ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 183/2022

30 Novembre 2022

Più strumenti per affrontare l’inflazione

Andrea Boitani partendo dalla considerazione che l’inflazione è oggi alimentata soprattutto dall’aumento del prezzo dell’energia ed ha significativi impatti di carattere distributivo e sulla strategia di riduzione delle emissioni inquinanti, argomenta come, per ridurre questi impatti e limitare i costi sociali della disinflazione, la politica monetaria deve essere affiancata da una politica comune europea per gli acquisti di gas nonché da strumenti regolatori e di command and control.

Affrontare l’inflazione che flagella il mondo (dopo anni di prezzi stagnanti) significa, in realtà, affrontare tre questioni diverse ma strettamente intrecciate. La prima, ovviamente, è quella più strettamente macroeconomica, che si manifesta in una crescita del livello generale dei prezzi fuori misura (+10,6% il tasso di variazione annuale, registrato a ottobre, nell’Area euro), con gli impatti che essa sempre ha sul potere d’acquisto dei salari e degli stipendi e sul valore reale di debiti e crediti, quando i contratti (di lavoro e finanziari) non siano indicizzati o lo siano solo parzialmente. La seconda è quella degli impatti distributivi. Intendiamoci, l’inflazione ha sempre impatti distributivi (per esempio tra creditori e debitori, ma non solo). Ne ha di molto più ampi quanto più elevato è l’aumento dei prezzi dell’energia (+41,5% nello stesso periodo di riferimento) e dei prodotti alimentari (+13,1%), poiché energia e alimenti rappresentano una quota maggiore della spesa da parte delle famiglie con redditi bassi. Ma ci sono anche impatti asimmetrici tra diversi paesi, alcuni più dipendenti dal gas (e dal petrolio) come Germania e Italia (dove l’inflazione ha ormai superato il 10%) e altri meno (come la Francia, che ha un’inflazione sotto il 7%); alcuni importatori netti di gas e petrolio (i paesi europei, la Cina) altri autosufficienti o addirittura esportatori netti (gli Stati Uniti). Alla lunga, ne risultano cambiamenti di competitività tra i paesi, che inevitabilmente generano tensioni all’interno di una Unione Monetaria come quella Europea. Alcuni paesi, come l’Italia, hanno affrontato la questione distributiva mediante sussidi selettivi alle famiglie più disagiate o alle imprese più energivore. Gli impatti negativi sulla spesa delle famiglie con redditi più bassi, sono stati contenuti, ma l’indice dei prezzi al consumo non ne ha beneficiato.
La terza questione ha di nuovo a che fare coi prezzi dell’energia e in particolare del gas (di cui si fa ampio uso geopolitico), perché questi impattano sul percorso programmato di riduzione delle emissioni di CO2 dovute all’utilizzo di combustibili fossili. Tra i quali, però, proprio quello meno dannoso per l’ambiente, il gas naturale, dal 2021 ha fatto registrare la maggior crescita dei prezzi e la loro maggior volatilità (al mercato TTF di Amsterdam da 11,5€ al MWh del 30 settembre 2020 ai 121€ al Mwh il 22 novembre ‘22, passando per picchi sopra i 220€ a marzo ‘22 e i 340€ ad agosto ‘22). Un prezzo stabilmente crescente del gas segnalerebbe la progressiva maggiore convenienza di investire nelle fonti rinnovabili. Si tratta di un segnale utile, ancorché insufficiente a realizzare nei tempi previsti una transizione energetica imponente. Ma l’elevata volatilità cui stiamo assistendo offusca i segnali di prezzo, rendendoli più incerti, e contribuisce a rallentare, invece di accelerare, gli investimenti in rinnovabili, mentre fa crescere la tentazione di riaprire le centrali a carbone nei paesi che dispongono di questa materia prima (la peggiore dal punto di vista della CO2). Inoltre, il finanziamento del programma europeo di transizione energetica era, nelle intenzioni, almeno in parte basato sulla prevista riduzione della spesa per le fonti fossili grazie alla progressiva riduzione della domanda, anche a prezzi moderatamente crescenti. I risparmi sulle fonti fossili avrebbero così permesso di compensare l’eccezionale spesa per investimenti nelle rinnovabili. Al contrario, l’aumento troppo rapido e l’eccessiva volatilità del prezzo delle fonti fossili (soprattutto il prezzo spot del gas, cui è in grande misura legato il prezzo dell’energia elettrica) fa sì che la transizione non generi “alcun risparmio di spesa e nessuna disponibilità aggiuntiva per finanziare gli investimenti” (S. Fantacone, D. Floros, Crisi o transizione energetica? Diarkos, 2022, p. 39).
