Quando svanisce il reddito da lavoro. Ipotesi di riforma degli ammortizzatori sociali

Maurizio Franzini e Michele Raitano anche alla luce di quanto è emerso nella crisi da Covid riflettono sul nostro sistema di ammortizzatori sociali richiamandone le debolezze che, anche per effetto delle caratteristiche del mercato del lavoro, riguardano le modalità di finanziamento, le condizioni di accesso ai benefici nonché la durata e l’entità di questi ultimi. Franzini e Raitano avanzano alcune proposte di riforma con riferimento ai lavoratori dipendenti e, inoltre, indicano i problemi e alcuni possibili modi per affrontarli che si pongono per l’ampio e variegato mondo del lavoro autonomo.

La pandemia ha messo in evidenza le numerose difficoltà che il nostro sistema di protezione sociale incontra a proteggere efficacemente tutti coloro che subiscono riduzioni o, perfino, azzeramenti del proprio reddito da lavoro. Non si tratta soltanto di difficoltà dovute alla caratteristica che rende quell’evento straordinario e cioè il suo manifestarsi in modo violento, improvviso e generalizzato. Problemi, che potremmo definire strutturali, scaturiscono dalla molteplicità delle forme di lavoro – che rende difficile raggiungerle tutte con strumenti di protezione – nonché dal disegno di questi strumenti riguardo alle possibilità di accesso al beneficio, alla durata e all’entità di quest’ultimo.

In queste note indicheremo i principali limiti di quel disegno riferendoci agli schemi di indennità di disoccupazione e, prevalentemente, al loro funzionamento in condizioni ‘normali’, riservando soltanto qualche considerazione ai problemi che sorgono in presenza di eventi straordinari come la pandemia, sui quali si sofferma invece il Contrappunto di FraGRa in questo stesso numero del Menabò.

Il nostro punto di partenza è un richiamo dell’attuale architettura delle indennità di disoccupazione, come risulta dalle riforme (migliorative) del 2012 e del 2015, che è imperniata su due tipologie di strumenti: la NASPI, rivolta ai lavoratori dipendenti, e la DISCOLL, a beneficio dei collaboratori parasubordinati il cui numero è, peraltro, in diminuzione per effetto dei vincoli normativi e dell’omogeneizzazione degli oneri contributivi rispetto ai dipendenti stabiliti dalle riforme.

Nessuna indennità è invece prevista per una categoria di lavoratori che in Italia è molto consistente: i lavoratori autonomi. Secondo Eurostat, nel 2018 in Italia il 22,3% della forza lavoro aveva un contratto da autonomo (ovvero non da dipendente; sono quindi incluse anche le categorie iscritte alla Gestione Separata dell’INPS, ovvero i collaboratori e i professionisti ‘non ordinistici’), a fronte di una media del 14,6% nell’UE-15 e valori ancora più bassi in Francia (12,0%), Germania (9,8%) e Svezia (9,4%). Inoltre, fra gli autonomi gli imprenditori (ovvero gli autonomi con dipendenti) nel 2018 erano il 26,6%, una quota molto più bassa che Francia (37,0%), Svezia (40,6%) e Germania (44,6%); dunque, molti di quei lavoratori possono essere considerati fragili, anche perché involontariamente autonomi. Più avanti torneremo su questi lavoratori.

Tornando a dipendenti e parasubordinati, richiamiamo come sono disegnate NASPI e DISCOLL rispetto a due pilastri di un sistema di protezione: la durata e l’entità dell’indennità (ricordiamo che la riforma del 2015 aveva reso molto meno stringenti i requisiti di accesso alle indennità per dipendenti e collaboratori). La durata è legata al periodo contributivo precedente (al netto delle settimane di fruizione degli ammortizzatori) mentre l’entità dipende dal salario percepito (con un tetto sull’importo massimo), con décalage del 3% al mese a partire dal quarto mese (per dettagli sulle caratteristiche delle misure si veda il Rapporto CNEL 2018). Dunque, per stabilire quanto a lungo si può essere protetti conta la storia lavorativa individuale, anche se, diversamente da quanto accade con le pensioni, la prestazione è indipendente dall’ammontare dei contributi versati, essendo legata al salario pre-disoccupazione.

