Pur non essendo vescovo

Luciano Barca fu chiamato da Togliatti e Longo alla segreteria del PCI nel 1960, caso praticamente unico di accesso al vertice del partito da parte di chi era esterno all’apparato, di chi - per dirla con le sue parole - non “era vescovo”. Questo gioco, sostiene Marco Damilano, riassume il suo percorso biografico: la laicità di un'appartenenza e di un percorso politico, sempre rivendicata, ma anche la tensione tra un'ideologia totalizzante e la presenza storica del PCI nella società italiana. Nelle battaglie di Barca a Botteghe Oscure c'è anche il romanzo di formazione di quella generazione politica: la formazione di una classe dirigente, la sua messa alla prova, il rapporto tra la leadership monocratica e la collegialità delle decisioni, la divisione in correnti, i rapporti con gli altri partiti, le relazioni internazionali, il ruolo del Pci nelle grandi trasformazioni di quell'epoca.

Pur non essendo vescovo. È stata la frase che ha accompagnato Luciano Barca nei lunghi anni a Botteghe Oscure, fin da quando entrò nella segreteria del Pci nel febbraio 1960, prima di compiere quaranta anni. Era stato giornalista dell’Unità, redattore capo dell’edizione di Milano e direttore dell’edizione di Torino e poi direttore di “Politica e economia”, un curriculum atipico per un dirigente. Per la prima volta arrivava al vertice del partito una figura esterna all’apparato. Fu Luigi Longo a proporgli la nomina per conto di Palmiro Togliatti, ottenendo a caldo un rifiuto. «Giungo a spiegargli che dopo tanti anni di lavoro giornalistico notturno dubito di poter collaborare con lui che, a quanto ne so, esige la massima puntualità al mattino. Le mie riserve vengono facilmente smontate da Longo: rimarrò, anche perché così desidera Togliatti, direttore di “Politica e economia” e, in via eccezionale, sarò autorizzato ad arrivare in ufficio alle nove». Uscirà dalla direzione nel 1986, quando «con una telefonata di un minuto» Beppe Chiarante gli comunica la decisione del segretario Alessandro Natta di estrometterlo.

Con l’eccezione Barca arriva al vertice del partito uno che non è vescovo. Uno scherzo che raccoglie il senso di una vita alla direzione del Pci: la natura chiesastica del partito, con i suoi riti, le liturgie, il suo pontefice massimo, i cardinali, i curiali, i monsignori, gli abati e gli abatini, ma anche la laicità di un’appartenenza e di un percorso politico, sempre rivendicata, anche nei momenti informali. «Al brindisi ufficiale a Botteghe Oscure per i sessanta anni (brindisi rituale che dall’81 sarà spostato ai settant’anni)», annota Barca il 21 novembre 1980, il giorno del suo compleanno, «scandalizzo i compagni rompendo con la formula sacramentale “Tutto quello che lo sono lo debbo al partito” e ricordando tutte le persone, dalla mia famiglia fino alla marina, cui debbo la mia formazione e alcuni risultati. “Come al solito hai voluto fare il mariuolo”, mi dice Cacciapuoti. “No, ho pensato ad alcune chiacchierate con Longo”».

I suoi diari, raccolti nei volumi delle Cronache dall’interno del vertice del Pci, testimoniano l’esperienza politica di Barca, ma anche la doppia natura del partito che è al tempo stesso una militanza totalizzante e una presenza inserita nella società e nelle istituzioni, sottoposta a cambiamenti e scossoni. La biografia di Barca riassume questa tensione che è il modo di essere del Pci nella vicenda repubblicana. Quel partito diverso dagli altri, orgoglioso della sua alterità, è anche il più partito di tutti in un sistema politico che, in quella che Pietro Scoppola ha definito la Repubblica dei partiti, è il più imitato, esercita una chissà quanto inconscia attrazione per gli altri raggruppamenti di sinistra, a partire dai socialisti, ma anche per i repubblicani e perfino per i democristiani. È nel Pci che si codificano in modo ordinato quelle che negli altri partiti sono traiettorie personali più tortuose: la formazione di una classe dirigente, la sua messa alla prova, il rapporto tra la leadership monocratica e la collegialità delle decisioni, la divisione in tendenze culturali (leggi correnti). E ancora: i rapporti con gli altri partiti, le relazioni internazionali, il ruolo del partito nelle grandi trasformazioni di quell’epoca.

