ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 176/2022

18 Luglio 2022

Reddito di cittadinanza: un infuocato dibattito su una condizionalità apparente

Cristiano Gori, Giulio Bertoluzza e Lucia Mazzuca a proposito delle condizionalità lavorative cui sono sottoposti i percettori del Reddito di Cittadinanza sostengono che quella relativa all’accettazione di un’offerta di lavoro congrua genera un paradosso.

Le misure di contrasto della povertà adottate nei vari Paesi Europei hanno in comune il ricorso alla condizionalità. Questa consiste nell’obbligo, per i percettori, di mettere in atto determinati comportamenti finalizzati a superare la situazione di bisogno, pena la riduzione o la cessazione del contributo economico percepito. Lo Stato, dunque, sostiene chi si trova in povertà “a condizione” che compia precise azioni per uscirne.

Il Reddito di Cittadinanza (RdC) prevede molteplici obblighi, che riguardano – tra l’altro – la presentazione ai centri per l’impiego o ai servizi sociali, il prendere parte a iniziative di formazione o riqualificazione professionale e l’accettazione di offerte di lavoro congrue. Come nel resto d’Europa, le principali condizionalità toccano la dimensione lavorativa: a esse è dedicato l’articolo.

Aiutare i poveri e tranquillizzare gli altri

Sin dall’inizio il dibattito politico sul RdC – introdotto nell’aprile 2019 – è stato rovente. Non è un caso. Mai, in precedenza, era stato realizzato un così massiccio investimento di risorse pubbliche destinate ai poveri (la prima misura strutturale in materia, il Rei, avviato nel 2017 dal centro-sinistra, aveva un finanziamento inadeguato). Un simile passo, atteso invano per decenni, non poteva non essere destabilizzante. Il centro-sinistra votò contro il RdC in Parlamento, reagendo istintivamente in maniera difensiva verso una scelta che – secondo i suoi obiettivi dichiarati – avrebbe dovuto compiere esso stesso in passato.

Il Movimento Cinque Stelle, la forza promotrice della misura, non ne rivendicò il risultato storico a favore dei più deboli, come se fosse una decisione troppo forte da sostenere al cospetto dell’opinione pubblica. La sua azione comunicativa, invece, puntò in una direzione opposta: quella di tranquillizzare il resto della popolazione in merito alle possibili conseguenze di questa scelta inusuale. Si voleva trasmettere il rassicurante messaggio che i fruitori della misura non avrebbero potuto comportarsi come nullafacenti che grazie al sussidio vivono “sdraiati sul divano” senza impegnarsi in alcun modo per modificare la propria situazione. A impedirlo sarebbe stata la condizionalità lavorativa, segnatamente l’obbligo di accettare offerte di lavoro congrue. Un simile messaggio, tuttavia, portava con sé l’assunto che i poveri siano persone tendenzialmente oziose, e con poca voglia di darsi da fare. Ed ecco il paradosso: lo stesso soggetto politico che determinò il più cospicuo stanziamento della storia rivolto ai poveri, contribuì a diffonderne una rappresentazione negativa.

E’ così che la condizionalità è arrivata al centro dell’attenzione politica nel nostro Paese.

La condizionalità lavorativa non è una sola…..

Spostandosi dalla retorica alla pratica, ci si confronta con la varietà dei meccanismi di condizionalità lavorativa previsti dal RdC. In base alla natura dell’impegno previsto é possibile ricondurli a due casi: presentarsi ai servizi quando richiesto o accettare offerte di lavoro congrue.

Condizionalità verso i servizi. È l’obbligo di presentarsi – in momenti diversi – ai servizi responsabili della misura, pena la decurtazione del beneficio o la sua decadenza. Una volta ottenuto il contributo, al beneficiario è richiesto di recarsi, quando convocato, presso il Centro per l’Impiego (CpI) per la valutazione del suo profilo lavorativo e per la firma del Patto per il Lavoro. Successivamente, l’interessato si deve presentare ai servizi per svolgere le attività di formazione, riqualificazione e orientamento proposte, così come per altri compiti.

Condizionalità verso l’occupazione. È l’obbligo di accettare offerte di lavoro congrue, definite cioè dalla normativa come coerenti con le conoscenze e le competenze del percettore, disponibili nel raggio di una determinata distanza tra il luogo di lavoro e la residenza. L’utente può rifiutare una prima offerta congrua mentre nel caso in cui declini la seconda, che può provenire da qualunque zona del territorio italiano, perde la misura.

Le due tipologie suscitano reazioni ben diverse nel mondo politico, tanto nell’interesse raccolto quanto nelle controversie suscitate. La prima trova tutti concordi, e abitualmente nessuno la discute, mentre la seconda è assai controversa e oggetto di un ampio, e infuocato, dibattito; di fatto, è a quest’ultima che ci si riferisce quando si parla di condizionalità.

