Reddito di cittadinanza: chi ha torto, chi ha ragione? (seconda parte)

FraGRa, completando la propria analisi del Reddito di Cittadinanza come proposto dal M5S, sostengono che in questo dibattito molti hanno torto e però quasi nessuno ha ragione. Ha torto, tra gli altri, chi pensa che la proposta preveda un reddito incondizionato e che sostenere il reddito equivalga a impedire il lavoro. Su questo M5S non ha torto ma ciò non vuol dire che abbia ragione. Ad avviso di FraGRa è così soprattutto perché non affronta le questioni più complesse poste dal Reddito di Cittadinanza. In realtà, quasi nessuno finora le ha affrontate. Eppure è urgente farlo.

Nella prima parte di questo articolo, pubblicata sullo scorso numero del Menabò abbiamo brevemente descritto la proposta di Reddito di Cittadinanza del M5S che, lo ricordiamo, manca della caratteristica tipica di questo strumento e cioè l’incondizionalità del reddito. Questa sola considerazione è sufficiente per giudicare male indirizzate molte delle critiche mosse alla proposta. Ma vediamo più in dettaglio perché in questo dibattito molti hanno torto, qualcuno non ha torto e quasi nessuno, però, ha ragione.

Chi ha torto? Ha torto, innanzitutto, chi ritiene che il Reddito di Cittadinanza sia un trasferimento che premia i fannulloni, perché accessibile anche a chi si rifiuta di lavorare. Il Reddito di Cittadinanza, come si è visto, non solo richiede la disponibilità a lavorare (e contempla anche incentivi alla creazione di lavoro), ma presenta elementi di vero e proprio workfare. Basti pensare alla richiesta di dedicare almeno due ore al giorno alla ricerca di un lavoro e otto ore alla settimana all’espletamento di lavori per la comunità. Sotto questo profilo è ancora più esigente del REI. Certo, le carenze dei servizi per l’impiego esistenti nel nostro paese possono contribuire alla persistenza della disoccupazione. Ma possiamo chiedere ai più poveri di aspettare che si costruisca, chissà quando e come, un’adeguata capacità amministrativa per contrastare la povertà?

Ha torto anche chi ritiene che l’importo sia stato fissato in modo arbitrario. Il Reddito di Cittadinanza utilizza non una definizione eccentrica di povertà ma quella adottata a livello europeo secondo cui è povero chi ha meno del 60% del reddito equivalente disponibile. Si tratta della povertà relativa e certamente possono utilizzarsi altre definizioni, ad esempio quella di povertà assoluta, che, però, cosa scarsamente notata, in alcuni casi (in particolare al Nord) definisce una soglia superiore a quella della povertà relativa. In ogni caso la scelta ha un fondamento e contestarla implica, peraltro in modo del tutto legittimo, contestare una scelta europea. Per farlo occorrono buoni argomenti.

L’eventuale obiezione che nessun paese UE riesce a contrastare la povertà per tutti i cittadini, pur avendo finanze pubbliche in condizioni migliori delle nostre, implica che si possa violare il dovere di cittadinanza di dare assistenza a chi è privo di reddito. Dunque, occorrono buone ragioni per motivare questa violazione. Il REI, fra l’altro, appare particolarmente carente sotto questo profilo, con importi che vanno da 187,5 euro al mese per persona sola a 540 per nuclei di cinque o più persone. Al riguardo, vale la pena ricordare che nel febbraio 2010 la Corte Costituzionale tedesca ha dichiarato in parte incostituzionale il sistema Hartz IV (concernente il sistema tedesco dei trasferimenti assistenziali) proprio perché i sussidi – che partivano da 359 euro per una persona sola, in età da lavoro – erano troppo bassi per rispettare il principio fondamentale della dignità umana. Il REI, inoltre, assicura l’accesso incondizionato al trasferimento per 18 mesi. Poi è necessaria un’interruzione di sei mesi per ottenere un nuovo rinnovo 12 mesi al massimo.

