ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 182/2022

14 Novembre 2022

Regole fiscali quasi nuove per un’ Europa vecchia (*)

Enrico D’Elia interviene sulla proposta di nuove regole di bilancio resa nota dalla Commissione europea all’inizio di novembre. D’Elia sostiene che le nuove regole proposte vanno nella giusta direzione anche se non sono molto innovative. In particolare, i piani di rientro dal debito saranno più “personalizzati” ma gli investimenti pubblici, diversamente da quanto richiesto da molti, non vengono esclusi dal calcolo del deficit e manca un vero coordinamento tra le politiche fiscali.

Il 9 novembre la Commissione Europea ha adottato una comunicazione al Parlamento per l’aggiornamento delle regole di bilancio per i paesi dell’Unione, sospese dal 2020 dopo una sequenza di shock senza precedenti. L’intenzione della Commissione è di predisporre un quadro regolamentare che sia “più semplice, più trasparente ed efficace, con una maggiore titolarità nazionale e una migliore applicazione, consentendo al contempo investimenti strategici e riducendo gli elevati indici del debito pubblico in modo realistico, graduale e duraturo”. La proposta è il risultato di lunghe trattative e di consultazioni pubbliche, iniziate ben prima della pandemia e della crisi energetica, che hanno coinvolto economisti, governi e altre istituzioni. Jan Priewe ha esaminato le principali proposte che erano sul tavolo. Il passo successivo sarà la discussione della proposta da parte dei governi degli Stati membri e del Parlamento europeo.

L’obiettivo principale del nuovo regolamento è costringere gli Stati membri a ridurre il debito pubblico seguendo un percorso più realistico (e credibile) di quello fissato nel patto di stabilità e crescita. Quest’ultimo prescriveva ogni anno una riduzione del rapporto tra debito e Pil di un ventesimo della percentuale superiore al 60 per cento, mantenendo il disavanzo di bilancio “strutturale” vicino ad una soglia esoterica chiamata obiettivo di medio termine (OMT). Il rispetto di questa regola nel 2022 avrebbe richiesto al nostro paese una riduzione del debito pari a circa il 5 per cento del Pil. 

Forse per la prima volta, la Commissione ammette esplicitamente che l’attuale patto era troppo incentrato sulla disciplina fiscale invece che sulla crescita, come sostenevano perfino i documenti di tre governi europei piuttosto ortodossi come Spagna, Paesi Bassi Germania. Lamenta inoltre che la procedura sanzionatoria è così complicata e inefficace che, sebbene quasi tutti gli Stati membri abbiano violato le regole almeno una volta, nessuno è stato realmente punito. Basta uno sguardo alla “piramide” dei passaggi necessari per attuare la procedura per disavanzo eccessivo (a pag. 37 dell’edizione 2019 del “Vademecum” della Commissione) per capire perché ciò sia potuto accadere. Inoltre è noto che l’OMT ha spesso fornito indicazioni volatili ed errate ai governi nazionali, che hanno contribuito ad amplificare il ciclo economico invece di attenuarlo.

Così, per valutare le deviazioni rispetto ad una politica di bilancio prudente, la Commissione ha deciso di concentrarsi su una misura più trasparente, denominata “benchmark della spesa”, ovvero la spesa pubblica totale al netto delle entrate discrezionali, dei pagamenti per interessi e della spesa ciclica relativa alla disoccupazione. Questo benchmark, tuttavia, non esclude la spesa per investimenti, come avevano proposto molti stakeholder e studiosi.

Formalmente, scompaiono così dal nuovo quadro di bilancio europeo: la regola di riduzione del rapporto debito/Pil di un ventesimo l’anno, il disavanzo di bilancio “strutturale” basato sulla controversa misura dell’output gap e l’OMT. Viene invece mantenuto il tetto del 3 per cento per il disavanzo di bilancio, che è previsto dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, ma sarà valutato su un arco di quattro anni, anziché essere un obiettivo annuale molto esposto a perturbazioni di breve termine.

I piani nazionali di riduzione del debito prescritti dalle nuove regole avrebbero la stessa durata media di una legislatura, ossia quattro anni, e potrebbero essere rivisti solo in casi eccezionali. In questo modo, ogni governo dovrebbe lasciare in eredità al successivo una posizione fiscale solida. La Commissione propone un approccio “unificato” (probabilmente molto simile all’attuale metodologia) per la costruzione di questi programmi, che tuttavia sarebbero modificabili da parte degli Stati membri attraverso negoziati bilaterali. Gli obiettivi annuali riguarderebbero la spesa pubblica netta coerente con le previsioni sulle entrate, la riduzione del debito e il PIL, invece del disavanzo di bilancio.

Secondo la Commissione, i piani dovranno comunque garantire per i successivi dieci anni che il rapporto debito/PIL sia avviato lungo un percorso discendente stabile e sostenibile, anche a politiche invariate, e che il disavanzo di bilancio sia inferiore al 3 per cento del PIL, anche se con alcuni allentamenti per i paesi moderatamente indebitati. Gli Stati membri sono classificati come ad alto debito (e ad alto rischio) secondo una metodologia ispirata al Fondo monetario internazionale, il cui criterio principale è un rapporto debito/PIL superiore al 90%.

Il piano può essere esteso su un orizzonte di sette anni se lo Stato membro si impegna ad attuare un programma di riforme e investimenti raccomandato dalla commissione. Ciascun governo deve presentare una relazione annuale sulla realizzazione del piano. Nel valutare i progressi, la Commissione terrà conto (seriamente) di altri aspetti inclusi nella cosiddetta procedura per gli squilibri macroeconomici, come la disoccupazione e le disparità territoriali. I Fiscal Council nazionali ed europei indipendenti dovrebbero avere un ruolo più importante nella valutazione delle deviazioni dal piano.

