Reddito di cittadinanza. È la risposta giusta alla prossima rivoluzione industriale?

Giuseppe Croce riflette sul reddito di cittadinanza all’interno di uno scenario di nuova rivoluzione industriale. In particolare, Croce si chiede se il reddito di cittadinanza possa rappresentare un buon sostituto dell’occupazione (e delle relative politiche). La risposta dipende dal significato (e dall’importanza) che si ritiene le persone attribuiscono al lavoro; se il lavoro non è considerato soltanto un mezzo per ottenere reddito, il reddito di cittadinanza rappresenterebbe un suo sostituto imperfetto e le politiche per l’occupazione dovrebbero rimanere prioritarie.

Tra le idee oggi al centro del dibattito politico, non solo in Italia, vi sono varie ipotesi di redistribuzione del reddito che, talvolta impropriamente, vengono indicate come reddito di cittadinanza (di quella avanzata dal M5S si sono occupati in modo approfondito FraGRa in questa rivista).

La proposta di un intervento di questo tipo, che per comodità indichiamo come reddito di cittadinanza, viene spesso evocata, con particolare urgenza, come rimedio per fronteggiare gli effetti di una probabile imminente fase di cambiamento tecnologico con conseguente rischio di disoccupazione di massa. In questa nota si vogliono mettere in evidenza alcuni gravi limiti che un’ipotesi di intervento di questo tipo assume entro lo scenario indicato.

Secondo diversi economisti e osservatori sarebbe ormai prossima una nuova “rivoluzione industriale”, caratterizzata da forti aumenti di produttività e ampi effetti diretti di distruzione di occupazione, con la conseguente minaccia di una nuova ondata di disoccupazione tecnologica che non riguarderebbe più soltanto i lavoratori meno istruiti e qualificati ma, in misura crescente, anche quelli con elevati livelli di istruzione (ad esempio, Brynjolfsson e McAfee, The Second Machine Age; Frey e Osborne, The future of employment: How susceptible are jobs to computerisation?). Oltre alla distruzione di posti di lavoro le nuove tecnologie potrebbero implicare anche accentuate polarizzazioni nella distribuzione di potere e opportunità. Si tratta di uno scenario non facilmente prevedibile né rispetto ai tempi in cui dovrebbe manifestarsi né rispetto alle sue effettive caratteristiche, ma che va certamente preso sul serio. Uno scenario ipotetico, quindi, ma tutt’altro che irrealistico. In tale scenario di “rivoluzione industriale”, secondo alcuni il reddito di cittadinanza rappresenta non solo una politica necessaria ma anche quella preferibile.

In tale contesto la proposta di un intervento potenzialmente esteso a una quota di popolazione molto ampia dovrebbe costituire non solo il modo per fronteggiare gli effetti della disoccupazione ma anche il pilastro per mantenere la coesione sociale. Si tratta di un’opzione che, anche in base ai risultati delle ultime elezioni politiche, sembra incontrare un favore crescente. Anzi, secondo alcuni sarebbe lo strumento attraverso cui, a fronte di una nuova “rivoluzione industriale”, diventerebbe finalmente possibile passare a una situazione in cui una larga parte della popolazione sarebbe liberata dall’obbligo del lavoro. Non solo rivoluzione tecnologica, quindi, ma anche, grazie al reddito di cittadinanza, “rivoluzione sociale”.

Certamente il favore oggi riscosso dalla proposta di reddito di cittadinanza deriva solo in parte dai timori per gli effetti della tecnologia. Esso è visto come un rimedio al disagio creato da lunghi anni di crisi e non ancora riassorbito e, soprattutto al sud, dalla cronica mancanza di lavoro.

Come detto, qui si vogliono evidenziare alcuni aspetti che fanno fortemente dubitare che un intervento del tipo del reddito di cittadinanza possa essere davvero quello preferibile.

Non ci si riferisce alla principale obiezione che di solito viene avanzata, quella relativa al suo finanziamento. Nell’ipotetico scenario di “rivoluzione industriale” si potrebbe anche assumere che l’aumento di produttività sia sufficiente ad assicurare le risorse necessarie. Anche questa è solo un’assunzione, non necessariamente realistica, ma utile comunque a sgombrare il campo dai problemi di vincolo di finanza pubblica, non per disconoscerne l’importanza ma allo scopo di approfondire gli altri aspetti su cui si vuole portare l’attenzione.