Infine, ha torto chi pensa che dare reddito impedisca di dare lavoro. Ha torto perché le due politiche non sono in alcun modo in contrasto. Al contrario, se effettivamente ci fosse lavoro (e sostegno ai figli) in grado di prevenire la povertà, si ridurrebbe e idealmente si azzererebbe lo spazio del reddito di cittadinanza. Dunque, se aumentasse la spesa per creare lavoro diminuirebbe, con effetti benefici per il bilancio pubblico, la spesa per il reddito di cittadinanza. Il problema è che i dati degli ultimi decenni mostrano come la creazione di lavoro sia del tutto insufficiente a garantire la fuoriuscita dalla povertà. Da un lato, infatti, il lavoro spesso va nelle famiglie con componenti già occupati e non in quelle più a rischio, dove nessuno lavora. Dall’altro, i salari offerti spesso sono del tutto insufficienti a proteggere dalla povertà.

Tutto bene allora? Non avere torto rispetto a molte delle obiezioni rivolte al Reddito di Cittadinanza non vuole tuttavia dire che il Reddito di Cittadinanza sia privo di aspetti problematici.

Si è già detto delle difficoltà a ricollegare la proposta di M5S con quella ideale cui dicono di ispirarsi, la quale – in particolare – prescinde interamente dalla condizionalità e non dà alcun peso alla disponibilità a lavorare oggi. Non a caso, il grande difensore del Reddito di Cittadinanza, Philippe van Parijs ha avanzato una proposta “ridimensionata” che assicura a tutti un reddito pari al 25% del reddito medio pro capite ma non prevede alcuna condizione, ed è, quindi, rispettosa degli elementi fondamentali del genus cui dovrebbe appartenere (van Parijs e Vanderborght, Il reddito di base. Una proposta radicale, 2017). La proposta intermedia di M5S stravolge, invece, l’ideale, assomigliando a un reddito minimo d’inclusione generoso, ma con forte condizionalità.

Prescindendo da questa incoerenza, il peso attribuito al lavoro appare per certi versi eccessivo. Da un lato, l’imposizione di obblighi potrebbe cozzare contro i doveri di giustizia, che richiedono di lavorare se si è nelle condizioni di avere un lavoro oppure di essere compensati (Granaglia, Luci e ombre del reddito di cittadinanza, Micromega 2017). Dall’altro, la fiducia nell’inclusione rischia di essere eccessiva: vi è evidenza che neanche nei paesi europei con efficienti servizi per l’impiego si raggiungono tassi di uscita stabile dalla povertà superiori al 25% (Gori et al. Il reddito d’inclusione sociale, 2016). Al contrario, la realtà più diffusa è quella di cicli di povertà e basso reddito, collegati ai “lavoretti”, che producono anche perdita di autostima. La proposta di M5S prevede anche la creazione di lavoro ma resta alto il rischio di risposte insufficienti e di difficoltà ad occupare soggetti a lungo esclusi dal mercato del lavoro.

Ancora sia rispetto al lavoro, sia rispetto ai costi, molto/troppo resta indefinito. Ad esempio, una volta esaurite le possibilità di dire no, occorre accettare qualsiasi tipo di contratto, anche part-time? Rispetto ai costi, M5S continua a parlare di 15 miliardi circa, ma questa cifra potrebbe essere valida se l’imputazione dei fitti fosse inclusa nella prova dei mezzi, ma di questo non vi è traccia nella proposta (come sottolineato da Baldini e Daveri). L’INPS, poi, ha recentemente ha innalzato le stime portandole a un valore che oscilla fra i 35 e i 38 miliardi, sottolineando una serie di questioni aperte, da quelle relative all’uso dei redditi netti (che richiedono una stima a fine anno) a quelle relative alla definizione di redditi familiari. Inoltre, non è del tutto chiaro se la prova dei mezzi coinvolga o no la ricchezza.