Cambierebbe anche il sistema sanzionatorio. La procedura per i disavanzi eccessivi verrebbe mantenuta in caso di violazione della regola del 3 per cento (e verrebbe aperta e chiusa automaticamente per i paesi ad alto rischio). Tuttavia le multe sarebbero ridotte, mentre verrebbero introdotte la sospensione dei fondi europei (compresi quelli previsti dal Recovery Fund) e alcune sanzioni reputazionali, come la convocazione di un ministro dello Stato inadempiente davanti al Parlamento europeo.

Un osservatore malizioso potrebbe dire delle nuove regole ciò che Tancredi diceva allo zio a proposito dell’Unità d’Italia ne “Il Gattopardo”: “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.” Di fatto, il benchmark di spesa, dovendo essere coerente con un determinato livello di deficit, sembra una semplice riformulazione del criterio del disavanzo strutturale e l’output gap è sostanzialmente rimpiazzato dal suo omologo Pil potenziale per l’adeguamento della politica fiscale al ciclo economico nella proiezione decennale del debito. Inoltre, la Commissione terrà probabilmente conto di qualche variante dell’OMT quando proporrà e valuterà i piani di stabilizzazione. Infine, i paesi fortemente indebitati, per scongiurare reazioni negative dei mercati finanziari, difficilmente potranno discostarsi dai piani proposti dalla Commissione, il che corrisponde sostanzialmente alla “sorveglianza rafforzata” prevista dall’attuale patto.

Discriminare tra gli Stati membri in base al livello di rischio sarebbe ragionevole se l’ammontare del loro debito fosse perfettamente comparabile. Invece il debito misurato secondo lo standard del Trattato di Maastricht può fornire una valutazione fuorviante del rischio paese. In particolare, pesano le passività delle società controllate dal governo ma classificate al di fuori del perimetro delle amministrazioni pubbliche, come le banche di investimento pubbliche. Secondo l’Eurostat, nel 2020 queste passività differivano sensibilmente tra i vari paesi: in Grecia toccavano il 171 per cento del Pil (in aggiunta ad un debito convenzionale di Maastricht del 206 per cento), in Germana il 101 per cento (oltre al 68 per cento ufficiale), nei Paesi Bassi l’89 per cento (oltre il 55) e in Italia il 65 per cento (a fronte del 155 ufficiale). Se questo indebitamento “indiretto” è superiore alla media europea, il dato ufficiale rappresenta una sottostima del rischio comparativo e viceversa. Ad esempio, nel 2020, il debito pubblico medio nell’Unione europea, calcolato secondo i criteri di Maastricht, ammontava a circa il 90 per cento del PIL, ovvero era pari alla soglia inferiore che colloca un paese tra quelli ad alto rischio secondo il nuovo schema. Ma tale media sale al 156 per cento del Pil se si includono anche le altre passività, così da far rientrare la Germania tra i paesi ad alto rischio, mentre la Spagna sarebbe esclusa, pur avendo un debito ufficiale pari al 120 per cento del PIL.

In ogni caso, nella proposta della Commissione mancano almeno due punti chiave. Il primo è il coordinamento delle politiche nazionali, richiesto dal sostanziale “contagio” delle politiche fiscali tra le economie europee, richiamato dalla stessa Commissione. Pertanto le nuove regole potrebbero risultare ancora pro-cicliche, rischiando di diffondere eventuali recessioni in tutta l’Unione, perché i paesi a basso debito non sono affatto incoraggiati a perseguire politiche espansive. Il secondo aspetto è che con l’adozione del benchmark della spesa si continua implicitamente ad ipotizzare che il moltiplicatore fiscale (ovvero l’impatto della spesa pubblica sul PIL) sia nullo, altrimenti non avrebbe senso monitorare la spesa senza tener conto dei suoi effetti su entrate fiscali e PIL. Eppure è noto da tempo che l’austerità è controproducente quando il rapporto debito/PIL moltiplicato per il moltiplicatore fiscale supera l’unità.

Secondo una visione più bilanciata, tuttavia, il tentativo di riformare il patto dopo 25 anni è di per sé un risultato importante. Un’altra buona notizia è il riconoscimento ufficiale che il risanamento del bilancio pubblico non è realizzabile senza la crescita economica e che gli squilibri diversi dal disavanzo di bilancio devono essere presi in seria considerazione. Il perseguimento di obiettivi pluriennali potrebbe incoraggiare politiche strutturali lungimiranti invece di interventi legislativi a breve termine (a volte viziati da “abbellimenti” dei conti pubblici). Aumentare i costi reputazionali e snellire le sanzioni per le deviazioni dai piani è un forte incentivo affinché i governi siano più responsabili e trasparenti nei confronti dei cittadini.

La motivazione per potenziare gli investimenti pubblici e attuare le riforme strutturali è ancora debole – consentendo solo un rinvio del risanamento fiscale – ma è un modo per iniziare a concentrarsi sulla qualità della spesa pubblica e per incoraggiare un uso più produttivo delle entrate fiscali. Inoltre, subordinare la valutazione dei piani e l’erogazione dei fondi europei ai risultati raggiunti, come nel programma del Recovery Fund, è una buona pratica. Infine, la nuova proposta cancella (quasi) dal gergo europeo la regola del 20mo, l’output gap e l’OMT, che hanno creato fin troppi inconvenienti. Naturalmente, molti punti della proposta possono essere migliorati, ma almeno siamo sulla strada giusta.

(Questo articolo è un adattamento di quello pubblicato su Social Europe l’11 novembre scorso)

(*) Le opinioni espresse in questo articolo non coinvolgono in alcun modo le istituzioni con cui collabora l’autore.

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