In particolare, ci chiediamo: il reddito di cittadinanza sarebbe un buon sostituto dell’occupazione (e delle politiche per l’occupazione)? E sarebbe una scelta obbligata o vi sarebbero alternative? La risposta a queste domande fa emergere due principali perplessità.

La prima riguarda gli effetti sul benessere delle persone che hanno perso o non trovano lavoro. La maggiore disponibilità di reddito consentirebbe il sostegno dei consumi e, per questa via, una riduzione del disagio economico. Tuttavia, non è affatto certo che essa possa davvero compensare la mancanza di lavoro.

Ovviamente ciò dipende dal significato che si attribuisce al lavoro: se si ritiene che esso rappresenta un’attività meramente strumentale al consumo, e di per sé sgradevole (così come assunto nella teoria standard dell’offerta di lavoro), allora il sostegno dei consumi è un buon sostituto del lavoro. Se invece si ritiene che il lavoro sia fonte di gratificazione, socializzazione, dignità e autonomia, oltre che di reddito, allora il sostegno dei consumi è solo un sostituto imperfetto del lavoro. In questa seconda visione, la dignità e la libertà che si ottengono col lavoro sono cosa diversa da quelle che derivano da un sussidio da spendere al supermercato. Frey e Stutzer (What Can Economists Learn from Happiness Research?, Journal of Economic Literature) e più di recente De Neve e Ward (Does Work Make You Happy? Evidence from the World Happiness Report, Harvard Business Review) riportano evidenze da cui risulta che la mancanza di lavoro implica importanti costi non pecuniari per la felicità soggettiva, non compensati neanche da un aumento del reddito tale da consentire il passaggio dal quartile di reddito più basso a quello più alto.

Si potrebbe obiettare, però, che, potendo vivere di un reddito di cittadinanza, si aprirebbe la possibilità di molte “attività” di impegno e di relazione, dal volontariato alle espressioni creative, che potrebbero ben sostituire il lavoro per il mercato.

Possibile, anzi, questo è ciò che sicuramente accadrebbe per alcuni. Tuttavia, affinché questa situazione si realizzi effettivamente su larga scala è richiesta una notevole dotazione di “virtù” personali. Venendo meno gli obblighi di lavoro derivanti dalle relazioni contrattuali, tutto si baserebbe esclusivamente sulla gratuità, l’autodisciplina e su forti motivazioni individuali intrinseche. Con realismo va riconosciuto che queste condizioni potrebbero essere disponibili solo in misura limitata, per alcuni forse molto meno che per altri. È quindi uno scenario che rischia di proiettare una visione ideale e forse eccessivamente ottimistica sulla natura umana.

In una situazione in cui non sussista la necessità di lavorare in molti casi potrebbero prevalere l’apatia, una minore spinta alla ricerca di relazioni sociali, l’affievolirsi anche dell’interesse verso la partecipazione civile. E se invece, al contrario, continuasse a prevalere la ricerca di ulteriori guadagni ci potrebbe essere un disincentivo a rivolgersi al mercato del lavoro regolare qualora per effetto del reddito da lavoro venissero meno le condizioni per continuare a percepire anche il reddito di cittadinanza. Nell’ipotetica situazione che stiamo considerando, in cui l’elevata produttività raggiunta grazie alla tecnologia renda possibile redistribuire reddito a vantaggio della massa di disoccupati creati dalla tecnologia stessa, l’area del mercato del lavoro si restringerebbe in misura considerevole. Ma verrebbe meno, allora, quella regolazione contrattuale che lega le persone mediante l’accettazione volontaria di obblighi reciproci e che è una fonte importante, per quanto imperfetta, di legame sociale, di responsabilità e di relativa fairness negli scambi.