…….ma solo una è quella utilizzata

A differenziare nettamente le due condizionalità è anche la loro effettiva applicazione. Infatti, quella verso i servizi viene messa in atto mentre ciò non accade per quella verso l’occupazione, relativa all’accettazione delle offerte di lavoro congrue.

Questo punto è ben noto a chi frequenta il welfare dei territori e confermato da tutti gli operatori. Lo si ritrova pure nei dati disponibili. Secondo le informazioni fornite dal Ministero del Welfare, le sanzioni hanno coinvolto circa 50.000 beneficiari e hanno riguardato praticamente solo la prima tipologia, dato che nella seconda rientrano ben pochi casi. L’effettivo utilizzo della condizionalità verso i servizi e il mancato ricorso a quella verso l’occupazione è confermato dai risultati di una ricerca condotta in alcune regioni e da uno studio realizzato in Veneto. Lo stesso risultato si ritrova nei dati riguardanti, in precedenza, il Rei.

Le condizionalità lavorative del RdC

Perché la condizionalità verso l’occupazione non viene applicata?

Sicuramente in questa situazione giocano un ruolo le debolezze strutturali del contesto italiano: la scarsità di posti di lavoro che contraddistingue ampie parti del Paese, la contenuta capacità dei Cpi di intercettare le offerte di impiego e la loro ancor insufficiente dotazione di personale. Decisivo, però, è il disegno stesso della condizionalità. Prendendolo in esame, infatti, ci si imbatte nell’accoppiata tra due tradizionali fenomeni delle nostre politiche pubbliche: idearle senza confrontarsi adeguatamente con la realtà e definire regole così stringenti da risultare inapplicabili.

Verifica dell’accettazione di un’offerta congrua. Questi sono i presupposti: a) i Cpi propongono ai loro utenti offerte di lavoro; b) i Cpi ne verificano l’accettazione. Entrambi sono irrealistici, innanzitutto, perché i Cpi non sono datori di lavoro bensì intermediari con il compito di facilitare l’incontro tra chi li frequenta e le imprese. Pertanto, possono solo segnalare un’offerta di impiego ad un proprio utente. Poi sarà l’azienda coinvolta a interagire con il soggetto e a valutare se assumerlo e, nel caso, questi deciderà se accettare o meno. Tutto ciò avverrà nell’ambito di un’articolata dinamica di relazioni tra un’impresa privata e un singolo che i Cpi non possono controllare.

Eccesso sanzionatorio. I dati comparativi sono chiari. L’Italia è il Paese dell’Ocse che prevede la maggiore severità nei requisiti di condizionalità, cioè negli impegni richiesti agli utenti, e nelle relative sanzioni pecuniarie. Proprio la durezza degli obblighi e delle penalizzazioni esistenti disincentiva gli operatori dei Cpi dal farvi ricorso. In altre parole, l’aver concepito una condizionalità eccessivamente esigente la rende poco utilizzabile da chi sarebbe chiamato a tradurla in pratica.

Un acceso confronto su una condizionalità solo teorica

Tiriamo ora le fila della questione. Dal punto di vista delle politiche, i messaggi sono chiari. Da una parte, non è possibile riferirsi indistintamente alla condizionalità lavorativa ma bisogna distinguere tra le due tipologie illustrate. Dall’altra, il disegno della condizionalità verso l’occupazione richiede un ampio ripensamento a partire dalla presa d’atto dei suoi attuali limiti.

Venendo alla politica, invece, il quadro, si complica. Dal 2019 a oggi si è svolto un ampio e acceso confronto sull’accettazione delle offerte congrue: questo è stato, senza dubbio, l’aspetto del RdC a cui più la politica si è dedicata. Detto altrimenti, sin dall’introduzione della misura si discute – intensamente e animatamente – su una condizionalità che, per il suo stesso disegno, non è applicabile. Lo confermano i ripetuti attacchi al Reddito di Cittadinanza portati, nella fase recente, da partiti quali Italia Viva, Fratelli d’Italia e Forza Italia. Tali attori hanno ottenuto l’inasprimento della condizionalità verso l’occupazione nell’ultima Legge di Bilancio, laddove – ad esempio – se prima si potevano rifiutare due offerte congrue, oggi se ne può rifiutare una sola e la successiva – quella da accettare pena la decadenza dal beneficio – si riferisce all’intero territorio nazionale.

Colpisce notare che se inizialmente a stressare il ruolo della condizionalità verso l’occupazione erano stati i promotori della misura, come si è visto, più recentemente l’abbiano fatto gli oppositori. In entrambi i casi, l’insistenza in proposito è stata fondata su una rappresentazione del povero come una persona pigra, poco desiderosa di darsi da fare e pronta a sfruttare passivamente il RdC. Come a dire che essere pro o contro la misura non fa differenza: in entrambi i casi, il problema viene individuato nei comportamenti del povero.

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