ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 193/2023

14 Maggio 2023

Reddito minimo e condizionalità al lavoro

Elena Granaglia affronta la domanda se sia possibile coniugare il sostegno al reddito per i poveri con il lavoro in modo da prendere sul serio il diritto al reddito. Dopo avere passato in rassegna le posizioni più critiche nei confronti della condizionalità al lavoro, Granaglia delinea i tratti principali che, secondo lei, dovrebbe avere una condizionalità attenta al diritto al reddito e conclude sostenendo che la distanza rispetto alle politiche attuate e a quelle in corso di attuazione è notevole.

L’articolo pubblicato nel numero scorso del Menabò chiudeva con la domanda se sia possibile coniugare sostegno al reddito per i poveri e lavoro in modo da prendere sul serio il diritto al reddito. Rispondere a questa domanda richiede di affrontare il tema della condizionalità al lavoro, ponendo una domanda ulteriore, vale a dire, se la condizionalità al lavoro possa/debba essere presente in uno schema di reddito minimo e, in caso affermativo, in quale forma. 

Vorrei partire dalle posizioni più critiche nei confronti della condizionalità al lavoro, che interrogano in primis chi ha più a cuore il contrasto della povertà. Contro, o quanto meno in posizione relativamente critica, vedo essenzialmente quattro ragioni. Una prima ragione critica, già ricordata nell’articolo citato, concerne il rischio di messa in discussione della natura di diritto che dovrebbe essere alla base dell’accesso a un reddito minimo. La condizionalità introduce un requisito di do ut des, di contropartita, che rischia di minare l’essenza del diritto, ossia, l’incondizionalità. 

Alla base di un diritto al reddito, mi sembra possano porsi due ordini di considerazioni. Una attiene alla natura di rischio della povertà, rischio dovuto, in primis, alla lotteria sociale, all’evoluzione della domanda e dell’offerta di lavoro e, con essa, alle regole del gioco che presiedono al funzionamento dell’economia. La via tipica di protezione dai rischi è quella dell’assicurazione e assicurarsi implica essere risarciti, non pagare pegno, qualora il rischio si verifichi. Chiedere una contropartita annullerebbe l’essenza stessa della assicurazione. Certo, nelle assicurazioni che acquistiamo sul mercato, il soggetto che ottiene l’eventuale risarcimento è il medesimo che ha versato i premi, mentre nel caso della povertà vi è dissociazione fra chi paga e chi beneficia. Ma nulla garantisce che la distribuzione corrente delle risorse sia giusta. Ponendosi in un contesto  equitativo, individui ignari della posizione che occuperanno potrebbero impegnarsi a pagare qualora si ritrovassero non poveri, confidando che anche i poveri farebbero lo stesso qualora si fossero ritrovati più avvantaggiati. Ciò permetterebbe di salvare la reciprocità al cuore del patto assicurativo. Anziché sincronica e basata su scambi di equivalenti, sarebbe una reciprocità che si estende nel tempo e si limita a richiedere una qualche simmetria fra dare e avere, ma sempre reciprocità sarebbe (R. Goodin).

L’altra considerazione concerne la presenza di risorse comuni. La prospettiva è quella del reddito di base: tutti avremmo un qualche diritto alle risorse che derivano dai fattori naturali, dalle fortune ereditate, siano esse personali o collettive e dal gioco casuale di domanda e di offerta. Chi lavora, e in particolare chi ottiene redditi elevati, si approprierebbe di risorse che, in quanto comuni, andrebbero ripartite fra tutti, senza condizioni. Nessuno ci chiede la disponibilità al lavoro per potere godere di qualcosa che è nostro. 