Ben diverso, invece, sarebbe il significato di una riduzione del tempo di lavoro se questa non fosse la conseguenza indesiderata della disoccupazione involontaria ma il risultato di una scelta personale spiegabile in termini di “effetto reddito” dal lato dell’offerta di lavoro. Il progresso tecnico, infatti, grazie agli aumenti di produttività, e nel caso in cui questi si trasferiscano almeno in parte in aumenti di reddito, potrebbe spingere a una riduzione volontaria dell’offerta di lavoro (non necessariamente in termini di ore settimanali ma anche come rimodulazione del proprio impegno nell’arco della vita lavorativa) e consentire politiche favorevoli a una redistribuzione dell’occupazione.

La seconda perplessità, che meriterebbe di essere meglio approfondita, emerge sul piano politico, in quanto un reddito di cittadinanza quale rimedio a una disoccupazione tecnologica di massa aumenta il rischio potenziale di controllo del potere politico sui cittadini. Il lavoro nel mercato, che risponde alla domanda di una molteplicità di imprese e committenti (tranne nei casi in cui si sia in monopsonio o in altre situazioni di grave debolezza contrattuale dei lavoratori), al contrario garantisce una relativa maggiore libertà. Anche in questo senso può essere letto l’articolo 1 della nostra Costituzione, che stabilisce che la repubblica italiana è fondata sul lavoro, come base di una pari dignità e della libertà dei cittadini.

Il reddito di cittadinanza, in definitiva, non può che rappresentare un sostituto (molto) imperfetto dell’occupazione. Inoltre, esso difficilmente può essere considerato una scelta obbligata, poiché si potrebbe definire una strategia che abbia come obiettivo prioritario l’occupazione. Infatti, sebbene, come si è assunto fin qui, il cambiamento tecnologico possa determinare il rischio di un forte aumento della disoccupazione, appare poco fondato sul piano economico ritenere ineluttabili e predeterminate tale conseguenza. Se appare inevitabile un effetto distruttivo di breve periodo, la sfida sta nel massimizzare gli spazi di creazione di nuova occupazione. Anche questi spazi non sono predeterminati e certi, anzi la discussione è aperta tra gli economisti sulle difficoltà che potrebbero frapporsi al loro realizzarsi. Proprio per questo è richiesto un ampio mix di politiche e un impegno di politica economica non facile da realizzare.

In primo luogo, si dovrebbe sfruttare il potenziale di creazione diretta di occupazione nei nuovi settori creati dalle innovazioni (soprattutto se di prodotto e non solo di processo), anche attraverso politiche di ricerca, industriali, di innovazione, e per lo start-up imprenditoriale.

Per stimolare aumenti della domanda dei beni e servizi si dovrebbe perseguire una flessibilità che consenta di tradurre in riduzione di prezzo i guadagni di produttività realizzati dalle tecnologie. Questo implica, in primo luogo, un contrasto al formarsi di posizioni monopolistiche e di extraprofitti.

Allo stesso scopo di stimolo alla domanda di consumi, parte dei guadagni di produttività andrebbe trasferita in aumenti salariali mediante, a seconda dei casi, contrattazione collettiva e detassazione del lavoro (quest’ultima utile anche al fine di limitare lo svantaggio relativo del lavoro in termini di costo rispetto alle tecnologie).

Un’altra componente importante di questo mix è rappresentata dalle politiche dell’offerta di lavoro necessarie a rendere possibile la creazione di nuova occupazione, soprattutto qualificata, e il reimpiego di quella dismessa, a partire dalle politiche dell’istruzione dei giovani e della formazione degli adulti, comprese le politiche attive e della mobilità, e i sussidi di disoccupazione.

Infine, rimarrebbe la necessità di politiche redistributive. Su questo fronte vari sono gli interventi possibili. Tra essi, l’introduzione di un salario minimo, un’imposizione progressiva, politiche favorevoli alla redistribuzione dell’occupazione (a partire dall’abolizione degli incentivi al lavoro straordinario), ad esempio con misure di incentivazione della riduzione volontaria, anche temporanea, dell’orario di lavoro. In questo ambito rimane uno spazio importante per misure di redistribuzione del reddito. Entro tale impostazione, però, esse non rappresentano la politica prioritaria e quasi autosufficiente, ma il rimedio alle situazioni di mancanza di reddito che, anche mettendo in atto uno sforzo importante per l’occupazione, continuerebbero comunque a esistere soprattutto nel breve periodo.

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