I principali limiti di questa architettura, tenendo conto delle caratteristiche del mercato del lavoro italiano, sono i seguenti:

i. chi è a maggior rischio di licenziamento/disoccupazione (in primis i lavoratori a termine) non gode di tutele di durata relativamente maggiore;

ii. chi, soprattutto a inizio carriera (ma non solo), sperimenta frequenti interruzioni dell’attività lavorativa e retribuzioni molto limitate è ben poco tutelato. Si tratta di una quota rilevante di lavoratori, considerato, ad esempio, che in base ai dati INPS, il part-time (generalmente involontario) interessa, nel settore privato, il 30% di tutti i dipendenti e il 50% delle donne e che, fra le coorti più giovani, circa la metà versa contributi per meno di 4 anni nei primi 8 anni di attività;

iii. chi viene licenziato in età anziana non riceve un trattamento relativamente più vantaggioso (in termini di durata e importo), nonostante le molto limitate probabilità di ri-occupazione;

iv. restano del tutto esclusi da questa architettura, ispirata a uno schema di assicurazione sociale, coloro che non hanno ancora avuto l’opportunità di entrare nel sistema, ovvero i “giovani” in cerca di prima occupazione, che, come noto, possono accedere solo a misure means tested su base familiare.

Dare risposta a questi problemi, evitando le iniquità e le distorsioni che essi generano, non è facile. Considerando un appropriato orizzonte temporale appaiono necessarie misure di carattere pre-distributivo che incidano sul funzionamento del mercato del lavoro, contrastando la diffusione di forme contrattuali atipiche, e/o ben poco remunerate, ad esempio, fissando minimi salariali per le categorie non contrattualizzate, rafforzando significativamente gli spazi della contrattazione, ponendo un freno al part-time involontario e contrastando il fenomeno delle “false partite IVA”.

Ma urgenti e necessari sono interventi anche sull’attuale architettura del sistema che corregga i difetti relativi alla durata e all’entità delle attuali indennità. Tra i principali interventi, che possono richiedere anche modifiche della platea coperta o delle aliquote di contribuzione, elenchiamo i seguenti:

  • fissazione di un tasso di sostituzione maggiore (o di una formula progressiva, al di là del tetto all’importo della prestazione) in modo da tutelare in misura relativamente maggiore i lavoratori a minor salario (soprattutto i part-timers involontari);
  • riduzione del décalage, eventualmente inserendo limiti alla riduzione dell’importo quando la disoccupazione si prolunga, per evitare cadute rilevanti dell’importo a danno di chi ha prestazioni di importo più limitato o maggiori difficoltà di reinserimento;
  • revisione della durata massima della prestazione a tutela di chi ha storie contributive molto frammentate (in primis dipendenti a termine e collaboratori). Si potrebbe pensare di introdurre una durata minima – ad esempio almeno 3 mesi per chi ha avuto un contratto di almeno 3 mesi – controllando attentamente possibili comportamenti opportunistici. Andrebbe quindi mantenuto l’impianto contributivo di calcolo della durata della prestazione, ma stabilendo un limite minimo;
  • introduzione della contribuzione figurativa (attualmente non prevista) per i percettori di DISCOLL.

Ovviamente tutti questi interventi dovrebbero essere coordinati con efficaci politiche attive del lavoro, anche per tenere sotto controllo possibili comportamenti opportunistici rispetto alla ri-occupazione successiva e al lavoro nero.

Veniamo ora al lavoro autonomo. La pandemia, come si è già osservato, ha mostrato la difficoltà di raggiungere questo importante segmento del mercato del lavoro, rispetto al quale non possono avere effetti né misure, pur meritorie, come l’estensione della Cassa Integrazione Guadagni, né misure di ultima istanza come il Reddito di Cittadinanza, dato che i requisiti patrimoniali di accesso tendono ad escludere dal beneficio chi ha cali improvvisi di reddito. Più in generale, la pandemia ha reso più urgente una riflessione che da qualche tempo si è imposta come necessaria e cioè in che modo fare fronte, attraverso schemi prevalentemente assicurativi, alle esigenze di protezione sociale di un numero sempre più ampio di lavoratori ‘non dipendenti’. I problemi sono molteplici, in primo luogo, perché le questioni fondamentali da risolvere per disegnare un sistema di protezione sociale (finanziamento, accesso, durata e entità delle indennità) si presentano in modo ben più problematico per questo tipo di lavoratori e, in secondo luogo, perché il grado di eterogeneità all’interno di questo mondo è molto elevato, e lo è in base a una pluralità di criteri. Tutto ciò rende difficile, soprattutto in assenza di misure opportunamente differenziate, soddisfare due esigenze fondamentali (peraltro almeno in parte collegate) come sono quella di rispettare criteri di equità e di limitare comportamenti opportunistici.

