Premiare il merito? Un’indicazione ben più problematica di quanto spesso riconosciuto

Elena Granaglia riflette sul merito e come premiarlo. Partendo da alcune obiezioni alla meritocrazia da tempo presenti nella letteratura di etica pubblica, Granaglia si sofferma su ulteriori questioni problematiche sviluppate in un libro recente di Boarelli, che rimandano a varie complicazioni nella definizione e nella misurazione del merito. Sulla base di questa analisi, Granaglia conclude affermando che per premiare il merito occorre essere consapevoli dei tanti limiti del criterio meritocratico.

In un paese come il nostro, dove clientelismo e nepotismo sono diffusi, l’origine sociale determina i destini di molti giovani e i contributi di chi più si sforza sono spesso sottovalutati, premiare il merito appare un’indicazione inattaccabile. D’altro canto, la meritocrazia, almeno a parole, è un credo centrale delle società democratiche dove, a differenza di quanto avveniva nelle vecchie aristocrazie, i vantaggi dovrebbero dipendere dalla bravura individuale e non dallo status ereditato. Premiare il merito è, invece, nozione assai ambigua e controversa.

Uno dei problemi su cui più la letteratura di etica pubblica ha portato l’attenzione riguarda l’influenza diffusa del caso. Si consideri il merito come insieme (somma o moltiplicazione) di abilità e sforzo. Le abilità sono influenzate da una pluralità di variabili che nulla hanno a che fare con i singoli individui. La lotteria naturale presiede alla definizione dei nostri geni e la lotteria sociale influenza sia le dotazioni naturali (le condizioni di povertà/svantaggio in cui versa la madre potrebbero influenzare fin dalla gravidanza le abilità dei figli) sia le possibilità di sviluppo delle abilità stesse. Quest’ultima influenza è inevitabile, anche qualora si abbracci una nozione sostanziale di meritocrazia volta a sganciare i destini dei figli da quelli dei genitori. Il clima culturale che si respira in famiglia, i modelli di ruolo offerti dai genitori, le aspirazioni e le scelte di vita di questi ultimi non possono, infatti, non influenzare la formazione dei figli.

Ora, qual è il merito di avere fortuna nella lotteria naturale e sociale? Vi è poi il caso che potremmo definire idiosincratico: ad esempio, avere avuto un insegnante particolarmente stimolante, un amico che ha aiutato nei momenti di difficoltà…   Naturalmente, all’origine degli effetti della lotteria sociale vi sono politiche e non-politiche, dunque, variabili attribuibili a scelte: rispetto ai singoli che li subiscono, gli effetti sono, tuttavia, casuali.

Un antidoto, per attenuare almeno il caso della lotteria naturale, potrebbe essere circoscrivere il peso delle abilità, privilegiando, nella definizione del merito, l’elemento dello sforzo, prima facie, più direttamente riconducibile ai singoli. Ma siamo sicuri che sia così? Anche la capacità di sforzarsi è influenzata dalle abilità naturali e, pure rispetto sia alle capacità di sforzarsi sia alle preferenze nei confronti dello sforzo, resta all’opera l’influenza del contesto familiare/sociale. Premiare lo sforzo potrebbe, poi, significare premiare i meno bravi.

Se si considera poi il merito in termini del prodotto/della prestazione cui abilità e sforzo danno luogo, l’influenza altrui diventa ancora più forte. Quello che noi produciamo, il prodotto marginale che offriamo e per il quale vantiamo un credito, è inevitabilmente congiunto con quanto altri fanno: è co-prodotto. Basti pensare ai contributi offerti dalle infrastrutture economiche e dalla tecnologia ereditata dal passato, dagli investimenti pubblici effettuati e dalle risorse immateriali fornite dal capitale sociale prevalente e dall’etica del lavoro, dagli altri individui con cui il nostro lavoro è inevitabilmente intricato. Non solo, ma le remunerazioni che otteniamo dipendono dalla scarsità o dall’abbondanza delle nostre abilità nonché dalle altrui valutazioni. Come disse Warren Buffet, “la sua grande fortuna è stata quella di vivere in un paese in un periodo in cui i suoi talenti in materia di allocazione del capitale erano particolarmente apprezzati” (la citazione è nella Hutton Review of Fair Pay, 2010, Londra, p. 19).