Una seconda ragione critica riguarda i rischi di stigma e di falsi negativi. La disponibilità al lavoro è spesso concepita come segnale non solo di disponibilità a fare la propria parte, ma anche di “meritevolezza” morale. Per avere il reddito si deve dimostrare di essere meritevoli: essere poveri non è un titolo valido sufficiente. Pur di non sentirsi percepiti come soggetti di serie B, che devono dimostrare di essere meritevoli, i poveri potrebbero semplicemente decidere di non accedere ai benefici. Anche altre cause possano essere all’opera, ma il non take up, nell’Unione Europea, coinvolge fra il 30 e il 50% dei potenziali beneficiari dei redditi minimi (Commissione Europea)

Una terza ragione, sempre legata alla diffusa “immeritevolezza”, concerne i rischi più complessivi di disciplinamento dei poveri. Assai chiare, al riguardo, sono le parole di Busso e Graziano  che sottolineano come la condizionalità sia esposta al “celebre paradosso dell’inclusione, secondo cui l’inserimento sociale attraverso il lavoro avviene nel quadro di una relazione che reitera la .. condizione di subordinazione”… La chiave di volta per rimuovere dal discorso l’evidente opposizione tra emancipazione e controllo…. è identificata nel paternalismo.. L’asimmetria che caratterizza una relazione di tipo paternalistico, infatti, si regge sul presupposto che una delle due parti non sappia riconoscere cosa è meglio per sé o manchi della disciplina necessaria per agire secondo tali principi”. In questa prospettiva, dovrebbero essere viste con sospetto anche le posizioni apparentemente attente ai poveri, secondo cui la condizionalità al lavoro contribuirebbe all’acquisizione del senso di sé dei poveri, favorendo la socializzazione alla pratica di un valore così importante quale è il lavoro.

Infine, anche a prescindere dai rischi di falsi negativi e di disciplinamento, la divisione fra meritevoli e non meritevoli oscura quanto di simile vi è fra gli esseri umani. Come mette in evidenza l’economia comportamentale, poveri e non poveri sono sostanzialmente esposti alle stesse fallacie della razionalità, solo che la povertà, riducendo i margini per gli errori, può dare luogo a conseguenze più marcate e più gravi (M. Bertrand, S. Mullainathan, E. Shafir). E se tutti tendiamo a comportarci allo stesso modo, perché porre obblighi solo in capo ai poveri?

In ogni caso, torniamo alle ragioni assicurative. Se la povertà è un rischio sociale, i rischi sociali possono essere modificati da opportune politiche. Se così, la povertà dipende anche dalle (ir)responsabilità dei più avvantaggiati che non si sono a sufficienza impegnati in tali politiche, abbiano esse a che fare con la lotteria sociale oppure con la regolazione dell’economia (la cosiddetta pre-distribuzione). Peraltro, la stessa lotteria naturale è influenzata dalla lotteria sociale. 

Alla luce di queste criticità, prendere sul serio il diritto al reddito dei poveri richiede l’assenza di condizionalità al lavoro? Darei una risposta negativa, pur sostenendo la necessità di una forte attenuazione rispetto a quanto prescritto dall’Assegno per l’Inclusione e nel Sostegno alla Formazione e al Lavoro nonché dallo stesso Reddito di Cittadinanza.

Condividere l’idea che la povertà sia un rischio e, con essa, la funzione assicurativa delle politiche contro la povertà (Granaglia) non può portare a nascondersi che, come con tutte le assicurazioni, possono aversi casi di azzardo morale. Data l’asimmetria informativa, ci saranno sempre individui non poveri che cercheranno di apparire poveri per fruire dei benefici. Accanto ai falsi negativi, abbiamo dunque anche falsi positivi, rispetto ai quali la condizionalità al lavoro rappresenta un possibile antidoto. Inoltre, se la povertà è un rischio sociale che dipende anche dalle difficoltà di accesso al mercato del lavoro, politiche attive del lavoro potrebbero prevenire tale rischio. Se la prevenzione è invocata nei confronti delle altre politiche assicurative, perché non invocarla anche nei confronti delle politiche contro la povertà chiedendo ai beneficiari dei trasferimenti la disponibilità a uscire dalle condizioni di povertà?