Tali difficoltà dovrebbero, però, essere oggetto di approfondita riflessione, colmando anche i ritardi che si sono accumulati a questo riguardo nel tempo. Quelle che seguono sono riflessioni preliminari che potrebbero essere utili per questa riflessione e che tendono a sottolineare l’importanza, e anche la proficuità potenziale, di tenere almeno in parte distinte le varie forme di lavoro autonomo.

Ad esempio, una distinzione rilevante (forse non sempre ben considerata) è quella tra lavoratori autonomi che operano sulla base di un contratto di qualche tipo (soprattutto nella ‘gig economy’ o nel caso di autonomi con pochi, o un solo, committente) e i lavoratori autonomi che vendono direttamente nel mercato beni o servizi. Sembrerebbe che, peraltro comprensibilmente, soltanto ai lavoratori del primo tipo pensino i sindacati quando si propongono di rappresentarli.

Con riferimento ai problemi di finanziamento, per questi lavoratori è possibile, ad esempio, includere nel contratto forme di contribuzione assicurativa anche a carico del committente, e questo è quanto accade in alcuni paesi (in particolare in Germania e in India secondo il recente rapporto congiunto ILO-OCSE). Nell’adottare una soluzione di questo tipo si dovrebbe comunque considerare il rischio di una riduzione del reddito netto, che per i lavoratori più deboli (in primis i ‘falsi autonomi’) è già molto basso.

Quanto all’accesso alle prestazioni la difficoltà più generale è rappresentata dal fatto che nel caso del lavoro autonomo non può essere preso a riferimento un evento chiaro e certo come il licenziamento. Qui dovrebbe essere rilevante la caduta del reddito al di sotto di una soglia che costituisce, di fatto, la porta di accesso all’indennità, ma che può essere facilmente manipolabile dal lavoratore. Come fissare tale soglia (e, di conseguenza, il livello dei contributi obbligatori per finanziare la misura) è, quindi, tutt’altro che semplice. Potrebbe trattarsi di una quota dei redditi mediamente dichiarati negli anni precedenti (così eventualmente incentivando gli autonomi soggetti a fluttuazione dei redditi a non sotto-dichiarare le entrate negli ‘anni buoni’) o di un livello minimo eventualmente incrementato, in misura ridotta, sulla base di quei redditi medi.

Naturalmente, rispetto a questo problema così come rispetto ad altri, la soluzione ‘perfetta’ non esiste, ma di certo esistono soluzioni migliori e peggiori, sia in termini di equità che di costi (inclusi quelli derivanti dalla distorsione degli incentivi e dai comportamenti opportunistici, rilevanti anche per l’equità).

Cruciale può essere anche la distinzione tra gli eventi che possono determinare il calo dei redditi, se non anche la chiusura dell’attività. Al riguardo possono aversi:

  1. eventi di “rischio assicurabile” individuale (la mia attività va male in un quadro normale per la mia categoria);
  2. eventi di “rischio assicurabile” collettivo (io soffro in una situazione in cui la mia categoria soffre, a causa di dinamiche di mercato o, anche, della tecnologia);
  3. eventi non prevedibili (di “incertezza pura” secondo la dizione keynesiana): pandemie o altri shock “interdipendenti”.

Un’assicurazione dovrebbe essere in grado di offrire tutela contro tutti questi eventi, ma si potrebbe anche immaginare di iniziare con le coperture dagli eventi di tipo C o B. L’aspetto prioritario che rimane è chi e come definire l’evento che dà diritto alla prestazione (con il rischio che, soprattutto nel caso A, regole note in anticipo inducano comportamenti opportunistici).

