portare le riforme al traguardo, le raccomandazioni e i rapporti sulle riforme del Semestre hanno significativamente plasmato e codificato la svolta politica degli investimenti sociali in tutta Europa. Soprattutto dopo l’introduzione dei Piani di ripresa e resilienza dell’UE (RRF), le raccomandazioni sono state sostenute da impegni nazionali ancora più forti, condizionati dalle risorse finanziarie dell’UE.
Ridurre il Semestre a nude regole di bilancio interromperebbe il processo di apprendimento sociale che si è attivato negli ultimi anni, collegando esplicitamente le regole di bilancio agli investimenti pubblici e alle riforme strutturali per raggiungere la sostenibilità di bilancio a medio termine. Lo scorso marzo, per la prima volta, in una riunione congiunta del Consiglio ECOFIN-EPSCO si è discusso del potenziale degli investimenti sociali per stimolare la crescita economica e la produttività, con grande merito della Presidenza belga (e di quella spagnola), che – come dimostrato da Vandenbroucke e altri – ha agito da importante agenda-setter. Tuttavia, è necessario spingersi oltre per integrare le priorità degli investimenti sociali nel quadro fiscale dell’UE.
Gli Stati membri più “falchi” temono legittimamente che, etichettando (alcune) politiche sociali come investimenti, si abbassino gli argini alla spesa. D’altra parte, se i bilanci destinati alla politica sociale continueranno a essere trattati solo come un costo, la politica fiscale ignorerà gli effetti positivi sull’occupazione di una riforma degli investimenti sociali sensibile al ciclo di vita e fondamentale per la prosperità e il benessere dell’Europa. Inoltre, la bomba a orologeria della demografia negativa sta ticchettando. Senza investimenti sociali ora, le tensioni sul bilancio non potranno che intensificarsi nel medio termine. Come primo passo, il Consiglio ha deciso uno sforzo coordinato per misurare i rendimenti degli investimenti sociali. Tuttavia, la transizione degli investimenti sociali – guidata dalle raccomandazioni del Semestre – dovrà alla fine diventare parte integrante dei piani strutturali di bilancio e delle analisi di sostenibilità del debito. In caso contrario, i miliardi extra di Draghi potrebbero rimanere inutilizzati perché non c’è personale qualificato in grado di svolgere quel lavoro.
* Questo articolo è stato originariamente pubblicato in inglese su Social Europe (www.socialeurope.eu) il 5 novembre 2024.