La vita del dirigente era regolata dai meccanismi minuziosi che governavano il funzionamento del partito e del suo vertice. Il tavolo a forma di T della segreteria, da cui il segretario leggeva l’ordine del giorno con sette-otto punti e dirigeva il dibattito, una volta a settimana: «Togliatti presiede e fa contemporaneamente da segretario scrivendo materialmente il verbale con l’immancabile inchiostro verde (è molto più importante scrivere il verbale che presiedere)». L’arredamento immutabile, una pila di libri «insieme a qualche vecchio regalo, orrendo». I tempi della discussione, «alle undici c’è la pausa per il caffè», con l’ossessione per la puntualità, «tutto si svolge con ritmi ordinati, ma serrati», che negli anni del declino si tramuta negli interminabili ritardi con cui cominciano le sedute. Il rapporto tra il segretario e i membri della direzione: «Togliatti ha elevato a principio l’esclusione di ogni rapporto di familiarità. Si era dato come regola di non andare a pranzo o a cena a casa di membri della direzione». Con Barca, però, il rapporto personale si era costruito anni prima con il mandato più intimo, la richiesta di Togliatti di fare compagnia al figlio Aldo in campeggio. Il segretario del Pci viene ritratto come un capo che tuttavia dialoga con i giovani ed è disposto ad ammettere l’errore. Quando Barca si dice pronto a dimettersi dall’Unità, dopo aver giudicato in modo positivo in un corsivo un discorso del papa Pio XII ed essere andato involontariamente in contrasto con la posizione pubblica del segretario, Togliatti lo rassicura: «A proposito di quel discorso di Pio XII non so bene chi di noi due abbia ragione. Forse tu. Perché il testo visto da me era molto parziale».

Non sono aspetti burocratici o formali. Da quelle riunioni e da quelle regole non scritte  passano i dibattiti, gli scontri, le linee strategiche, le divisioni. Il 1956 dei fatti di Ungheria, quando Italo Calvino affronta Giorgio Amendola e il suo doppio linguaggio, quello per la piazza e quello per gli intellettuali. Il centralismo democratico: all’VIII congresso, Barca registra, con lo scrupolo del cronista prima ancora che del delegato, l’intervento di Antonio Giolitti che critica la posizione assunta dal Pci sull’intervento sovietico in Ungheria. «La curiosità che si sposta sul compagno cui sarà affidato il compito di replicare. Si fanno parlare alla tribuna i rituali tre compagni che nessuno segue e poi sale alla tribuna Giorgio Napolitano». I rapporti internazionali con le visite ai partiti comunisti fratelli: in Urss, in Cina nel 1959, quando per l’emozione Barca finisce tra le braccia e un piede di Mao Zedong: «Per fortuna porta scarpe di cuoio da prete di campagna e non gli faccio male, almeno spero». Le guerre sotterranee per arrivare al controllo del partito, con le correnti che impongono, a volte, scelte che anche la Marina avrebbe saputo motivare con più trasparenza. Amendola è un vero capocorrente, che promuove e difende i suoi, Pietro Ingrao rappresenta una sensibilità non organizzata, destinata a essere scompaginata e quindi sconfitta.

La frattura che contrappone fin dagli anni Cinquanta il partito del Nord, a stretto contatto con le grandi aziende e l’innovazione tecnologica (il fossato tra i tecnici e gli operai, «fatto di odio di classe perché la macchina controlla l’operaio e il tecnico controlla e regola ciò che la macchina deve fare. Tutto ciò è sfuggito sia al sindacato sia al partito», annota Barca, e siamo ancora nel 1955), e il partito romano e napoletano, più ideologico e settario. Una spaccatura destinata ad esplodere in pubblico durante la conferenza di Genova (1965) che anticipa l’XI congresso. Nella relazione Barca affronta le trasformazioni avvenute in fabbrica e nella società, che non possono più essere risolte solo per via sindacale o peggio corporativa, e indica un nuovo modello di sviluppo fondato sui servizi e i consumi sociali che condizionano la vita almeno quanto il salario (a partire dalla sicurezza sociale e dalla sanità). Ma nel suo intervento Amendola attacca la relazione, «gioca la carta della demagogia rivendicativa più populista e grossolana. Alla classe operaia interessa una sola cosa: i soldoni, la busta paga. Peccato che Ugo La Malfa non stia qui ad ascoltarlo». E la conferenza termina con l’accusa nei confronti di Barca più temibile per un dirigente: frazionismo. Per aver preso una linea in contrasto con quella del partito e per la volontà di propagandarla. E Longo è costretto a imporgli di lasciare Botteghe Oscure.

Barca resta deputato comunista delle Marche. «Orrenda figura nostra alla Camera», scrive sul diario il 13 luglio 1966. «Abbiamo dato man forte al peggior assistenzialismo democristiano per estendere pensioni e aumenti indiscriminati agli invalidi civili. Inutilmente ho cercato di convincere Ingrao a chiedere garanzie che i soldi vadano a veri invalidi e non a clienti lottizzati. La mia sarebbe, per alcuni compagni del gruppo, una posizione “economicista”. Ovviamente la legge è stata votata quasi all’unanimità, dall’estrema destra all’estrema sinistra». Il partito trasversale della spesa pubblica che avanza all’interno dei partiti ufficiali, affiancandosi negli anni successivi ai partiti occulti della criminalità mafiosa e della loggia massonica P2. È, questa, la prima anti-politica, perché divora come un buco nero la credibilità, l’autorevolezza e l’affidabilità dei partiti votati dagli elettori.