Un altro problema, già rilevato all’inizio dell’800, concerne quello che Ferguson definiva “il lato oscuro delle carriere aperte ai talenti”. Chi risulta vincitore della gara competitiva guarda i perdenti con disprezzo o quanto meno con disinteresse, orgoglioso della propria superiorità. Al contempo, i perdenti si sentono oggetto di stigma e oscillano fra sentirsi colpevoli per essere rimasti indietro e provare invidia e risentimento verso chi li ha superati. Il rischio complessivo è la rottura dei legami sociali.

Queste considerazioni guardano soprattutto alle difficoltà di premiare il merito sul piano della remunerazione. Non è giusto in sé o ha conseguenze negative non tenere conto del carattere in larga misura casuale dei meriti nello stabilire le ricompense ad essi associati.

A queste considerazioni aggiungono nuova materia di riflessione alcuni libri appena pubblicati sulla meritocrazia. In questo contributo, mi soffermo sul libro di Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito (Laterza, 2019) e in particolare sul contributo offerto alla messa a fuoco di alcune complicazioni concernenti la definizione e la misurazione del merito, dunque, a prescindere dalle remunerazioni. Rispetto alle complicazioni della definizione, sarebbe oggi prevalente una riduzione del merito al possesso di competenze per la valorizzazione del capitale umano. Questa definizione, a dispetto della sua apparente neutralità, rifletterebbe una visione del tutto parziale e opinabile della conoscenza e delle relazioni fra individui. Seppure in termini un po’ semplicistici, il focus è sul contributo della conoscenza come strumento che nei diversi contesti in cui viviamo ci permette di massimizzare i vantaggi materiali e le finalità estrinseche di riconoscimento sociale, permettendoci di farci vivere al meglio la gara della vita. Fanno da corollario una visione essenzialmente competitiva delle relazioni fra individui (non importa se esse sono limitate ai singoli o avvengono fra gruppi di singoli) e l’adesione/l’adattamento al reale. La dimensione dell’istruzione quale mezzo per favorire la socializzazione alla comune appartenenza e la partecipazione democratica alla soluzione dei problemi di tutti risulta sottovalutata.

La contrapposizione fra le due prospettive può forse essere meglio colta da due esempi presentati nel volume. L’uno concerne il varo, nel 2018, nel nostro paese, del sillabo sull’educazione all’imprenditorialità quale abilità centrale al di fuori anche dell’impresa. L’altro riguarda la visione della scuola offerta da Camus quando, rievocando le sue esperienze adolescenziali all’amico Pierre, definiva la scuola pubblica nella dimensione orizzontale di ponte levatoio, che crea legami fra diversi, piuttosto che in quella verticale della scalata della gerarchia sociale.

Rispetto alle complicazioni relative alla misurazione, vi è, innanzitutto, l’irriducibile multidimensionalità del merito. Anche a questo riguardo, un esempio, fra i tanti forniti dal libro, potrebbe essere utile. Siamo in una classe elementare ai cui alunni è chiesto di commentare la seguente situazione. Ci sono tre formiche che nel ritornare a casa trovano la porta sbarrata da un oggetto che sembra una pietra. Un moscerino offre aiuto, ma le formiche rifiutano: se non riescono tre formiche, come potrebbe riuscirci un debole moscerino? Il moscerino chiama la chiocciola che si era addormentata di fronte alla porta (l’ostacolo, dunque, non era un sacco), che si allontana liberando l’accesso. Da questo episodio, fra le domande volte a verificare la comprensione del testo, viene chiesto agli alunni cosa voglia far capire il racconto. Le risposte sono a) il mondo degli insetti è molto interessante, b) non sempre le cose sono come sembrano; c) i moscerini sono più intelligenti delle formiche e d) non sempre l’unione fa la forza. Nessuno degli alunni risponde nel modo ritenuto corretto, ossia b), ma tutti loro sono in grado di offrire giustificazioni ragionevoli delle loro scelte. Situazioni simili si pongono poi nella produzione di tutti i servizi sociali, i cui prodotti sono caratterizzati da una pluralità di dimensioni di qualità.