Su come limitare i comportamenti opportunistici la riflessione dovrebbe essere particolarmente approfondita e, presumibilmente, diverse tipologie di schemi andrebbero applicati alle varie categorie di autonomi. Un paio di ipotesi, anche queste preliminari e applicabili solo in determinati casi, sono le seguenti.

La prima, da non confondere il alcun modo con quella dei lavori socialmente utili di infausta memoria, potrebbe essere quella che consiste nell’offrire all’autonomo che dichiara di aver sofferto una caduta del reddito al di sotto della soglia prefissata la possibilità di essere remunerato – a valori di mercato – per lo svolgimento di qualche attività di pubblica utilità. Ad esempio, gli autonomi che temono cadute di reddito potrebbero – come opzione – ‘iscriversi’ a una cooperativa che, tra l’altro, può raccogliere i loro contributi e versarli per loro conto all’ente di protezione sociale. Tale cooperativa sarebbe ‘accreditata’ presso uno o più enti pubblici per fornire determinati servizi da parte dei lavoratori autonomi (ovviamente ‘competenti’) quando questi dichiarassero un calo sotto la soglia del loro reddito da lavoro. L’ente pubblico si impegna a pagare quei servizi che diventano in larga parte reddito integrativo per gli autonomi in difficoltà. Un esempio: un attore si iscrive a una cooperativa che ha il compito di fornire servizi educativi integrativi alle scuole. Quando l’attore perde reddito e lo dichiara, la cooperativa – che riceverà per questo un compenso – lo impegna in un progetto educativo: ad esempio gli attori leggeranno brani dei classici nelle scuole medie. L’opportunismo ne risulterebbe frenato e, comunque, a fronte del costo sociale vi sarebbe un vantaggio sociale. L’accettazione di questo lavoro permetterebbe, naturalmente, di ottenere una remunerazione superiore all’indennità monetaria e sarebbe un’opzione per il lavoratore. Vi sarebbero, dunque, spazi anche per pensare a rendere la precarietà del lavoro autonomo un’occasione di miglioramento dei servizi pubblici. Ma, ne siamo fin troppo consapevoli, occorre un’adeguata capacità di adattamento istituzionale.

Un altro meccanismo in grado di contrastare l’opportunismo, almeno in alcune sue manifestazioni, potrebbe riguardare direttamente la fruizione del sussidio e si riferisce soprattutto agli autonomi che vendono beni sul mercato. A chi dichiara di essere caduto al di sotto della soglia di reddito si offre un’indennità di importo relativamente contenuto (secondo quando si è detto in precedenza), che tenderà a decrescere nel corso del tempo se il reddito dichiarato rimane al di sotto della soglia. Dopo un congruo periodo di tempo – inferiore a quello di massima durata dell’indennità – si offre al lavoratore la seguente opzione: potrai percepire ancora una prestazione di ammontare approssimativamente pari a quello (più elevato) iniziale soltanto se chiudi l’attività, viste le tue difficoltà. Il lavoratore più è opportunista (nel senso che ha redditi ben superiori a quelli dichiarati) più troverà conveniente rinunciare al contributo. Il lavoratore in vera difficoltà preferirà chiudere la propria attività e ciò avverrà se il sussidio certo supera il valore atteso dei suoi ricavi di mercato. Il rischio è che si passi a un lavoro interamente sommerso, ma i controlli in casi come questo non dovrebbero risultare difficili. Prevedere questa opzione potrebbe, dunque, permettere di non accorciare troppo i tempi di durata dell’indennità danneggiando chi si trova in condizioni di difficoltà particolarmente serie. Naturalmente queste misure dovranno essere coordinate, nel loro disegno, con quelle di contrasto alla povertà.

In conclusione, fornire protezione sociale ai lavoratori autonomi costituisce una sfida istituzionale tutt’altro che semplice alla quale è necessario dare risposta, soprattutto per evitare che di fronte al rischio di possibili comportamenti opportunistici nulla si faccia, lasciando così, con certezza, un rilevante numero di lavoratori in condizioni di grave disagio sociale.

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