Luciano Barca torna a Botteghe Oscure con la segreteria di Enrico Berlinguer. Come è noto, è l’uomo del Pci che tiene i rapporti con Tullio Ancora, consigliere parlamentare legato ad Aldo Moro. È presente agli incontri tra il segretario del Pci e il leader della Dc. Il primo alla vigilia di Natale 1971, quando la destra dc ha appena bloccato con una manovra la possibilità che Moro sia eletto al Quirinale con i voti comunisti. L’ultimo, il 16 febbraio 1978, un mese esatto prima della strage di via Mario Fani, quando Moro e Berlinguer discutono dell’ingresso del Pci nella maggioranza per la prima volta dopo il 1947. «Un ragionare tra amici ad alta voce. Con naturalezza e franchezza vengono esaminate le varie ipotesi, le ripercussioni nei due rispettivi partiti, le reazioni possibili delle componenti di sinistra della classe operaia e quelle del ceto medio, le reazioni della Chiesa e degli americani».

È il ragionare, la tela della politica. La politica che media, soppesa i rapporti di forza, si ingegna a scavalcare gli ostacoli o si affatica a circumnavigarli, in bilico tra la necessità che impone il rispetto di ogni passaggio e la sfera di libertà delle scelte a costo di operare forzature. La politica è il filo che unisce il presidente della Dc e il segretario del Pci, fino alla drammatica sera del 15 marzo, quando in un incontro per strada l’emissario di Moro detta un messaggio rivolto a Berlinguer che Barca appunta sul cofano di un’auto: il governo Andreotti che sta nascendo è molto al di sotto delle richieste e delle aspettative del Pci, ma Moro chiede pazienza e fiducia, si fa garante personale dell’operazione. Qualche ora dopo, la mattina del 16 marzo, sarà rapito in via Mario Fani. La politica viene a mancare nei 55 giorni successivi, quando nel Pci viene estromesso qualunque canale di informazione che non sia quello affidato al rapporto di Ugo Pecchioli con Francesco Cossiga. E il tragico omicidio di Moro spezza anche il progetto berlingueriano del compromesso storico.

È la fine della politica, di quella politica dei partiti. Barca la fotografa ancora una volta con l’intuizione del dirigente abituato ad anticipare i processi e non a subirli e con l’occhio del cronista di razza. Fino alla scena finale, quando durante il congresso di Rimini di fondazione del Pds (gennaio 1991) si accorge che nel guardaroba sono accatastate centinaia di valige. «La cosa mi allarma per la dignità del partito: quelle cataste dicono che la maggioranza dei delegati ha disdetto l’albergo e si prepara a partire». Prova a lanciare l’allarme, inascoltato. Qualche ora dopo il nuovo partito non riuscirà neppure a eleggere il segretario Achille Occhetto per mancanza del numero legale.È il tramonto del partito pesante, strutturato, ingiustamente considerato monolitico.

Nessuna nostalgia è possibile, oggi viviamo nell’era delle appartenenze multiple e della difficoltà di riportare a sintesi le spinte centrifughe che si agitano nella società, l’impossibilità di rappresentare e poi di governare l’esplosione delle rivendicazioni di interessi, categorie, lobby organizzate per difendere strenuamente le rivendicazioni più immediate. I dirigenti di quel che resta delle organizzazioni di partito quasi sempre non dirigono alcunché e provengono da cammini di formazione improvvisati, casuali. Ed è ancora lungo il passaggio dalla “repubblica dei partiti” a una “repubblica dei cittadini” «tanto più arduo e difficile perché coinvolge questioni di mentalità e di cultura e non solo problemi istituzionali», scriveva Scoppola già nel 1991, temendo che «questo fermento porti solo alla delegittimazione del sistema esistente e non sia in grado di produrre effetti realmente innovativi, rischi di essere travestimenti del vecchio ordine, più che una premessa di una nuova realtà».

Di quella stagione di partiti che coincidevano con ogni aspetto della esistenza, Barca è stato combattente lucido senza mai diventare vescovo, senza mai cioè cedere al cinismo e al disincanto, ma continuando a coltivare una dimensione laica della politica, a cercare quello che è al di là e che va oltre la politica. La nostra ricerca di forme e sostanze nuove di impegno e di partecipazione democratica, invece, è soltanto all’inizio.

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