Se il lavoro arretra. Conseguenze, forse trascurate, sui sistemi di welfare

Maurizio Franzini e Michele Raitano sostengono che nella costruzione degli assetti istituzionali che condizionano il funzionamento dei sistemi economici, e non soltanto, si sono implicitamente assunte condizioni sulle caratteristiche e le tendenze della disuguaglianza che non trovano riscontro nella realtà contemporanea. In particolare, essi sostengono che la caduta della quota di reddito che va al lavoro e la crescita delle disuguaglianze nei redditi da lavoro confliggono con il disegno dei sistemi di welfare e pongono problemi diversi da quelli di cui normalmente si discute.

Gli assetti istituzionali in cui viviamo non sono compatibili con ‘qualunque’ disuguaglianza nella distribuzione dei redditi. Una considerazione di questo tipo ha ispirato, ad esempio, il libro di Ganesh Sitaraman (The Crisis of the Middle-Class Constitution, Alfred A. Knopf, 2017) che argomenta la tesi secondo cui la Costituzione americana è stata costruita sull’ipotesi di un’ampia e forte classe media e che il venire meno di quest’ultima rischia di snaturare quella Costituzione e di trasformare il significato delle sue prescrizioni dal punto di vista sociale e del funzionamento della democrazia.

Una considerazione simile, anche se in un contesto molto diverso, può farsi con riferimento al funzionamento dei sistemi di welfare, in particolare di quelli pensionistici, in relazione al progressivo indebolimento del ruolo del lavoro e, più in particolare, di fronte alla crescente incapacità del lavoro di assicurare con continuità redditi decenti a molte persone.

Un suggerimento di policy ripetuto con frequenza negli anni più recenti, anche in ambito comunitario, è quello che riguarda la necessità di stabilizzare la spesa per pensioni e trasferimenti di welfare, anche a fronte del previsto invecchiamento della popolazione, rafforzando sempre di più il legame fra contributi sociali e prestazioni erogate. Da ciò si attendono effetti virtuosi sia a livello macro – le prestazioni erogate sarebbero sempre sostenibili – sia a livello micro – i lavoratori sarebbero incentivati a versare i contributi nella consapevolezza che maggiori contributi versati oggi implicheranno prestazioni proporzionalmente più elevate domani. Il sistema pensionistico contributivo, introdotto in Italia con la riforma del 1995, si basa proprio su questo assunto: la sostenibilità intertemporale della spesa per pensioni dovrebbe essere assicurata dalla condizione che lega l’importo delle prestazioni erogate ai contributi versati dai lavoratori, oltre che a un tasso di rendimento ancorato alla crescita del Prodotto interno lordo.

A tale proposito, già molti decenni fa due importanti economisti – Henry Aaron (“The social insurance paradox”, Canadian Journal of Economics, 1966) e Paul Samuelson (“An exact consumption-loan model of interest with or without the social contrivance of money”, Journal of Political Economy, 1958) – hanno dimostrato che un sistema di sicurezza sociale finanziato dai contributi in base al metodo a ripartizione (ovvero, la spesa corrente è finanziata dalle entrate correnti) realizza l’equilibrio finanziario se il rendimento offerto agli iscritti sui contributi versati è uguale al tasso di crescita della massa salariale. Quest’ultimo, con quote distributive costanti, è approssimato dal saggio di crescita del Prodotto interno lordo. Questa regola, come rivela un’attenta lettura, si basa sull’assunto che nel lungo periodo le quote distributive – fra salari e profitti – rimangano costanti; con questa condizione sarebbe garantita non soltanto la sostenibilità della spesa, ma anche una crescita del benessere dei futuri pensionati allineata a quella dell’intero sistema economico.

Ma cosa accade a un sistema di welfare (e in particolare a quello pensionistico) quando le quote distributive non sono costanti? E, se tali quote dovessero variare a discapito dei salari, garantire la sostenibilità del bilancio sarebbe anche sufficiente per evitare che peggiori il tenore di cita dei beneficiari dei trasferimenti?

Detto in altri termini, tutti i sistemi di welfare finanziati da contributi sociali a carico del fattore lavoro richiedono che il lavoro – svolgendo un ruolo centrale nel funzionamento dell’economia – si appropri di una quota rilevante del reddito nazionale, in modo che commisurando al reddito percepito dai lavoratori i contributi che finanziano lo stato sociale si ottengano risorse adeguate per far fronte ai principali bisogni sociali e in particolare, nei sistemi a ripartizione, al pagamento delle pensioni.

Nel corso degli ultimi 2 o 3 decenni la quota di reddito appropriata dal lavoro è invece caduta quasi ovunque e in alcuni paesi tra i quali il nostro in modo drammatico. Più precisamente, sulla base dei dati presentati da Bourguignon (“World changes in inequality: an overview of facts, causes, consequences and policies”, BIS Working Papers, 2017), nella totalità dei paesi più sviluppati la labour share (ovvero la quota di prodotto destinata alle remunerazioni dei lavoratori) si è ridotta dalla metà degli anni ’80 in poi: in Spagna, Francia, Germania, Stati Uniti e Italia la riduzione è stata particolarmente accentuata e compresa fra i 3 e i 6 punti percentuali. Come mostrato sul Menabò da D’Elia e Gabriele in Italia la riduzione della labour share è imputabile soprattutto alla caduta della quota di reddito appropriata dal lavoro autonomo a sua volta dovuta all’esplosione di attività autonome poco remunerate che, peraltro, sovente nascondono lavoro dipendente a basso costo.

