Possiamo fidarci delle “riforme strutturali”?

Stefania Gabriele discute il ruolo delle riforme strutturali come strumento per favorire la ripresa della crescita. In particolare si sofferma su una serie di misure presentate come indispensabili per raggiungere alcuni obiettivi largamente condivisi, fra cui il rafforzamento del capitale umano e della ricerca, il miglioramento dell’efficienza della Pubblica Amministrazione e del sistema giudiziario, e sottolinea i limiti degli strumenti di analisi utilizzati dalla Commissione Europea.

Mentre alle politiche di austerità adottate in Europa viene mossa l’accusa di essere responsabili della durata della recessione nel continente, nei documenti e nelle raccomandazioni della Commissione Europea sempre maggiore rilievo viene assegnato alle cosiddette “riforme di struttura”, concepite come strumento per ripristinare la crescita.

Queste riforme, come è già accaduto per l’austerità, vengono presentate come opzioni di natura tecnica piuttosto che come scelte politiche, le quali scaturirebbero da quanto di meglio la teoria economica ha sinora partorito. Le impostazioni economiche non completamente ortodosse vengono ignorate e le resistenze politiche sono considerate una mera difesa di interessi particolari contro quello generale; tutto ciò permette di concludere che non vi sono motivi per sottoporre a discussione democratica la direzione di marcia prescelta. E infatti nel cosiddetto Blue Print (in cui la Commissione delinea il percorso del processo di integrazione economica e politica), l’approdo ad “un grado adeguato di legittimità e di responsabilità democratiche del processo decisionale” viene collocato soltanto nella terza delle tre fasi previste per l’evoluzione dell’Unione.

Nella prima fase si intende realizzare il collegamento dell’erogazione dei finanziamenti attraverso i fondi europei alle condizioni macroeconomiche e all’attuazione delle riforme, con possibilità di riprogrammazione o sospensione da parte della Commissione, secondo un approccio già avviato con il QFP 2014-2020. In questa fase dovrebbe attuarsi anche il coordinamento ex ante delle riforme attraverso uno “strumento di convergenza e di competitività”, che includerebbe appositi accordi contrattuali con un sostegno finanziario, obbligatori per gli Stati soggetti a procedura per gli squilibri eccessivi. Nella seconda fase, coordinamento e sorveglianza sarebbero estesi al mercato del lavoro e alle politiche sociali, sostanzialmente espellendo la questione centrale del lavoro e del conflitto distributivo dal dibattito politico. Occorre chiedersi come questo possa accadere.

L’uso retorico delle riforme è sicuramente molto importante. Il nucleo essenziale degli interventi sul mercato del lavoro e dei prodotti viene associato ad altre misure presentate come indispensabili per raggiungere alcuni obiettivi largamente condivisi: dal rafforzamento del capitale umano e della ricerca al miglioramento dell’efficienza della Pubblica Amministrazione e del sistema giudiziario, che dovrebbero ridurre corruzione, evasione e sprechi [1. A tale proposito, si veda l’esame approfondito sull’Italia svolto nell’ambito della sorveglianza macroeconomica; cfr Macroeconomic Imbalances Italy 2014)]. In questo modo si ottiene di far apparire tutti gli interventi come necessari e non controversi. In realtà, le politiche di riforma suggerite, al di là gli obiettivi che vengono sbandierati, spesso si caratterizzano per la scarsa chiarezza del disegno complessivo in cui sono inserite, per la confusione nella indicazione degli strumenti da utilizzare e per la rilevante incertezza, oltre che per l’enorme lentezza, dei loro effetti. Consideriamo qualche esempio.