Per molti anni si è ritenuto che la politica monetaria fosse l’unico strumento utilizzabile per contrastare l’inflazione, pensando di dover affrontare solo la prima delle questioni dette prima, quella macroeconomica. Rialzando i tassi di interesse reali (e portando quelli nominali al di sopra del tasso di inflazione atteso) si punta a ridurre la domanda aggregata, cioè si spingono (direttamente e via restrizione del credito) imprese e consumatori a spendere meno per investimenti e consumi durevoli e si cerca di ancorare le aspettative di inflazione degli operatori a un livello inferiore rispetto all’inflazione corrente. Si è discusso su quanto tempo la politica monetaria impieghi ad essere efficace nel ridurre l’inflazione, ma è da tempo tramontata l’illusione di poter ottenere, con la manovra monetaria, qualsiasi tasso di inflazione desiderato senza costi. Tutti ormai condividono che, per essere efficace, la politica monetaria deve creare recessione e, quindi, maggiore disoccupazione. Sono i costi sociali da pagare per la disinflazione (evitabili solo in presenza di perfetta e istantanea flessibilità di prezzi, salari e tassi di interesse e aspettative razionali: condizioni fuori della realtà).
A maggior ragione per la triplice natura dei problemi che dobbiamo affrontare, la politica monetaria non può essere il solo strumento, come del resto non poteva esserlo quando l’inflazione in Europa ristagnava testardamente sotto l’obiettivo del 2% e l’allora componente del Board della BCE Vitor Constâncio denunciava i “rendimenti decrescenti della politica monetaria” (Constâncio V., “The return of fiscal policy and the euro area fiscal rule”, REM Working Paper 0127-2020). Del resto, neppure una singola politica fiscale o di regolamentazione sarebbe in grado di dipanare i nodi senza crearne altri a monte o a valle. È necessario attivare strumenti che agiscano nei modi appropriati da un lato sul mercato all’ingrosso del gas, dall’altro sulle tariffe per gli utilizzatori del gas stesso e dell’energia elettrica. In particolare, qui si suggerisce la combinazione tra acquisto collettivo (europeo) all’ingrosso, un sistema di price cap dinamico sulle tariffe per gli utilizzatori. Ai segnali di prezzo si suggerisce di unire un sistema di incentivi e di command and control finalizzato a sviluppare gli investimenti per la produzione di energie rinnovabili.
Da più parti si è invocato un price cap sugli acquisti di gas all’ingrosso. Ma il prezzo all’ingrosso del gas non è un prezzo amministrato da un soggetto sovrano, come invece sono (o possono tornare a essere) le “tariffe” al consumo. Senza entrare nei dettagli, talvolta fantasiosi, delle proposte circolate, il contenimento di fatto del prezzo del gas potrebbe avvenire solo se tutti i paesi europei formassero un cartello di domanda, delegando la Commissione ad agire sul mercato per conto di tutti e quindi subentrando alle imprese, private o pubbliche che siano, nei contratti col monopolista russo (Gazprom) e i venditori di gas liquefatto in giro per il mondo. Qualora al prezzo contrattato dalla Commissione non fosse possibile ottenere tutto il gas richiesto dai diversi paesi andrebbe messo in atto un meccanismo di razionamento tra paesi concordato in anticipo. Detto in modo un po’ brutale, si potrebbe sostenere che l’economia di guerra richieda strumenti eccezionali e non le finezze dei mercati (peraltro fintamente) concorrenziali. Il cartello di domanda in Europa è stato sperimentato con un certo successo già con i vaccini anti-Covid, anche se la secretazione dei documenti e l’opposizione della Commissione al rilascio dei brevetti lasciano sospettare una qualche cattura del soggetto pubblico comunitario.
Senza imporre un improbabile price cap a un mercato “libero” (e sempre più finanziarizzato come il TTF olandese), si potrebbe, dunque, ottenere un qualche contenimento dei prezzi e della loro volatilità come risultato indiretto di una sospensione dell’attuale assetto di mercato. Non si tratterebbe di una sospensione permanente, ma il tempo che durerà dovrebbe essere sfruttato per ridisegnare il mercato che verrà.
La seconda linea di intervento riguarda il prezzo “finale” del gas (e, a cascata, dell’energia prodotta da fonti fossili) e punta a contenere l’andamento dei prezzi al consumo. Si tratterebbe di costruire un sistema di prezzi amministrati per gli utilizzatori finali (sia famiglie che imprese) basato su un price cap dinamico. Il che vuol dire un profilo delle tariffe crescente nel tempo indipendentemente dai costi della materia prima, che segnali la necessità e la convenienza a muoversi verso le fonti rinnovabili. Il meccanismo è illustrato nella Figura 1, dove la linea nera rappresenta un ipotetico andamento del prezzo di mercato del gas, la linea rossa rappresenta il prezzo contrattato dal cartello di domanda e la retta blu il prezzo con cap del gas fornito agli utilizzatori finali.

