Residui fiscali regionali: istruzioni per l’uso

Carmelo Petraglia esamina criticamente la tesi secondo cui le regioni settentrionali sarebbero vittima di un’ingiustizia fiscale e sostiene che i residui fiscali negativi del Mezzogiorno vanno ricondotti al dualismo territoriale che trasforma la redistribuzione interpersonale in redistribuzione interregionale. Secondo Petraglia, la scomoda verità di cui convincersi è che l’unica strada per rendere il Mezzogiorno meno dipendente dai flussi di finanza pubblica è la riduzione del suo divario di sviluppo nei confronti del Centro-Nord.

Il tema dell’autonomia fiscale delle regioni del Nord e quello speculare della dipendenza patologica del Sud dai flussi di finanza pubblica hanno dominato a lungo il dibattito politico italiano, tanto da definire una “questione settentrionale”, da molti riconosciuta come prioritario nodo da sciogliere per consentire al Paese di uscire dalla stagnazione che ne ha segnato le sorti per tutti gli anni ‘90.

Se, con la svolta “nazionale” della Lega Nord, nella narrazione leghista il ruolo di principale fattore di ostacolo alla crescita dalle regioni “locomotiva” del Paese era passato dalla presunta ingiustizia fiscale sofferta dalle regioni settentrionali ai vincoli imposti dall’Europa e dalla moneta unica, i recenti referendum sull’autonomia fiscale di Veneto e Lombardia hanno in qualche modo riproposto la tesi del diritto alla restituzione del gettito fiscale generato nelle aree forti del Paese, altrimenti destinato a finanziare un flusso “eccessivo” di spesa pubblica a favore del Mezzogiorno. Un ritorno di fiamma, questo, che ha riportato l’attenzione sul concetto di “residuo fiscale” quale misura dell’entità della redistribuzione interregionale.

Cosa sono i residui fiscali e come vanno interpretati? L’evidenza disponibile sui residui fiscali può essere portata a supporto della tesi dell’ingiustizia fiscale sofferta dal Nord? Sarebbero presumibilmente maggiori i costi o i benefici associati ad una loro eventuale riduzione? Nel seguito, senza la pretesa di dare risposte definitive a queste domande indubbiamente complesse, si tenta di fornire un contributo di analisi per una più corretta definizione dei termini del dibattito.

Il residuo fiscale è il saldo tra il contributo che ciascun individuo fornisce al finanziamento dell’azione pubblica attraverso il pagamento delle imposte e il beneficio che ne riceve sotto forma di servizi pubblici. Per disposto costituzionale, il prelievo fiscale è commisurato alla capacità contributiva, mentre la spesa pubblica dovrebbe realizzarsi in modo che i cittadini ricevano da essa benefici tendenzialmente uguali, indipendentemente dalla loro capacità contributiva e dalla loro residenza. Di conseguenza, i residui fiscali dei contribuenti con basi imponibili più elevate (contenute) sono naturalmente positivi (negativi) e la loro ampiezza fornisce una misura dell’entità della redistribuzione interpersonale (tra ricchi e poveri) operata dal settore pubblico.

I dati sulle entrate e le spese regionalizzate della PA fornite dai Conti Pubblici Territoriali (Sistema CPT-NUVEC- Agenzia per la Coesione Territoriale) consentono di calcolare i residui fiscali delle regioni italiane, pur in presenza delle note criticità legate alla difficoltà di ripartire territorialmente la spesa per servizi indivisibili quali, ad esempio, la difesa nazionale e all’imputazione delle spese di chi si sposta sul territorio italiano. In particolare, i residui fiscali regionali vengono calcolati come differenza tra entrate (al netto dei trasferimenti tra diversi livelli di governo) e spese (al netto dei trasferimenti tra diversi livelli di governo e degli interessi sul debito pubblico) delle amministrazioni pubbliche. In analogia con la definizione precedente, un saldo positivo indicherà che gli abitanti della regione in questione sono contributori netti e trasferiscono (attraverso il bilancio pubblico) il proprio surplus primario alle altre regioni. Viceversa, gli abitanti di una regione per la quale si registra un saldo negativo saranno beneficiari netti della redistribuzione, vedendo coperto (attraverso il bilancio pubblico) il proprio deficit primario dalle altre regioni.

La Tabella seguente illustra entità e dinamica dei residui fiscali per il periodo 2000-2014, riportando per triennio le medie annue di macro-area (a) in milioni di euro a prezzi 2010; (b) in euro pro capite; e (c) in percentuale del PIL di ciascuna circoscrizione.

I dati della Tabella 1 mostrano, in primo luogo, il segno negativo dei residui del Mezzogiorno (Sud e Isole), riflesso diretto e immancabile dei divari economici, sociali e territoriali esistenti fra il Nord e il Sud del paese. Da una parte, infatti, il prelievo fiscale è correlato al reddito e, quindi, al livello di sviluppo strutturalmente più elevato nelle regioni centro-settentrionali; dall’altra, una distribuzione tendenzialmente uniforme della spesa pubblica pro capite sul territorio nazionale conduce inevitabilmente a flussi redistributivi netti a favore delle regioni più povere. In altri termini, il segno negativo dei residui del Mezzogiorno null’altro è che il rovescio della medaglia del dualismo italiano, che porta la redistribuzione interpersonale a tradursi, meccanicamente, in redistribuzione interregionale. Ma, detto che non ci si può sorprendere troppo del segno dei residui fiscali regionali, altra questione è valutare se l’entità della redistribuzione interregionale operata dal settore pubblico sia adeguata, insufficiente o eccessiva.