In alcune analisi della Commissione, condotte con modelli formali [2. Si veda European Commission (2013), Quarterly Report on the Euro Area, Vol. 12, n. 4, The growth Impact of Structural Reforms; per un approfondimento, si veda J. Varga, V.Roeger e J. In ‘t Veld (2013), Growth Effects of Structural Reforms in Southern Europe: The case of Greece, Italy, Spain and Portugal, European Economy, Economic Papers 511, dicembre.], sono ipotizzate sia riforme del sistema di istruzione volte ad accrescere la quota di lavoratori a media-alta qualifica, sia agevolazioni fiscali, sotto forma di credito di imposta, sulla spesa per Ricerca e Sviluppo (R&S); in entrambi i casi si sconta un aumento del deficit di bilancio. La riduzione della quota di lavoratori a bassa qualifica, nel modello adoperato dalla Commissione, assicurerebbe un incremento della produttività e spingerebbe in alto i relativi salari; d’altro canto, la maggiore quota di lavoratori qualificati impegnati nella R&S avrebbe l’effetto di comprimerne i salari, di far crescere l’occupazione nella ricerca, di ridurre il costo dei brevetti e di favorire l’ingresso di nuove imprese in questo settore, con un conseguente aumento dei livelli di attività. I risultati si manifesterebbero, però, nel lunghissimo periodo (ben 50 anni!), con l’ingresso delle nuove coorti nel mercato del lavoro; l’esito finale per l’Italia sarebbe un aumento del prodotto potenziale dell’8%.

Dal canto loro, i crediti d’imposta alla R&S farebbero aumentare le attività di ricerca grazie alla riduzione dei costi, con la conseguenza di far crescere sia la produzione di brevetti sia la domanda di lavoro qualificato. Gli effetti sull’output sarebbero limitati inizialmente, quando si verificherebbe una riallocazione dei lavoratori high skilled da altri settori produttivi alla R&S, ma diventerebbero evidenti con il trascorrere del tempo, in funzione dell’elasticità dell’offerta di lavoro qualificato e del concretizzarsi dell’attività di ricerca in nuove linee di prodotto (l’effetto è comunque stimato in appena mezzo punto di PIL). Si concede che i sussidi alla ricerca nel settore pubblico potrebbero provocare minori effetti di spiazzamento, perché in genere si tratta di ricerca di base non sviluppata dalle imprese private, ma questo tipo di intervento non viene simulato.

Un po’ diversa è l’impostazione adottata per l’analisi della situazione italiana: in questo caso sono posti sotto accusa i bassi rendimenti dell’istruzione e le carenze del sistema di istruzione, individuate in particolare negli elevati tassi di abbandono scolastico e nella scarsa partecipazione ai programmi di apprendimento permanente. La Commissione Europea consiglia una maggiore differenziazione salariale, volta a stimolare la prosecuzione degli studi.

Una prima considerazione riguarda la difficoltà a trarre indicazioni non ambigue di policy da queste analisi. In particolare, non è chiaro se sia auspicabile che il costo relativo del lavoro qualificato aumenti o si riduca. Il contenimento del salario degli high skilled, contribuendo alla riduzione dei costi, potrebbe favorire il loro assorbimento da parte delle imprese; d’altro canto, l’aumento di quel salario potrebbe stimolare la debole offerta di personale qualificato. Si rischia, poi, di non tenere conto di alcune nostre peculiarità che vengono riconosciute anche nell’analisi della Commissione. Si concede, infatti, che le riforme del mercato del lavoro realizzate dagli anni ’90 hanno deteriorato i salari dei più giovani e istruiti, mentre le riforme delle pensioni hanno reso sempre più difficile il loro ingresso nel mercato del lavoro. Tuttavia, non si pensa a tornare indietro, anzi la Commissione sembra sempre preoccupata di favorire la partecipazione degli anziani [3. A tale proposito, si veda il “Position Paper” dei servizi della Commissione sulla preparazione dell’Accordo di partenariato e dei Programmi in Italia per il periodo 2014-2020. Rif. Ares (2012) 1326063 – 09/11/2012.].

