ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 187/2023

13 Febbraio 2023

Protezionismo e crisi globali: la Grande Depressione degli anni ’30 e la grande Recessione del 2008-09.

Luciano Marcello Milone, nell’articolo che qui riproponiamo pubblicato originariamente a ottobre 2020, si interrogava sul rischio di un crescente ricorso al protezionismo e esaminava il ruolo che esso ha avuto in precedenti crisi globali. Milone mostrava che la risposta protezionistica alla Grande Recessione del 2008-09 è stata significativamente più debole che in precedenti episodi di crisi ed in particolare nella Grande Depressione degli anni ’30 ma riteneva anche che il preoccupante scenario protezionistico che andava delineandosi potesse peggiorare e le tendenze più recenti sembrano dargli ragione.

Il diffuso ricorso a misure restrittive degli scambi, che si è manifestato negli anni recenti in diverse aree dell’economia mondiale, ha alimentato un intenso e controverso dibattito sulle cause della recrudescenza del protezionismo e sulle sue implicazioni per gli sviluppi delle relazioni commerciali internazionali sia nell’immediato che nel medio-lungo periodo. Tra i temi affrontati all’interno di questa problematica si colloca quello, assai complesso, del rapporto tra protezionismo e crisi economiche. Un’ampia evidenza empirica ha documentato la presenza, storicamente consolidata, di una relazione anticiclica tra crescita e ricorso alle barriere commerciali per cui nelle fasi di debolezza ciclica le spinte protezionistiche tenderebbero a rafforzarsi (K. Bagwell e R.W. Staiger, “Protection and the Business Cycle”, Advances in  Economic Analysis & Policy, 2003). In anni relativamente recenti, tuttavia, vari studi hanno individuato un progressivo indebolimento di questa relazione. In merito al rapporto tra protezionismo ed interscambio mondiale durante le crisi economiche, un confronto di grande interesse è quello tra la Grande Depressione del 1929 e la crisi finanziaria del 2008-09 che ha dato origine alla cosiddetta Grande Recessione: la più grave recessione dell’economia mondiale dalla fine del secondo conflitto mondiale, prima della crisi del Covid-19 tuttora in corso del cui impatto, peraltro, non è ancora possibile disporre di una stima definitiva. Tra le ricerche che hanno approfondito questa problematica si segnalano quelle di K. Gawande, B. Hoekman e Y. Cui (“Determinants of Trade Policy Responses to the 2008 Financial crisis”, World Bank Policy Research Working Paper, 2011) e di D. A. Irwin (Trade Policy Disaster: Lessons from the 1930s, The MIT Press, 2012). Dall’osservazione dei dati relativi al biennio 2008-09, anni in cui la flessione della produzione a livello globale ha registrato la sua fase più acuta, e di quelli degli anni 1929-32 emerge che la risposta protezionistica nel caso della Grande Recessione è stata sensibilmente più limitata, rispetto a quanto verificatosi nel corso della Grande Depressione, allorché la proliferazione di misure restrittive degli scambi ebbe un ruolo centrale nella forte contrazione subita a quel tempo dal commercio internazionale. Nel caso della Grande Recessione, viceversa, una copiosa letteratura tende ad attribuire al protezionismo un’incidenza nel complesso modesta, anche se non trascurabile, tra i vari fattori, sia congiunturali che strutturali, che hanno contribuito a generare la flessione del commercio internazionale allora determinatasi. Tale conclusione risulta sostanzialmente confermata anche nel caso in cui il confronto tra le due crisi sia effettuato estendendo l’analisi agli anni di perdurante debolezza economica immediatamente successivi al biennio 2008-09 durante i quali si è registrata una tendenza al rafforzamento delle pressioni protezionistiche. 

