Il progresso tecnologico con le sue ricadute sul mercato del lavoro è da qualche anno tornato al centro del dibattito economico e sociale.
Si ritiene, in particolare, che la diffusione delle tecnologie informatiche (ICT) abbia generato negli ultimi anni in vari paesi, fra cui l’Italia, un processo di polarizzazione della struttura occupazionale. Ordinando le occupazioni secondo una scala crescente in termini di qualifiche, si è infatti osservata una progressiva perdita di posti di lavoro nelle professioni caratterizzate da un livello medio di competenze, tipicamente collocate nella parte centrale della distribuzione occupazionale, e un aumento, al contempo, sia delle occupazioni associate a professioni manuali specialmente nei servizi alla persona a bassa intensità di competenze, sia, all’estremo opposto, delle professioni associate ad elevate competenze di tipo concettuale e astratto.
In questo articolo, facendo uso dei dati EU-SILC, si offrono alcune evidenze empiriche per alcuni paesi Europei relative al fenomeno della polarizzazione del mercato del lavoro in Europa, sintetizzando i risultati di un nostro contributo, insieme a Giulio Bosio ed Annalisa Cristini, pubblicato nel volume appena uscito per il Mulino “Il Mercato Rende Disuguali?”, curato da Maurizio Franzini e Michele Raitano.
I paesi considerati, raggruppati a seconda della macro-area geografica di appartenenza, sono Danimarca, Finlandia, Svezia, Islanda, Norvegia (Nordici), Austria, Belgio, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi (Continentali), Regno Unito, Irlanda (Anglosassoni), Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Cipro (Sud), Bulgaria, Repubblica Ceca, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Lituania, Lettonia, Estonia (Est).
Nonostante i vari paesi si differenzino in termini di istituzioni e caratteristiche del mercato del lavoro, in tutti i paesi considerati ha avuto luogo un processo di routinizzazione dell’occupazione – ovvero di perdita relativa di importanza delle cosiddette mansioni routinarie, quelle caratterizzate da attività ripetute e codificabili, dunque maggiormente sostituibili dalle nuove tecnologie. Tuttavia, tale fenomeno presenta intensità diverse nei vari paesi, a seconda dello stadio del processo di cambiamento tecnologico in cui questi si trovano.
L’esistenza di un legame tra il cambiamento nella struttura occupazionale e la diffusione delle tecnologie ICT è stata documentata da Autor et al. (“The Growth of Low Skill Service Jobs and the Polarization of U.S. Labor Market”, The American Economic Review, 2003) per gli Stati Uniti già a partire degli anni Ottanta. La loro analisi mette in luce che, coerentemente all’ipotesi di sostituibilità/complementarietà, si è assistito ad una graduale diminuzione della quota di lavori addetti a mansioni routinarie, caratterizzate cioè da attività ripetute e, per loro natura, codificabili, quindi sostituibili, e una crescita della quota di lavori addetti a mansioni di tipo concettuale, astratto e non routinario, che richiedono competenze cognitive e di tipo creativo, e che risultano complementari alle tecnologie ICT.
Questa impostazione teorica, basata sul concetto di mansioni (routine-biased technological change, RBTC), supera la versione che aveva caratterizzato per decenni lo studio del legame tra progresso tecnico, domanda di lavoro e salari, denominato skill-biased technological change (SBTC). Sulla falsariga dello studio di Autor et al. (2003), numerose analisi hanno confermato come la polarizzazione della domanda di lavoro rappresenti un fenomeno su scala globale che ha coinvolto non solo gli Stati Uniti, ma anche diversi paesi europei, seppur con intensità diversa da paese a paese (Goos et al., “Job Polarization in Europe”, American Economic Review, 2009).
Il nostro lavoro offre evidenza empirica del processo di polarizzazione in Europa e cerca di mettere in luce, attraverso una serie di stime econometriche, le principali variabili collegate al processo di routinizzazione. Infine, offre alcune riflessioni sul legame tra cambiamento tecnologico e disoccupazione, seguendo le carriere individuali nei quattro anni della rilevazione panel contenuta in EU-SILC. Al fine di analizzare il trend della routinizzazione in Europa, abbiamo calcolato l’indice di intensità di routinarietà RTI (Routine Task Intensitive), proposto da David Autor e David Dorn, che si basa sulla classificazione dettagliata delle occupazioni ISCO-88. Il valore dell’indice RTI aumenta al crescere dell’importanza delle mansioni routinarie e diminuisce all’aumentare dell’importanza delle mansioni manuali e astratte in ciascuna occupazione. L’indice RTI mostra un andamento decrescente per tutti i gruppi di paesi europei, come si osserva dalla Figura 1, segnalando una chiara perdita di importanza delle occupazioni routinarie, ma il grado di routinizzazione tra i paesi differisce. In particolare, nei Paesi Nordici l’intensità nei lavori routinari è molto più bassa rispetto agli altri gruppi di paesi, suggerendo che probabilmente il processo di routinizzazione in questi paesi i si è avviato molto prima.
