Sembra che il libro di Piketty sia il più comprato ed il meno letto negli Stati Uniti. Da un lato c’è l’interesse per il tema, dall’altro la scoperta che si tratta di una lettura impegnativa. Il fatto che l’autore abbia cercato di rendere i temi accessibili anche ai non esperti di economia ha portato a una dimensione di quasi mille pagine. Tuttavia è un libro che vale la pena di leggere, non soltanto perché contiene una documentazione impressionante sulle disuguaglianze ma anche perché suggerisce un’interpretazione delle loro cause e formula interessanti proposte di intervento. Proprio alla principale di queste proposte, l’introduzione di un’imposta globale sui patrimoni, è dedicato questo articolo.
Probabilmente un titolo più rispondente al contenuto del libro sarebbe stato “Il patrimonio nel XXI secolo”. Infatti il termine “capitale” fa inevitabilmente pensare a Das Kapital, cioè al capitale industriale, ai profitti dei capitalisti, proprietari dei capannoni e delle macchine. Ovviamente i capitali dell’industria fanno parte del capitale alla Piketty, ma vi sono anche gli immobili (soprattutto strutture residenziali), i brevetti e il know-how, nonché la ricchezza finanziaria in tutte le sue multiformi (pericolose) vesti.
La tesi di Piketty è che il rapporto patrimonio-reddito sta tornando dappertutto ai livelli che aveva nella belle époque, a cavallo tra ottocento e novecento. Questo processo si accompagna ad un aumento della diseguaglianza nella distribuzione del reddito, dovuto in buona misura al fatto che il rendimento del patrimonio, nel suo complesso, si mantiene nettamente superiore al tasso di crescita del reddito. Negli anni compresi tra le due guerre mondiali i patrimoni hanno subito una caduta molto accentuata; nei trenta gloriosi successivi la distanza tra il tasso di rendimento del patrimonio e quello del reddito si è ridotto, e in qualche caso anche invertito, ma ora le forze di fondo che regolano la dinamica del rapporto stanno di nuovo riemergendo e portano ad un tendenziale aumento, in particolare dovuto alla diminuzione del tasso di crescita del reddito.
All’autore questo tendenza spontanea non piace, non la trova giusta e preferirebbe tornare ai primi decenni del secondo dopoguerra. Lo strumento principale che Piketty suggerisce di utilizzare è un’imposta progressiva sul patrimonio. Questa imposta dovrebbe essere introdotta non a livello nazionale ma su scala mondiale; tuttavia, la dimensione europea o quella di un paese come gli Stati Uniti potrebbero essere sufficienti.
L’imposta cui pensa Piketty è sostanzialmente molto simile a l’impôt de solidarité sur la fortune da tempo adottata in Francia. Si tratta di un’imposta ordinaria, cioè periodica (su base annuale), non straordinaria, cioè una tantum. L’imposta quindi deve essere tale da poter essere pagata, in condizioni normali, con il rendimento del patrimonio, con l’ovvia eccezione della parte d’imposta che grava sulla casa d’abitazione, dove il proprietario riceve un reddito in natura. Inoltre, essa deve essere progressiva, con una struttura a scaglioni simile a quella dell’imposta sul reddito: fino ad un certo livello il patrimonio è esente, quindi viene colpito con un’aliquota prima contenuta e poi via via crescente.
A titolo d’esempio Piketty propone tre aliquote: zero (cioè una fascia esente) fino ad un milione di euro; 1% da un milione a cinque milioni; 2% dai cinque milioni in su. In questo modo si ottiene un prelievo che in rapporto al patrimonio risulta crescente, come nella seguente figura.
Come si vede l’incidenza, cioè il rapporto imposta/patrimonio, dopo il milione cresce, prima velocemente poi sempre più lentamente, tendendo verso il 2%, ma senza mai raggiungerlo.
Un’imposta così congegnata, afferma Piketty, raccoglierebbe mediamente due punti di PIL (in Italia una trentina di miliardi). Infatti coloro che sono soggetti all’imposta, pur essendo solo il 2,5% dei contribuenti, possiedono il 40% del patrimonio (i patrimoni sono molto più concentrati dei redditi). Si tratta quindi di una massa pari a due volte il PIL, e l’applicazione delle aliquote dell’1% e del 2% sugli scaglioni del patrimonio superiori a 1 o a 5 milioni fornisce approssimativamente un gettito pari ai due punti di PIL.