Figura 1: Price cap e prezzo contrattato

Oggi e finché saranno presenti forti tensioni sul prezzo del gas, i distributori di gas e i produttori di energia beneficerebbero di un sussidio, pari alla differenza tra il prezzo contrattato dalla Commissione e che pagherebbero i produttori e il prezzo che verrebbe pagato dagli utilizzatori, stabilito con il price cap. Come già stabilito in Germania, il price cap si applicherebbe solo a una quota dei consumi dell’anno precedente, in modo da incentivare il risparmio energetico. Inoltre, tale quota potrebbe essere decrescente nel livello di spesa, in modo da tutelare con il price cap soprattutto le fasce di utenza più deboli, abrogando bonus vari ed altre provvidenze. Ma quando il prezzo di mercato della materia prima fosse sceso al di sotto del target rappresentato dal price cap, si scioglierebbe il cartello europeo di prezzo e gli utilizzatori pagherebbero una carbon tax. Inoltre, si potrebbe realizzare anche un approssimativo equilibrio di bilancio pubblico intertemporale, visto che la spesa per sussidi nei primi tempi (fino a tk) verrebbe compensata dalle entrate derivanti dalla carbon tax da tk in poi. Chiaro che lo sforzo di bilancio fino a tk è tanto minore quanto più contenuto risulti il prezzo contrattato dalla Commissione e che tale sforzo sarebbe molto più alto
Va sottolineato come, senza un massimale di acquisti a prezzi ridotti si potrebbe assistere – soprattutto nei primi tempi, in cui i prezzi sono più bassi – a un aumento dei consumi di energia da fonti fossili, in contraddizione con i programmi di transizione energetica. Ma l’energia prodotta da fonti rinnovabili deve essere disponibile e, quindi prodotta. Il prezzo stabilmente e prevedibilmente crescente nel tempo dell’energia da fonti fossili è un segnale importante. Da solo, però, non garantisce che la produzione da fonti rinnovabili cresca in misura sufficiente da soddisfare la domanda. Si rende necessario un piano di sviluppo della produzione di energia da fonti rinnovabili, con scadenze ben definite e penalizzazioni per quei produttori che siano in ritardo. I necessari investimenti potrebbero essere incentivati, fin da subito, offrendo alle imprese produttrici di energia che hanno realizzato o realizzano extra-profitti l’alternativa tra investirli (secondo piani concordati e verificabili) o vederli tassati. Naturalmente, tali piani di investimento potrebbero essere assai più robusti se all’interno dell’Unione Europea si riuscisse a trovare un accordo su un fondo pluriennale dedicato allo scopo, da finanziarsi con una nuova emissione di debito comune, come già fatto per il NGEU.
Non sarebbe giusto tacere ai lettori gli ostacoli che si incontrerebbero in Europa e forse anche all’interno di ciascun paese, sulla strada di un accordo cooperativo così ampio e complesso come quello qui tratteggiato, che comporta la revisione di assetti di mercato consolidati, forse eccessivamente idealizzati, e che si sono dimostrati incapaci di funzionare adeguatamente in situazioni eccezionali come quelle che stiamo vivendo. Ci sono interessi privati da domare e reindirizzare, interessi e rigurgiti sovranisti nazionali da superare e comporre per uno scopo comune, complessità tecniche da affrontare con determinazione e creatività. Qualcuno potrebbe dire che tutti questi ostacoli rendono soluzioni cooperative politicamente articolate molto difficili da realizzare. Ma se non ora, quando?

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