Nell’ambito del recente dibattito sulla riforma del sistema fiscale italiano è stata avanzata l’ipotesi, più volte sostenuta anche dalla Commissione Europea, di rimodulare il carico fiscale dal reddito ai consumi (si veda, ad esempio, un recente intervento di Bordignon). Per capire quali possano essere le implicazioni sul bilancio pubblico e sulla distribuzione del carico fiscale di uno spostamento di parte dell’imposizione dai redditi ai consumi appare utile approfondire cosa suggerisce la teoria economica a proposito della relazione tra reddito e consumo.
Come noto, la relazione tra reddito e consumo è un elemento centrale dell’analisi sia micro che macroeconomica e su di esso moltissimi studiosi di diversi orientamenti si sono confrontati nel corso degli anni. Il corpus di ricerca, sia teorica che empirica, sul tema è dunque molto ampio. Di seguito, si passano brevemente in rassegna le teorie più importanti a partire da quattro contributi considerati fondamentali per l’elaborazione successiva: quelli di Keynes – The General Theory of Employment, Interest and Money (1936) –, Duesenberry – Income, Saving and the Theory of Consumer Behavior (1949) –, Modigliani e Brumberg – Utility Analysis and the Consumption Function: An Interpretation of Cross-Section Data (1954) – e Friedman – A Theory of the Consumption Function (1957). A tali contributi corrispondono altrettante “ipotesi” sulla natura di tale relazione: l’ipotesi del reddito assoluto (Keynes), l’ipotesi del reddito relativo (Duesenberry), l’ipotesi del ciclo vitale (Modigliani) e l’ipotesi del reddito permanente (Friedman).
Iniziamo dunque da John Maynard Keynes, l’economista di Cambridge che con la sua opera principale, la Teoria Generale, ha sferrato un attacco micidiale alla teoria economica che aveva dominato la scena almeno fino alla crisi del ‘29. La sua teoria della funzione del consumo è ricca di sfumature interessanti e può essere compresa solo se si tiene conto del contesto all’interno del quale è inserita, ossia quello della determinazione delle componenti della domanda aggregata.
La relazione di interesse è dunque quella macroeconomica che lega un dato ammontare di reddito aggregato ad un certo volume della spesa per consumi ed è influenzata da una serie di fattori oggettivi e soggettivi. Tale relazione, poggia però su una “legge psicologica fondamentale” di carattere microeconomico per cui gli individui sono disposti ad aumentare la spesa per consumi in seguito ad un aumento del reddito, ma di un ammontare inferiore all’aumento del reddito stesso. Questa semplice intuizione, insieme all’idea che il consumo abbia una considerevole componente abitudinaria e che il movente dell’accumulazione intervenga solo a partire da un certo livello del reddito, implica una funzione del consumo caratterizzata da: i) propensione marginale al consumo compresa tra zero e uno, ii) propensione media al consumo decrescente nel livello di reddito e iii) propensione media maggiore della propensione marginale. Quest’ultimo aspetto discende della rilevanza di un certo ammontare di consumi, necessari per la sopravvivenza dell’individuo o della famiglia, che sono indipendenti dal livello del reddito e che devono essere sempre e comunque soddisfatti.
L’apparente semplicità della formulazione keynesiana non deve far supporre che vengano trascurati elementi cruciali come gli effetti ricchezza inattesi che incidono sul valore degli attivi patrimoniali o considerazioni di carattere intertemporale, come ad esempio il rapporto tra redditi correnti e redditi futuri attesi. Il punto cruciale è che nella relazione macroeconomica di interesse, molti di questi fattori tendono ad annullarsi e ad incidere solo marginalmente sul modo in cui un dato ammontare di reddito assoluto si trasforma in spesa per consumi.
Una prospettiva differente è offerta da James Duesenberry, che sottolinea la necessaria interdipendenza delle preferenze dei diversi soggetti che formano un gruppo sociale. Ad esempio, all’aumentare della frequenza con cui si entra in contatto con schemi di spesa “superiori” rispetto ai propri, aumenta la probabilità di modificare verso l’alto il proprio sentiero di spesa indipendentemente dal reddito. Questo aspetto è di cruciale importanza e, pur essendo stato messo da parte per molti anni dalla teoria economica mainstream, è stato ripreso da un filone di letteratura più recente. L’ipotesi, dunque, è che le scelte di consumo siano guidate da norme sociali e fissate in “abitudini” che non è facile modificare (specialmente al ribasso). La natura sociale del consumo viene chiaramente riconosciuta e, conseguentemente, il reddito relativo assume un ruolo cruciale.
Come detto, la teoria di Duesenberry ha ricevuto scarsa attenzione, anche a causa della comparsa di una teoria che avrebbe dominato il modo di pensare alla relazione tra reddito e consumo: la teoria del ciclo vitale proposta da Franco Modigliani e Richard Brumberg. La teoria del ciclo vitale parte dall’assunto che i consumatori sono soggetti razionali ottimizzanti che, periodo per periodo, scelgono un piano ottimale di consumo per il rimanente dell’orizzonte di vita. I “fondamentali” della scelta di consumo sono il reddito corrente, il livello delle attività e il reddito prospettico, che assume particolare rilevanza dato il carattere intertemporale della scelta. Il piano ottimale di consumo viene revisionato ogni qual volta emergano delle novità in uno di questi fondamentali. Seguendo la logica del modello, la correlazione positiva tra risparmio e reddito che si osserva nei dati microeconomici (spesso indagini campionarie) viene spiegata in termini di maggiore frequenza negli scaglioni più alti di reddito i) di individui che, avendo avuto un incremento inaspettato del reddito, ne risparmiano una quota rilevante o ii) di individui che, avendo revisionato verso l’alto le proprie aspettative sul reddito prospettico, stanno riallineando il livello delle attività ai nuovi fondamentali.