Facendo riferimento al triennio 2012-2014, il residuo fiscale positivo di circa 53,6 miliardi di euro all’anno delle regioni settentrionali ha finanziato i deficit delle regioni meridionali continentali (circa 31 miliardi) e delle isole (intorno ai 19 miliardi). È troppo? O troppo poco? In assenza di una teoria che permetta di determinare un valore “giusto” di riferimento, a questa domanda non si può rispondere, se non in forza di una posizione puramente ideologica. Il giudizio sull’entità dei residui interregionali dipende dalle preferenze che la politica assegna ad alcune (piuttosto rilevanti) questioni, come l’importanza dell’obiettivo del riequilibrio territoriale, il diritto al pari accesso dei cittadini ai beni pubblici, e i limiti che alla fruizione di questo diritto possono essere imposti dalla capacità contributiva del territorio di residenza. Mentre questi appaiono costituire i termini corretti della discussione, il richiamo all’esistenza di differenti livelli di efficienza e correttezza delle amministrazioni locali come giustificazione per una minore redistribuzione interregionale risulta assai poco convincente. Le inefficienze e le malversazioni nelle pubbliche amministrazioni incidono sulla quantità e la qualità dei servizi offerti (al Nord come nel Mezzogiorno) e sono oggi un grave problema italiano, ma la minore efficienza di alcune amministrazioni meridionali non può essere un pretesto per comprimere redistribuzione interregionale e politiche di riequilibrio territoriale che non sono generose concessioni della parte più ricca del Paese, ma un nucleo essenziale del disegno politico e sociale della Repubblica.

E i dati esposti nella Tabella 1 “rivelano” come le preferenze della politica si siano orientate progressivamente verso una riduzione della redistribuzione interregionale operata dalla finanza pubblica. Confrontando i dati per i trienni estremi del periodo, infatti, i flussi redistributivi verso le regioni meridionali sono calati in termini reali di più del 10%, sia in valori assoluti che pro capite, con una riduzione meno grave in rapporto al PIL, per effetto della maggiore incidenza della crisi nel Mezzogiorno. La riduzione dei residui fiscali delle regioni meridionali è già in atto e riflette l’insufficiente azione redistributiva della spesa pubblica, che in termini pro capite è di circa 29 punti percentuali più bassa nel Mezzogiorno rispetto al resto del Paese. È quindi assai dubbio che si possano comprimere (ulteriormente) i trasferimenti interregionali senza intaccare i principi costituzionali di uguaglianza.

Più in generale, il limite principale dei sostenitori dell’autonomia fiscale del Nord sta nel leggere le relazioni Nord-Sud adottando la categoria della “dipendenza” del Mezzogiorno in termini di una sorta di parassitismo del Sud ai danni del Nord. A questa semplicistica ricostruzione va più sensatamente contrapposta l’interpretazione dell’interdipendenza tra le due aree del Paese, che pur vedendo il Mezzogiorno come area strutturalmente ricevente, ha molti tratti mutuamente benefici. Contrariamente a quanto spesso si assume, le risorse che affluiscono nelle regioni meridionali sotto forma di trasferimenti pubblici producono effetti di stimolo alla domanda di cui molto beneficiano anche le imprese localizzate al Nord. Nonostante l’intenso processo di internazionalizzazione delle produzioni localizzate nelle regioni settentrionali, infatti, il Mezzogiorno rappresenta ancora un primario mercato di sbocco per le produzioni del Nord. In particolare, nel Rapporto SVIMEZ 2017 si stima che nel 2015 la domanda meridionale abbia dato luogo a una produzione realizzata nel Centro-Nord con un valore complessivo pari a 177 miliardi di euro (pari a circa la metà dell’attivazione esercitata dalla domanda estera). Una parte di PIL del Centro-Nord attivata dalla domanda del Mezzogiorno è finanziata proprio dai 50 miliardi circa di residuo fiscale. La SVIMEZ valuta che questa parte si aggiri intorno ai 20 miliardi; ciò implica che, per ogni 10 euro redistribuiti al Mezzogiorno, 4 fanno immediatamente il percorso inverso, sotto forma di domanda di beni, mentre gli altri comunque contribuiscono a rafforzare un mercato interno di sbocco che resta ancora rilevante. Ovviamente, lo stesso ragionamento può applicarsi alla produzione meridionale che trova come sbocco la domanda di imprese e consumatori del Settentrione. Tuttavia, in altri lavori, si stima che il ruolo svolto dal Nord quale mercato di sbocco delle produzioni meridionali è molto più contenuto (si veda, tra gli altri, Cherubini et al. 2012).

Queste considerazioni evidenziano parzialità e miopia della visione “autonomista”. La scomoda verità su cui bisognerebbe riflettere è che l’unica strada percorribile per ridurre la dipendenza del Mezzogiorno dai flussi di finanza pubblica è la riduzione del suo divario di sviluppo. Un obiettivo che le politiche dovrebbero perseguire esplicitamente e intensamente, abbandonando l’illusione che l’avvicinamento del Sud al Nord possa realizzarsi spontaneamente come effetto di riforme strutturali cui troppo spesso, più o meno strumentalmente, si attribuiscono proprietà taumaturgiche tutte da verificare.

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