Peraltro, non è solo il rendimento dell’istruzione (comunque positivo in Italia) a stimolare l’investimento in capitale umano, ma conta anche il rischio connesso alla probabilità di trovare un’occupazione. Questo è legato in primo luogo alle caratteristiche della domanda di lavoro, e dunque della struttura produttiva (come nicchiando ammette la stessa Commissione) e in secondo luogo alle diverse opportunità che si offrono agli individui in funzione anche della loro origine sociale. La domanda di lavoro qualificato è debole in Italia, ed è opinione piuttosto diffusa che sia calata a seguito delle riforme del mercato del lavoro, che hanno stimolato la concorrenza sul lato dei costi piuttosto che della tecnologia. Oggi un processo di ristrutturazione produttiva non potrebbe che essere il frutto di un rilancio dell’economia, meglio se accompagnato da opportune politiche industriali e da misure volte a dare uguali opportunità indipendentemente dal background familiare.

La seconda considerazione riguarda il rapporto tra queste politiche e i tagli alla spesa pubblica. Anche nell’analisi della Commissione Europea viene riconosciuta la necessità di aumentare l’impegno di bilancio nell’istruzione e nella ricerca. Il taglio di queste voci di spesa, attuato nel nostro paese, è, dunque, una scelta interamente nostra, anche se motivata con i vincoli finanziari imposti dall’Europa. Spesso la bandiera delle riforme è stata fatta sventolare per coprire meri tagli di risorse. Si pensi alla “riforma Gelmini-Tremonti”, che ha tagliato i finanziamenti alla scuola pubblica per più di 2 miliardi a regime, puntando sulla riduzione del costo per alunno (peraltro in continuità con l’impostazione della legislatura precedente) e del tempo scuola. Non resta che sperare che oggi si vada in una diversa direzione. Il provvedimento del settembre scorso (decreto legge 104/2014, convertito in legge 128/2013) in effetti ha attribuito maggiori risorse al sistema di istruzione e alla scuola, anche se largamente inferiori ai tagli precedentemente effettuali, tanto che per aumentare le ore di apertura delle scuole e contrastare la dispersione si prevede il ricorso persino alle associazioni senza scopo di lucro.

Ambiguità simili si osservano anche nel capitolo Pubblica Amministrazione, dove i tagli di spesa sono elevati al rango di spending review e nobilitati come riforme. Sotto il cappello della riforma della PA vengono inserite a Bruxelles, a Francoforte o a Roma operazioni disparate, dall’abolizione del Senato e delle province ai tagli alla spesa di personale e funzionamento, alle controverse riforme della giustizia. Non vi è qui lo spazio per analizzare gli interventi che si sono susseguiti in questo campo dagli anni ’90 fino a quelli recenti del Governo in carica. Tuttavia, gli effetti di bilancio dei grandi cambiamenti costituzionali sono generalmente irrilevanti o difficilmente calcolabili: le relazioni tecniche ad esempio hanno evitato di quantificare l’impatto dell’abolizione delle province (DL 138/2011), e hanno indicato in appena 65 milioni di euro il risparmio per lo svuotamento e lo snaturamento di questo livello di governo (DL 201/2011). Andrebbero piuttosto meglio studiati gli effetti che potranno aversi sul funzionamento del sistema democratico.

I modelli economici su cui si basano le stime degli effetti delle riforme, dal canto loro, di solito del tipo DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium models), simulano gli interventi attraverso l’introduzione di shock esogeni su determinate variabili. In questo contesto, le riforme della P.A. sono considerate uno shock positivo che implica la riduzione dei costi per le imprese. In sostanza si ipotizza che determinati parametri cambieranno per effetto di specifici interventi e si verificano le conseguenze che questo avrà sul sistema economico. Ma la valutazione della capacità della singola riforma di influire effettivamente sulle variabili economiche – per non parlare delle conseguenze sul funzionamento delle amministrazioni e sul compimento delle missioni loro affidate – è questione ben diversa dalla modifica di un parametro di un modello econometrico, e richiederebbe uno studio puntuale delle caratteristiche dell’intervento e della sua adeguatezza nel contesto in cui viene inserito.

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