Se così, le misurazioni del merito sono inevitabilmente condannate a osservare solo una parte, trasformando il merito in cosa è valutabile, o nei termini di Marcuse, la valutazione nella cosa. Questa trasformazione, favorendo comportamenti opportunistici, favorirebbe anche sfiducia e deresponsabilizzazione, contro le attese stesse del merito, che dovrebbe, invece, premiare la responsabilità.

La misurazione stessa, poi, incide sulla parzialità della definizione di merito. Misurare implica parcellizzare, rendendo tutte le prestazioni simili a merci che possono essere osservate e cui può essere attribuito un prezzo.

Sottolineare il peso del caso non azzera la responsabilità individuale e il senso stesso di essere individui con un qualche potere di agency sul proprio destino? E le critiche alle competenze non ignorano la situazione italiana, dove le carenze nell’apprendimento sono evidenti e politiche dopo politiche si prosegue senza alcuna valutazione? E, comunque, quando scegliamo un cardio-chirurgo o un ingegnere, non vogliamo la persona più competente?

Il rischio di una sostanziale resistenza a qualsiasi valutazione di merito certamente esiste. Penso, però, che nulla nelle osservazioni svolte congiuri inevitabilmente in questa direzione. Ad esempio, tenere conto dell’elemento casuale nell’origine dei nostri meriti non nega il contributo individuale: semplicemente, richiede di prendere in considerazione anche l’influenza della pluralità di variabili che prescindono dal singolo. Certo, distinguere con precisione cosa appartiene ai singoli e cosa deve essere ripartito con gli altri è impossibile. Ma, almeno, saremmo consapevoli che non tutto quello che riceviamo può dirsi nostro e, dunque, progressività delle imposte e trasferimenti hanno una legittimità ben maggiore di quella che oggi spesso è loro attribuita.

Similmente, considerare l’istruzione come un ponte levatoio e strumento di socializzazione alla pratica democratica non ignora necessariamente il peso delle competenze. Già Marshall, ad esempio, nel suo classico lavoro sulla cittadinanza sociale, difendeva l’importanza di politiche educative attente sia al valore in sé dell’istruzione sia al contributo offerto in termini di competenze. Ancora, il riconoscimento sia del ruolo dell’istruzione ai fini della socializzazione alla pratica meritocratica sia della multidimensionalità del merito, lungi dal mettere in discussione la nozione di meriti, guarderebbe a questi ultimi come qualità da sviluppare attraverso un innalzamento della media piuttosto che nella ricerca di impossibili vincitori di continue gare competitive. Un conto, comunque, è l’istruzione obbligatoria dove più vale quanto finora scritto, e un altro l’istruzione terziaria, dove la ricerca delle competenze assume uno spazio maggiore.

Infine, rilevare i limiti della misurazione non implica in alcun modo acquiescere alle carenze nell’offerta di sforzo che sono certamente presenti in molti contesti di erogazione dei servizi pubblici. Al contrario, come si sostiene nel libro di Boarelli, laddove la valutazione sui risultati si dimostrasse problematica per la pluralità di dimensioni di qualità coinvolte, una via potrebbe essere quella della valutazione di merito dei processi: ad esempio, nei processi di cura si è fatto tutto il possibile per evitare i rischi per il paziente e assicurare la qualità dell’assistenza? Un’altra via, aggiungo io, è quella di processi di progressione delle carriere che, rifuggendo dall’uso di misure univoche, si basino su una pluralità d’indicatori, una volta rispettate alcune soglie minime.

In conclusione, essere consapevoli dei tanti limiti del merito potrebbe aiutarci a disegnare politiche più convincenti di premiazione del merito.

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