Gli studi che hanno focalizzato l’attenzione sulla ricerca delle cause che possono aver concorso a determinare il diverso ruolo del protezionismo in queste due  circostanze storiche hanno condotto ad alcune spiegazioni non necessariamente tra loro incompatibili. Tra esse si segnala l’interpretazione fornita dai contributi di B. Eichengreen e D.A. Irwin (“The Slide to Protectionism in the Great Depression: Who Succumbed and Why?”, The Journal of Economic History, 2010) e di Irwin (op. cit. 2012) per i quali al tempo della Grande Depressione – a differenza da quanto spesso sostenuto nella letteratura –  l’obiettivo prioritario alla base del ricorso pervasivo a misure restrittive degli scambi da parte di numerosi paesi non fu quello di tutelare gli interessi particolari di specifiche attività economiche interne dalla crescente pressione della concorrenza estera, quanto piuttosto quello di stimolare la domanda aggregata e di salvaguardare contemporaneamente la sostenibilità dei conti con l’estero, in presenza di vincoli severi alla manovra sia del tasso di cambio che della politica monetaria. Tali vincoli erano riconducibili all’adesione di quei paesi alle regole del  Gold Standard, nella versione in vigore tra i due conflitti mondiali, che limitava drasticamente la loro possibilità di recuperare competitività sui mercati internazionali attraverso la svalutazione. Al medesimo tempo, la difesa del tasso di cambio di fatto inibiva una manovra espansiva dello strumento monetario che contrastasse la depressione. D’altro canto, un appropriato utilizzo della politica fiscale per chiudere il gap recessivo innescato dalla crisi  trovava uno stringente ostacolo aggiuntivo nell’ortodossia allora dominante del bilancio in pareggio anche nelle fasi di debolezza ciclica. In tale scenario – osservano Eichengreen ed Irwin  (op. cit., 2010)  – l’indisponibilità degli strumenti del tasso di cambio, della politica monetaria e della politica fiscale ai fini della stabilizzazione macroeconomica spinse i paesi legati al regime del Gold Standard al ricorso sempre più intenso al protezionismo come strumento di una politica di riallocazione della spesa mirata a riorientare  la domanda aggregata dalle importazioni verso la produzione interna. A supporto della loro tesi, i due studiosi fanno riferimento all’evidenza empirica da essi raccolta sugli indirizzi di politica economica adottati da un ampio numero di governi nazionali durante la crisi degli anni Trenta dalla quale emergono comportamenti assai dissimili tra i diversi paesi riguardo all’intensità con la quale si fece ricorso alle misure protezionistiche. In particolare, i risultati della loro indagine documentano come negli anni della Grande Depressione l’impiego di misure restrittive degli scambi di norma sia stato significativamente minore in quei paesi che si erano progressivamente distaccati dalle regole del Gold Standard, recuperando spazi di manovra sia per procedere ad aggiustamenti del tasso di cambio che per condurre politiche monetarie espansive. 

Nella spiegazione delle differenze tra l’esperienza degli anni Trenta e quella successiva della Grande Recessione, Irwin (op. cit., 2012) sottolinea l’importanza dei  mutamenti intervenuti nello scenario economico internazionale. Infatti – egli puntualizza – la crisi globale del 2008-09 è venuta a collocarsi in una realtà in cui il regime di cambi vigente tra le grandi aree regionali era un regime di cambi flessibili, lo strumento della politica monetaria non era più condizionato dalle regole imposte dal Gold Standard e non sussistevano più i vincoli dottrinari degli anni Trenta alla gestione della politica fiscale. In tale contesto, i governi nazionali avevano potuto disporre di un maggiore numero di strumenti per fronteggiare le spinte recessive in atto: di conseguenza era venuto meno per essi l’incentivo a ricorrere al protezionismo quale strumento di second best per stabilizzare al proprio interno la produzione e l’occupazione. 

Una diversa analisi del ruolo ridotto del protezionismo nell’esperienza della Grande Recessione, rispetto a precedenti episodi di crisi e, soprattutto, a quanto verificatosi al tempo della Grande Depressione, è fondata su un’argomentazione di political economy del commercio internazionale. A partire dai primi anni Novanta si è assistito ad una rapida espansione delle cosiddette catene globali del valore, protrattasi sino alla crisi del 2008-09 allorché si è manifestato un rallentamento del loro ritmo di crescita. Con esse si intende fare riferimento alla frammentazione dei processi produttivi dei beni tra diversi paesi attraverso varie forme di delocalizzazione da parte delle imprese. Tale fenomeno, che ha condotto ad una sempre maggiore interconnessione tra le economie nazionali, è stato alimentato principalmente sia dalla progressiva riduzione delle barriere commerciali a livello globale che dal progresso tecnologico che ha vistosamente ridimensionato i costi di trasporto, di informazione e di comunicazione. All’espansione delle catene globali del valore è associato il sostanziale incremento della quota dei beni intermedi rispetto ai beni finali nell’interscambio mondiale. La sempre più estesa internazionalizzazione dei processi produttivi attraverso gli investimenti diretti esteri e la diffusione delle catene globali del valore hanno determinato la presenza di un numero crescente di imprese la cui competitività sui mercati internazionali è strettamente condizionata dall’impiego di materie prime e di beni intermedi importati dall’estero. Questo sviluppo delle catene globali del valore ha comportato rilevanti implicazioni per la gestione della politica commerciale. Al riguardo, varie ricerche hanno evidenziato come, in presenza di una stretta interconnessione tra le economie nazionali, risulti sensibilmente indebolita, rispetto al passato, l’efficacia del protezionismo come strumento attraverso il quale un paese colpito da uno shock macroeconomico negativo possa sostenere la produzione interna e l’occupazione a scapito delle importazioni. E’ stato altresì rilevato come l’aumento delle tariffe e delle altre misure restrittive degli scambi da parte di un paese, in un contesto di elevata frammentazione della produzione su scala internazionale, possa condurre a risultati sfavorevoli al proprio interno per l’ampio numero di imprese che fanno largo uso di beni intermedi importati (World Bank, World Development Report 2020: Trading for Development in the Age of Global Value Changes, 2020). Si è stimato che attualmente più dei due terzi del valore dell’interscambio mondiale si svolge nell’ambito delle catene globali del valore e che, al loro interno, una quota elevata delle transazioni commerciali è concentrata in un numero relativamente ristretto di grandi imprese, spesso imprese multinazionali. In uno scenario del genere, sia nei paesi avanzati che in quelli in via di sviluppo, queste imprese sono venute a costituire importanti gruppi di interesse che hanno condizionato in vario modo ed in misura sempre più stringente le scelte di politica commerciale. In particolare negli anni della Grande Recessione – secondo vari studi – le imprese inserite nel sistema delle catene globali del valore avrebbero esercitato forti pressioni sui policy makers nazionali a sostegno del mantenimento di una realtà di economie aperte che sarebbero valse a controbilanciare, almeno in parte, l’azione delle imprese non internazionalizzate e, più in generale, di quanti si erano adoperati nella direzione di un inasprimento delle misure protezionistiche (S.J. Evenett, “What Can Be Learned from Crisis-Era protectionism? An Initial Assessment”, Business and Politics, 2009; Irwin, op. cit.  2012; M. Saito, M. Ruta e J. Turunen, “Trade Interconnectedness: The World with Global Value Chains”, IMF Policy Paper, 2013).