Dirimenti sono le modalità di configurazione della condizionalità al lavoro. Un conto è richiedere prove continue di disponibilità a attivarsi per segnalarsi meritevoli di aiuto, non importa se l’attivazione abbia a che fare con la frequentazione di corsi/attività di formazione sganciati da qualsiasi realistico percorso formativo o con l’obbligo di offerta di lavoro di comunità gratuito, come avveniva anche con il Reddito di cittadinanza. Un altro conto è vincolare la disponibilità a lavorare alla presenza di ragionevoli probabilità di domanda di lavoro e rifuggire dall’imposizione di doveri di lavoro gratuito che mettono a repentaglio la natura di diritto del sostegno al reddito, esigendo una contro-partita e comportando rischi assai elevati di paternalismo.

Un conto è imporre qualsiasi lavoro, a prescindere dalla remunerazione, dalla qualità e dal luogo dove esso debba essere esercitato, nella sostanziale accettazione del lavoro irregolare (o comunque carenza di controlli). Ad esempio, è semplicemente inaccettabile quanto prescritto dall’Assegno Inclusione e dal Supporto alla Formazione e al Lavoro che, in un mondo dove la presenza di un unico percettore di reddito pone a rischio di povertà tante famiglie, il nucleo familiare perda il sostegno qualora uno solo dei suoi componenti, ritenuto occupabile, non sia disposto a muoversi verso qualsiasi luogo del paese dove sia offerto un salario ai minimi contrattuali, magari part-time (ma, secondo la norma, almeno al 60% dell’orario a tempo pieno). Un altro conto è porre condizioni in presenza di un lavoro dignitoso come richiesto dalla nostra Costituzione.

Infine, un conto è una condizionalità al lavoro basata su una distinzione tra occupabili e non definita astrattamente da terzi soggetti ed esposta al rischio, del tutto evidente nel caso dell’Assegno per l’Inclusione, che alcuni di coloro definiti non occupabili, come le donne con responsabilità di cura e i disabili, potrebbero volere lavorare, e altri definiti come occupabili sono, invece, persone segnate dalla presenza di svantaggi plurimi, magari vittime delle “nostre” responsabilità (accuratamente trascurate) per non avere “loro” assicurato uguaglianza di opportunità/capacità. Un altro conto è una condizionalità dove la voce dei poveri, le loro aspirazioni e le loro difficoltà siano ascoltate e le gravi iniquità nello status quo distributivo siano prese in considerazione, offrendo il più possibile opportunità anziché obblighi e punizioni. Il che, come argomenta Cottam, richiederebbe, fra l’altro, un ribaltamento nei rapporti di potere a favore della partecipazione alle scelte da parte di assistenti sociali e beneficiari delle politiche; la promozione della cooperazione con le reti sociali e con le imprese sociali al fine anche dell’inserimento lavorativo (Marocchi), la sperimentazione di nuove forme di auto-valutazione fra pari degli interventi effettuati e, condizione essenziale, un forte investimento economico nella valorizzazione del lavoro sociale (quasi ad ogni articolo, il Decreto Lavoro appena varato richiede invece che ogni intervento sia a risorse vigenti). Nonostante i vincoli delle risorse, il contrasto della povertà dovrebbe essere fra le priorità di chi è dedito alla giustizia sociale.

Il tema delle risorse comuni richiederebbe, invece, un approfondimento impossibile da fare in questa sede. Mi limito a segnalare le difficoltà, anche normative, di attribuire un reddito minimo garantito solo ai poveri. E chi ha risorse appena sopra la soglia di povertà? In ogni caso, date le tante finalità/capacità che contano e che solo le risorse pubbliche sono in grado di garantire a tutti e tutti, non dovremmo chiedere a tutti coloro che sono in grado di partecipare a vario titolo di dare il proprio contributo (anche con l’offerta di attività non mercantili), come nella prospettiva del reddito di partecipazione elaborata da Atkinson, ossia di un reddito universale e individuale, anche se condizionato (per tutti e non solo per i poveri) alla partecipazione ad attività che migliorano lo star bene di tutti e tutte? 

Molto resta da specificare. Spero, però, di avere almeno offerto alcune indicazioni e di avere portato alla luce i principali nodi normativi da affrontare nella riflessione sulla relazione fra sostegno al reddito dei poveri e lavoro, che, mi sembra, ricevono troppo poca attenzione nella discussione pubblica.

Schede e storico autori