Il mare. Bisogna cercare di immaginarselo,
di vederlo con gli occhi di un uomo del passato:
come un limite, una barriera che si estende fino all’orizzonte
F. Braudel,
Il Mediterraneo
Lo spostamento delle persone oltre i confini nazionali ha da sempre provocato molteplici cambiamenti sociali, economici e anche politici. Di migrazioni, infatti, si sono occupati storici, demografi, sociologi, economisti e politologi. Tuttavia, la relazione tra migrazioni e potere è stata poco esplorata. In particolare, una qualche attenzione è stata dedicata alla gestione dei flussi e alle politiche migratorie, ossia a come il potere cerchi di controllare e influenzare le migrazioni; ma la relazione inversa, ossia come le migrazioni influenzino il potere, è stata poco approfondita.
Partiamo dalla definizione di potere, precisando fin da subito che occorre occuparsi di un’accezione di potere relativo alla società, ossia a una collettività o comunità, non alla relazione tra singoli. Escludiamo, dunque, la potenza, intellettuale o fisica, che dà facoltà a un individuo di imporre la propria volontà sugli altri.
Secondo Roncaglia (Il potere, Laterza, 2023) per analizzare il potere nella sua accezione sociale sono possibili tre definizioni: il potere come differenza di potenziale, il potere come barriera all’entrata, il potere come peso. Nel primo caso, all’interno della società, hanno potere quelle persone, o quei gruppi di persone, che sono dotate di potenziale (risorse materiali, relazionali, comunicative, ecc.). Nell’ultimo caso, il potere come peso fa riferimento al concetto di quota. Pertanto, chi possiede la quota maggiore, ossia la maggioranza, detiene il potere. Ritorneremo sulla visione del potere come peso più avanti. Per il momento, invece, soffermiamoci sul concetto di potere come barriera. Questo è una nozione consolidata nell’analisi economica che vede il potere di mercato come associato all’esistenza di barriere all’entrata, ossia alla facoltà di chi opera in un settore di escludere altri potenziali concorrenti. Questo concetto di potere come esclusione può essere esteso oltre l’ambito economico ed essere applicato ad esempio al campo politico e culturale.
Chiaramente queste tre definizioni, o dimensioni del potere, sono collegate. Ad esempio, allentare le barriere all’entrata potrebbe tradursi in un cambiamento dei pesi e quindi del potere della maggioranza. Questo, a sua volta, potrebbe spiegare l’utilizzo del potere d’esclusione nei confronti di chi vive oltre i limiti geografici di uno Stato. Si può dunque ipotizzare che la libertà di spostamento è stata costantemente limitata da chi esercita il potere. In altri termini, chi detiene il potenziale ha continuamente imposto barriere per non perdere il proprio peso.
A ben vedere, lo jus migrandi, ossia il diritto di emigrare, fu il primo diritto naturale teorizzato dalla filosofia politica moderna. Il diritto di emigrare, che ovviamente implica il diritto di immigrare in qualche parte della Terra, non vanta origini nobili, dato che fu inizialmente rivendicato al fine di legittimare la conquista spagnola del nuovo mondo. In seguito, venne elevato da John Locke quale garanzia di sopravvivenza nel caso di mancanza, o scarsità, di opportunità di lavoro grazie, appunto, alla possibilità di emigrare, essendoci “terra sufficiente nel mondo da bastare al doppio di abitanti” (J. Locke, Due trattati sul governo. Secondo trattato, 1790).
Cosa succederebbe se non esistessero limiti alle migrazioni? Per rispondere a questa domanda, partiamo dalle teorie di Ferrajoli e dalla sua proposta di un Costituzione della Terra (L. Ferrajoli, Per una Costituzione della Terra, 2022). La libertà di circolazione sulla Terra è, infatti, annoverata tra i diritti fondamentali. “Tutti hanno diritto di circolare liberamente sulla Terra, salvo le limitazioni stabilite dalle leggi per motivi di sanità. Ogni individuo ha diritto di emigrare da qualunque paese, incluso il proprio, e di tornare nel proprio paese. Questo diritto è garantito dal divieto di qualunque violenza o costrizione diretta a impedirne l’esercizio e dall’obbligo della Federazione della Terra di consentire e disciplinare la conseguente immigrazione” (art. 14, La libertà di circolazione sulla Terra).
Secondo Ferrajoli, lo Stato nazionale è oggi incapace di rispondere alle sfide nei confronti delle quali ci siamo scoperti interdipendenti. Oltre a questo, e forse ancor più grave, lo Stato nazionale è in contraddizione con il principio di pace e con l’universalismo dei diritti umani. Infatti, come già scriveva Spinelli nelManifesto di Ventotene, “la sovranità assoluta degli Stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi, poiché ciascuno si sente minacciato dalla potenza degli altri e considera suo ‘spazio vitale’ territori sempre più vasti, che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza, senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquetarsi che nella egemonia dello Stato più forte su tutti gli altri asserviti” (A. Spinelli, Per un’Europa libera e unita, 1941).