La materia è molto complessa e le stime dipendono da una miriade di dettagli anche piccoli e dalle ipotesi sulle reazioni comportamentali dei soggetti. Tenendo conto di ciò sarebbe auspicabile, per raggiungere un consenso, che le diverse singole voci, ciascuna con i propri numeri, si incontrassero in un convegno scientifico per discutere in modo serio e rigoroso le diverse questioni e le ragioni a supporto delle proprie stime

Rispetto ai comportamenti dei soggetti, ricordiamo che gli effetti sull’offerta di lavoro dipendono da diversi fattori ed in particolare dalla mutevole preferenza per il tempo libero e per la “qualità” dei lavori disponibili, anche a parità di salario. Anche per questo il medesimo trasferimento potrà generare risposte comportamentali diverse. In altri termini, gli individui sono eterogenei e reagiscono diversamente ai medesimi incentivi. La previsione credibile è che con questa soglia e questo disegno alcuni potranno essere disincentivati – lavorando di meno o “in nero” – ma di certo non molti né di certo tutti coloro che sono sotto la soglia. Molti studi sulla reattività dell’offerta di lavoro ai sussidi di disoccupazione, che possono essere usati come termine di confronto, vanno in questa direzione.

Ci possono, poi, essere effetti sulla “qualità” dei posti offerti, che potrebbero migliorare con il reddito di cittadinanza e quindi favorire la fuoriuscita dalla disoccupazione soprattutto di chi non dà grande valore al tempo libero. L’obbligo al lavoro potrebbe, però, anche deprimere i salari dei lavoratori a basso reddito (con effetti di traslazione a favore dei datori di lavoro). È vero che M5S propone un salario minimo di 9 euro, ma non chiarisce se l’importo sia netto (e sarebbe molto alto) oppure lordo (e sarebbe sostanzialmente in linea con i minimi di molti CCNL non pirati).

In breve, il modo in cui si compongono tutti questi effetti dipende dall’entità e dalle condizioni di fruizione del reddito di cittadinanza. Individuare il punto in cui i costi, rappresentati dagli effetti di disincentivo, bilanciano i vantaggi derivanti dal contrastare la povertà (oltre che dal probabile miglioramento delle condizioni di lavoro) è difficile sia perché la proposta di M5S è muta su diversi dettagli cruciali sia perché non possiamo conoscere con precisione le reazioni dei diversi soggetti coinvolti.

Conclusioni. La proposta di Reddito di Cittadinanza ha il merito di prendere sul serio il diritto a non essere poveri ed è anche da apprezzare che l’importo previsto, pur con tutti i caveat di cui sopra, potrebbe limitare il numero di cattivi lavori. Inoltre, se – come nella proposta – si chiedono anche politiche di ampliamento dell’occupazione non si dovrebbe essere criticati per voler dare reddito invece di lavoro. Di certo non vi sono ragioni per pensare che le politiche per il lavoro creeranno più posti di lavoro buoni in assenza di protezione adeguata dalla povertà.

M5S, però, non ha ragione (insieme a molti altri) quando sottovaluta la complessità dei problemi e non esamina tutte le conseguenze negative che il Reddito di Cittadinanza potrebbe avere, traendone implicazioni per il suo disegno. Come non esiste una politica di creazione di lavoro che possa azzerare la povertà, così non esiste una politica contro la povertà che sia totalmente immune dal rischio di disincentivare il lavoro.

In breve, occorre scegliere fra garantire dal rischio di povertà (che non può mai essere azzerato, anche dalle migliori politiche di sviluppo), rischiare un po’ di Pil in meno (che forse perderebbero soprattutto i ricchi), permettere a qualcuno di vivere senza il lavoro – rischio che comunque permane. In questo consiste la complessità di cui si è detto nella prima parte di questo articolo. Una complessità che spinge verso tre considerazioni di chiusura. La prima è che non ha senso pretendere una misura di protezione del reddito priva di qualsiasi effetto collaterale. La seconda è che si confrontano non solo modi diversi di concepire il funzionamento dell’economia (i trade-off) ma anche valori diversi su povertà e crescita – e sarebbe bene portare “dati” sul primo aspetto e rendere esplicite le proprie posizioni sul secondo. L’ultima considerazione è, banalmente, che se si ha più di un obiettivo e si è in presenza di trade-off occorre più di uno strumento. E dunque il giudizio definitivo non può essere dato indipendentemente da altre politiche. Forse la semplificazione più inaccettabile è nel rifiutare, a destra e a manca, questa ineludibile complessità.

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