Molto simile nelle implicazioni è l’ipotesi del reddito permanente di Friedman (1957), che divide il reddito in una componente transitoria e una permanente e postula che il consumo sia una funzione soltanto di quest’ultima. Non essendo questa la sede per una trattazione più approfondita, basti sottolineare che il punto chiave di queste due teorie è che il consumo da un lato non è vincolato dal reddito corrente, dall’altro risponde poco (Modigliani) o per nulla (Friedman) alle variazioni transitorie del reddito. Allo stesso modo, il consumo non risponde in alcun modo a variazioni del reddito che sono conosciute in anticipo, che per definizione fanno parte dell’insieme informativo sulla base del quale i consumatori razionali effettuano le proprie scelte.
Le versioni più semplici di quella che si può definire la teoria unificata del ciclo vitale/reddito permanente non sono tuttavia in grado di spiegare adeguatamente l’evidenza empirica sulla relazione tra reddito e consumo – in particolare la correlazione tra consumo e reddito nell’arco della vita o del ciclo economico e l’eccessiva sensibilità del consumo a variazioni prevedibili del reddito. Nel corso degli anni sono state dunque proposte numerose estensioni di cui si propone un breve elenco: ipotesi di non separabilità di consumo e offerta di lavoro nella funzione di utilità; presenza di vincoli di liquidità; rilevanza del risparmio precauzionale; incoerenze nella funzione di utilità come quelle dettate da un fattore di sconto iperbolico; rilevanza della formazione di abitudini e di beni posizionali. Un altro filone della letteratura, spesso di carattere comportamentale, rifiuta invece l’ipotesi della razionalità del consumatore e identifica il consumo come una “scelta del pollice”.
Una trattazione completa di queste estensioni è fuori dallo scopo di questo focus. Per comprenderne la straordinaria varietà, può tuttavia essere utile illustrare con alcuni esempi la complessità dei meccanismi potenzialmente alla base della relazione tra reddito e consumo. Come detto, una predizione teorica molto forte del modello del ciclo vitale è che il consumo non deve rispondere a variazioni anticipate del reddito. Anche supponendo che i consumatori siano in grado di utilizzare perfettamente le informazioni a propria disposizione per formulare piani di consumo ottimali, è possibile che tale implicazione non trovi conferma nei dati empirici. I motivi possono essere moltissimi. In caso di vincoli di liquidità stringenti, gli individui che prevedono una traiettoria crescente del reddito non sono in grado di indebitarsi per sostenere un livello di consumo proporzionato alle risorse disponibili nell’intero corso della vita. Il consumo sarà dunque vincolato dalle risorse correnti e aumenterà man mano che aumenta il reddito. In caso di complementarità tra consumo e offerta di lavoro nell’ambito di una cornice in cui il consumatore sceglie simultaneamente il livello del consumo e dell’offerta di lavoro il risultato sarebbe simile. È evidente come da premesse del tutto differenti possano scaturire risultati simili. La teoria economica della relazione tra reddito e consumo è dunque sia una teoria delle motivazioni della spesa per consumi sia una teoria dei meccanismi che possono vincolare i piani ottimali e spiegare l’evidenza empirica. In altri termini, nella sterminata letteratura su questo aspetto fondamentale della scienza economica abbondano sia i contributi di carattere normativo sia quelli di carattere positivo.
La teoria della relazione tra reddito e consumo si fa ancora più complessa quando si esce dello schema del consumatore razionale rappresentativo e si considerano esplicitamente gli aspetti sociali del consumo. Tali aspetti, già fondamentali nei lavori di Duesenberry, sottolineano l’importanza della distribuzione del reddito nel modulare la relazione tra reddito e consumo, e assumono rilevanza cruciale nelle nostre società in cui gli alti livelli di disuguaglianza economica sono diventati endemici. L’idea che al crescere della disuguaglianza il consumo aggregato tenda a diminuire a causa della redistribuzione da individui ad alta propensione al consumo a individui a bassa propensione al consumo, ad esempio, potrebbe essere totalmente sovvertita dalle dinamiche che si generano quando i gruppi sociali svantaggiati imitano i comportamenti di consumo dei gruppi più avvantaggiati e “in vista”.
Ritornando, in conclusione, alla domanda che ha motivato questo focus, la teoria non è in grado di fornirci una risposta univoca sulla relazione fra reddito e consumo e, dunque, sulle implicazioni dello spostamento del carico fiscale fra le due possibili diverse basi imponibili. Per fare solo alcuni esempi, il modello del ciclo vitale implica che lo spostamento del carico dal reddito ai consumi possa sfavorire le famiglie giovani che hanno un tasso di risparmio basso o addirittura negativo a fronte della previsione di una traiettoria crescente del reddito. Questa conclusione potrebbe tuttavia facilmente tramutarsi nel suo opposto nel caso di vincoli di liquidità o elevati gradi di avversione al rischio: in tal caso, le famiglie giovani potrebbero avere tassi di risparmio superiori alla media in vista di spese future impreviste o particolarmente impegnative come l’acquisto della casa ed essere dunque favorite. Ancora, seguendo l’insegnamento di Duesenberry, è estremamente importante tenere conto del contesto sociale: elevati livelli di disuguaglianza, secondo la teoria del reddito relativo, potrebbero danneggiare notevolmente dal punto di vista fiscale le fasce più povere che “inseguono” i livelli di consumo delle fasce più avvantaggiate.
In ultima analisi, le teorie sulla relazione tra reddito e consumo offrono soprattutto una cornice che mette in luce l’incredibile complessità della questione. Comprendere quali possano essere i meccanismi prevalenti in diversi contesti e diversi periodi è una sfida fondamentale per l’analisi empirica.