 Ambedue le interpretazioni sin qui illustrate sulle ragioni per le quali la risposta protezionistica in occasione della Grande Recessione è stata meno incisiva rispetto a quanto verificatosi al tempo della Grande Depressione trovano consensi nella letteratura. Vi è inoltre una terza possibile interpretazione, anch’essa – a giudizio di chi scrive – meritevole di grande attenzione e compatibile con le due precedenti. Tale interpretazione è riconducibile al ruolo svolto dalle istituzioni della cooperazione internazionale negli sviluppi della politica commerciale. Soprattutto nel corso degli ultimi decenni, si sono evidenziate alcune tendenze nelle relazioni commerciali internazionali interpretabili quali sintomi del graduale indebolimento del sistema di collaborazione tra i paesi cui si è dato vita alla fine del secondo conflitto mondiale e, in particolare, del ridimensionamento in atto dell’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio) quale istituzione centrale della governance degli scambi internazionali. Pur nella consapevolezza della sua progressiva perdita di incisività, vi è chi ritiene che l’OMC abbia comunque esercitato con relativo successo, durante la Grande Recessione, un’azione di contrasto nei confronti delle numerose istanze protezionistiche avanzate all’interno dei paesi membri che in più occasioni sarebbe valsa a disincentivare l’adozione da parte dei governi nazionali di misure che di fatto avrebbero costituito forme di defezione rispetto agli accordi multilaterali o, quanto meno, a mitigarne l’impatto restrittivo sugli scambi una volta che esse fossero state poste in essere.

Come già accennato, le varie spiegazioni qui brevemente sintetizzate del diverso ruolo del protezionismo nella Grande Depressione e nella Grande Recessione non si escludono vicendevolmente: tuttavia rimane ancora aperto l’interrogativo sul peso relativo attribuibile a ciascuna di esse. In conclusione, si può osservare  che la presenza di  una risposta protezionistica alla crisi del 2008-09 sensibilmente più contenuta rispetto a quanto accaduto in precedenti episodi di crisi non sembra mutare significativamente i termini del dibattito in corso  sulle prospettive future delle relazioni commerciali internazionali. Restano pienamente fondati i  timori che il protrarsi dell’attuale fase critica della cooperazione internazionale possa condurre al consolidarsi di uno scenario mondiale contraddistinto dalla perdita di centralità del multilateralismo degli scambi e dalla conseguente marginalizzazione dell’OMC, nel quale  la comunità internazionale risulta esposta agli elevati costi sociali connessi alla proliferazione di misure commerciali restrittive e discriminatorie poste in essere al di fuori di una qualsiasi strategia di cooperazione tra gli Stati nazionali. Questi timori trovano conferma negli accadimenti degli anni successivi alla Grande Recessione, allorché si sono susseguiti episodi che documentano il diffondersi di pratiche commerciali che hanno alimentato tensioni e conflittualità crescenti tra i paesi membri in quanto ritenute espressione di un loro scostamento dalle regole dell’OMC. Peraltro, come è noto,  l’introduzione di nuove misure protezionistiche si è  intensificata, su scala mondiale, nel corso degli anni più recenti.

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