In Francia il limite esente, che in precedenza era di 800.000 euro, è di un milione e 300.000 euro; gli scaglioni sopra questo limite sono 5, con aliquote che vanno dallo 0,5% all’ 1,5%; il gettito si colloca poco sopra i 4 miliardi. Si tratta quindi di un decimo rispetto ai 40 miliardi (il 2% del PIL francese) di cui parla Piketty. In parte ciò deriva dall’aumento del limite esente, e dal fatto che le 5 aliquote sono più basse di quelle da lui proposte. Ma anche quando il limite era di 800.000 e le aliquote raggiungevano l’1,8% il gettito era sempre di 4 miliardi, o poco più. Ciò è dovuto anche a due decisioni prese da Sarkozy: con la prima ha elevato l’abbattimento del valore della prima casa dal 20% al 30%; con la seconda ha stabilito che la somma fra l’imposta sul reddito e quella di solidarietà non dovesse eccedere il 50% del reddito del foyer fiscal. L’incidenza di queste due misure è , però, molto limitata.
Ben maggiore è, senza dubbio, l’importanza dell’evasione, cioè dell’occultamento all’estero (dalla vicina Svizzera a lontani paradisi fiscali) di una parte del patrimonio, soprattutto quello finanziario. Ad esempio, secondo alcune stime i capitali degli italiani in Svizzera raggiungerebbero i 180 miliardi, e si tratta sicuramente di patrimoni sopra il milione di euro. Un’ulteriore e ancora più importante causa del deludente gettito è rappresentata dalle agevolazioni, in termini di riduzioni dei valori da dichiarare, concesse ai contribuenti. A parte il già citato abbattimento del 30% del valore della casa d’abitazione – di cui, peraltro, non si comprende la logica, considerando che è previsto un primo scaglione di patrimonio esente – queste riduzioni o esenzioni hanno lo scopo di ridurre l’imposta sulle attività produttive e di favorire i risparmi indirizzati verso le azioni di società; i pactes d’actionnaires, ad esempio riducono significativamente l’imposta se l’azionista si impegna a conservare le azioni per più anni. Ora coloro che sottoscrivono i pactes sono proprio i proprietari delle imprese, che molto spesso rientrano tra i maggiori possessori di capitali.
Accanto alle riduzioni previste dalla legge, vi sono poi le riduzioni “fai da te” dei contribuenti. Siamo sempre nell’area delle imprese a ristretta base sociale, dove è molto difficile determinare il valore delle attività produttive . In effetti solo per le società quotate in borsa si può dire che esista un valore determinabile con certezza (la media dei corsi azionari dell’anno). Per tutte le altre ci sono criteri più o meno oggettivi, ma non privi di inconvenienti. Si può pensare ad esempio di utilizzare una media triennale degli utili e capitalizzarli in base a un determinato tasso, oppure si può fare riferimento al valore dell’attivo del bilancio. Ma sono metodi molto discutibili; ad esempio in Italia metà delle srl e spa presenta utili nulli o negativi. Non si tratta solo di evasione, ma del fatto che i soci, che lavorano nell’azienda, ricevono una remunerazione che contribuisce a diminuire l’utile, fino ad annullarlo. Inoltre, i valori patrimoniali a bilancio spesso risalgono a molti anni addietro e, quindi, prescindendo dall’avviamento, si arriva a cifre molto ridotte. Determinare il valore di queste imprese è oggettivamente molto difficile e, per di più, da noi è difficile determinare anche il “vero” valore degli immobili. In Francia i valori degli immobili da dichiarare in sede d’imposta di solidarietà sono quelli correnti di mercato, mentre le due imposte locali sugli immobili, la tax fonciére e la tax d’habitation si basano su valori di tipo catastale. In effetti, in quel paese l’amministrazione è in grado di controllare se i proprietari di immobili con valore elevato presentino la propria dichiarazione e lo facciano in modo veritiero. C’è da dubitare che l’Agenzia delle entrate sia in grado di fare altrettanto.
Piketty sottolinea la necessità che a livello europeo, se non a livello mondiale, sia data completa comunicazione sulle attività finanziarie, in modo da poter identificare i contribuenti da sottoporre all’imposta patrimoniale progressiva. Ma anche se ciò fosse realizzato resterebbe il problema, di cui si è detto, relativo ai proprietari delle imprese; questi ultimi, se il valore delle loro quote fosse calcolato correttamente, finirebbero quasi tutti per possedere patrimoni superiori al milione di euro. Ma il calcolo corretto di quelle quote resta problematico anche per un’amministrazione efficiente.. Inoltre l’obiettivo di non indebolire la struttura finanziaria delle imprese entra in contrasto con quello di elevare il gettito dell’imposta. Al riguardo, è eloquente l’esperienza della Francia: qui l’imposta di solidarietà certamente attenua un po’ la diseguaglianza, ma per frenare la tendenza del rapporto capitale-reddito a crescere o, ancora di più, per invertire la sua tendenza, come vorrebbe Piketty, occorre un gettito ben maggiore. Per assicurarlo bisognerà superare le serie difficoltà politiche che certamente sorgeranno, alimentate anche dalle reazioni del mondo produttivo.