Per rispondere a tutto ciò, viene proposta da Ferrajoli un’idea di Costituzione della Terra che, come tutte le Costituzioni, si poggia su popolo costituente. In questo caso, il popolo costituente include tutti, il che equivale a dire che non esclude nessuno. “Tutti gli esseri umani sono cittadini della Terra” (art. 5, Cittadinanza della Terra). Più esplicitamente, si tratta di un patto di convivenza pacifica tra identità diverse, ma tutte con eguali diritti. Un progetto realizzabile, appunto, attraverso l’eliminazione delle barriere che sono fonte del potere di esclusione.
Si fa pertanto esplicitamente riferimento ai confini politici degli Stati nazionali, i quali permettono l’esclusione di chi non è nato all’interno (o non ha antenati nati all’interno) dalla garanzia dei diritti fondamentali o dalla possibilità di benessere che alcuni paesi hanno raggiunto. In ultima analisi significa anche garantire a tutti il diritto di muoversi liberamente, il diritto di migrare appunto.
L’assetto appena analizzato è la conseguenza di una visione della Costituzione in cui si pattuisce la solidarietà e la riduzione delle eccessive disuguaglianze socioeconomiche. A tal proposito, viene da pensare a Hofstede e ai suoi studi sul concetto di cultura nazionale (G. Hofstede, Culture’s consequences: International differences in work-related values, 1980). Hofstede individua l’organizzazione del potere sociale come un problema condiviso da tutte le collettività, a cui però ognuna ha trovato la propria risposta. Più precisamente, Hofstede propone una nomenclatura delle diverse culture nazionali in base al grado di accettazione del membro più escluso. In questo intervallo di valori, la visione di Ferrajoli può essere messa all’estremo più basso, in cui non si accettano esclusioni e dunque si cerca di eliminare qualsiasi barriera.
Questa è una visione della Costituzione che si contrappone a quella che, invece, rappresenta l’espressione dell’identità e della volontà di un popolo. Quest’ultima è la concezione nazionalistica e identitaria della Costituzione formulata da Carl Schmitt nella prima metà del secolo scorso (C. Schmitt, Il custode della Costituzione, 1931) e riproposta dai movimenti sovranisti e dai partiti populisti insieme all’idea di popolo dotato di volontà unitaria e di democrazia come onnipotenza delle maggioranze.
Veniamo finalmente all’idea di potere come il peso relativo di un gruppo all’interno della società, ossia l’esistenza di una maggioranza, o addirittura di un demos omogeneo, alla base di una Costituzione che esprime un’identità e una volontà unitarie e che si mette in rapporto di esclusione con quanti rispetto a questa identità e volontà sono differenti o dissenzienti. Una Costituzione che nasce e si poggia sulla superiorità numerica in seno alla collettività.
Questo di nuovo ci porta con il ragionamento a parlare di migrazioni e dello spostamento delle persone oltre i confini. Come evidenziato dal recente articolo di alcuni economisti (Barsbai, Rapoport, Steinmayr e Trevesch, “The Effect of Labor Migration on the Diffusion of Democracy: Evidence from a Former Soviet Republic”, American Economic Journal: Applied Economics, 2017), quando le persone attraversano i confini, sono esposte a nuove idee. Le migrazioni internazionali, dunque, possono cambiare le opinioni, incluse le preferenze politiche.
I sociologi hanno sottolineato, prima degli economisti, come la migrazione possa essere un’esperienza trasformativa per i migranti stessi, ma hanno tralasciato l’effetto di spillover che questo può avere su chi rimane nei paesi di origine. L’articolo appena citato si basa sull’idea che i migranti assorbano nuove norme mentre sono all’estero e le trasmettano alle loro comunità di origine con cui conservano dei rapporti. Pertanto, in un mondo sempre più interconnesso, migrare non significa più fare “exit” poiché, non solo chi lascia il Paese non perde la “voice” (Hirschman, Exit, Voice, and Loyalty, 1970), ma è anche in grado di veicolare la formazione di una volontà, o preferenza, politica sempre più estesa e globale. In ultima analisi, chi migra è in grado di contrastare il potere.
Si può dunque prospettare che, grazie a questa crescente integrazione, l’umanità formerà una società civile planetaria che avrà il peso necessario per allargare oltre i confini dello Stato il paradigma costituzionale e garantire a tutti, senza esclusione, la garanzia dei diritti fondamentali e di fornire una risposta solidale alle molteplici minacce ed emergenze globali.