Fig. 1: Intensità delle mansioni routinarie nei paesi Europei
Distinguendo le tre dimensioni delle mansioni mediante cui si costruisce l’indice RTI per il complesso dei paesi europei (astratte, routinarie, manuali/servizi; Figura 2) si conferma una parte della storia relativa alla routinization hypothesis – ovvero la caduta delle mansioni routinarie – ma non si osserva l’ aumento monotòno, ipotizzato dalla teoria, dell’intensità dell’occupazione con mansioni manuali. Si conferma, invece la crescita dell’intensità delle mansioni “astratte”.
Figura 2: Andamento della misura di intensità delle diverse mansioni
Attraverso un’analisi di regressione abbiamo messo in luce le variabili correlate al processo di routinizzazione. Si è dunque analizzato il legame fra alcune caratteristiche socio-economiche individuali (genere, età, istruzione, stato civile) e relative al mercato del lavoro (lavoro a tempo determinato/indeterminato, full time/ part time, ore lavorate) sulla misura di intensità di RTI, controllando per gli “effetti paese” e l’andamento del ciclo economico.
I giovani, ad eccezione dei paesi Anglosassoni, le donne e chi ha un contratto a tempo determinato sono le categorie maggiormente impiegate in attività di tipo routinario. In generale, l’indice RTI diminuisce lungo la carriera dei lavoratori e questo è in qualche modo un risultato inaspettato, dato che si potrebbe pensare che le nuove generazioni di lavoratori sono quelle con il più alto grado di istruzione e, di conseguenza, dovrebbero essere quelle maggiormente complementari alle nuove tecnologie. In tutti i paesi esaminati, i lavoratori con istruzione universitaria e quelli assunti a tempo indeterminato sono caratterizzati da una più bassa incidenza di RTI.
Per indagare il legame tra routinizzazione e disoccupazione, abbiamo considerato il legame tra l’indice RTI della mansione svolta e la probabilità che un lavoratore occupato al tempo t divenga disoccupato (o inattivo) nell’anno successivo.
I risultati indicano che l’indice RTI risulta associato positivamente – e in misura statisticamente significativa – alla probabilità di diventare disoccupato nell’anno successivo, anche quando si tiene conto delle caratteristiche osservabili dell’individuo e del lavoro svolto, e si controlla per differenze non osservabili tra i paesi e i periodi in esame. La grandezza di questo effetto non è trascurabile: un aumento di una deviazione standard dell’indice RTI di routinarietà della mansione svolta è associato a un aumento del 10% del rischio di diventare disoccupati.
L’esistenza di una relazione positiva fra routinarietà della mansione e rischio di disoccupazione mette chiaramente in discussione l’idea che solamente i lavoratori non qualificati rappresentino il segmento debole del mercato del lavoro. Rischi di vulnerabilità nel mercato del lavoro caratterizzano, invece, anche i lavoratori routinari, che non sono necessariamente non qualificati e ciò ha chiare implicazioni di policy. I lavoratori routinari potrebbero, quindi, rappresentare un nuovo target per le politiche del lavoro, attive e passive: da una parte, si potrebbe facilitare la riallocazione dei lavoratori routinari verso altri tipi di mansioni; dall’altra, si potrebbe offrire una sorta di assicurazione aggiuntiva ai lavoratori più esposti ai rischi di disoccupazione.
Alcuni caveat sono però necessari. I nostri risultati potrebbero discendere non da una relazione causale fra routinizzazione e disoccupazione, ma da un meccanismo di self-selection che porta alcuni lavoratori “poco dotati” a essere impiegati in occupazioni di carattere routinario. Escludere l’esistenza di un processo di auto-selezione, richiede tecniche di analisi più sofisticate – basate su una qualche forma di variazione “esogena”, molto difficile da verificarsi, del gruppo di lavoratori routinari – che non è stato possibile applicare nel nostro lavoro.
Va infine sottolineato come i processi di polarizzazione occupazionali legati al progresso tecnologico e alla diffusione delle tecnologie informatiche, modificando le opportunità occupazionali e retributive associate alle diverse professioni, rischino di ampliare ulteriormente le disuguaglianze in determinati segmenti del mercato del lavoro.