Una logica conseguenza di queste tendenze è la decrescente importanza dei contributi come fonte di finanziamento del welfare (pur tenendo conto che in molti paesi, fra cui l’Italia, alcune componenti di spesa per servizi, in primis quelli sanitari, sono finanziati principalmente dalla fiscalità generale). Nella UE-28 nel 2016 le risorse destinate alle spese sociali provenivano per il 54,5% dai contributi (58,7% nel 2005) e per il 40,5% dalla fiscalità generale (la quota residua è costituita essenzialmente da co-payments), Le eterogeneità tra paesi sono notevoli, con quelli del Nord Europa che da sempre fanno maggior ricorso alla fiscalità generale (la quota di contributi sul totale della spesa sociale è, ad esempio, del 16,8% in Danimarca).

In Italia, nel 2016, la quota di spesa sociale finanziata dai contributi era del 49,5% – in netta diminuzione dal 56,2% del 2005 e dal 67,6% del 1995. In rapporto al Prodotto interno lordo nel nostro paese i contributi sociali sono passati dal 17,2% nel 1995 al 15,1% nel 2016 principalmente per effeto di una riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro, che sono passati dal 12,8% del Prodotto interno lordo nel 1995 al 10,6% nel 2016 e, in termini di risorse totali, dal 50,3% nel 1995 al 34,8% nel 2016.

La riduzione della quota di contributi è legata a scelte esplicite di policy dirette ad assicurare riduzioni del costo del lavoro (ad esempio, gli esoneri contributivi introdotti in Italia dal Jobs Act) finanziate dalla fiscalità generale, ma è senz’altro legata anche alla caduta della labour share prima ricordata. Negli schemi a ripartizione, se i contributi si riducono, le prestazioni promesse si possono rispettare solo se risorse provenienti da altre forme di finanziamento compensano quella riduzione. Nel dibattito pubblico, il ricorso a fonti di finanziamento aggiuntivo viene generalmente imputato non alla caduta della massa retributiva, ma, erroneamente, a un eccesso di generosità nelle prestazioni erogate che andrebbero, dunque, tagliate al più presto.

Si fa, infatti, spesso confusione fra questioni che comportano cadute del prodotto a disposizione di un sistema economico e questioni invece meramente distributive (a prodotto dato) che si riferiscono a modifiche delle quote appropriate dai diversi attori economici. Per fare un esempio estremo, se all’improvviso tutto il Prodotto interno lordo di un paese fosse opera di robot scomparirebbero i contributi per pagare le prestazioni del welfare, ma non per questo la spesa sociale si potrebbe considerare troppo generosa.

Non è difficile, quindi, istituire un collegamento tra distribuzione funzionale e risorse per il welfare e, viste le tendenze della prima, appaiono giustificate le preoccupazioni per la tenuta del sistema e non solo per le spessissimo invocate tendenze all’invecchiamento della popolazione.

In aggiunta, contestualmente alla caduta della labour share, sta crescendo la diseguaglianza fra lavoratori (la cosiddetta diseguaglianza personale). In Italia, ad esempio, il Gini dei redditi da lavoro dipendente nel settore privato è cresciuto del 20% fra il 1985 e il 2014 (Franzini e Raitano, a cura di, Il mercato rende diseguali? Il Mulino, 2018). Come più volte discusso sul Menabò, della ridotta “quota lavoro” si appropriano in primo luogo i top earners, mentre quote crescenti di lavoratori cadono nella condizione di working poor, con retribuzioni molto limitate, anche a causa di part-time involontari. Dai dati INPS, risulta, ad esempio, che in Italia il 31,4% dei dipendenti nel settore privato guadagnava in un anno meno di 12.000 euro, mentre poco meno dell’1% aveva una retribuzione annua superiore ai 100.000 euro (Franzini e Raitano, op. cit.).

Di certo il fenomeno dei working poor non era presente alla mente di coloro che hanno concepito e creato i moderni sistemi di welfare, ma questo è un altro fenomeno attraverso il quale la perdita di terreno sul piano distributivo del lavoro finisce per incidere sia sulla sostenibilità dei sistemi di welfare, condizionando l’ammontare di risorse a disposizione (e il fenomeno è aggravato quando, come in Italia, si introducono forme di decontribuzione che avvantaggiano soprattutto i lavoratori a più alto salario), sia sull’adeguatezza e l’equità delle prestazioni erogate, soprattutto quanto più si fa stretto il legame fra contributi versati (dunque salari percepiti) e prestazioni ricevute, come discusso da Raitano a proposito del sistema pensionistico italiano

Questa nostra epoca è molto diversa da quella in cui furono concepiti i moderni sistemi di welfare, Allora si poteva ritenere che bastasse tutelare il lavoro per generare, a cascata, un finanziamento adeguato per la spesa sociale, redditi adeguati per tutti i componenti della famiglia e prestazioni di welfare generose Oggi, invece, per le ragioni che abbiamo cercato di esporre in queste note sostanzialmente siamo di fronte a un trilemma: non si può ridurre la quota di reddito da lavoro (e aumentare le disuguaglianze nella sua distribuzione) conservando un welfare generoso e equo, largamente finanziato attraverso i contributi.

Quindi le strade che si hanno davanti sono tre (più le loro possibili combinazioni):

  1. ridare centralità al lavoro, aumentandone la labour share e riducendo la diseguaglianza al suo interno;
  2. ridurre le prestazioni del welfare;
  3. modificare le forme di finanziamento del welfare;

o una loro combinazione.

Sarebbe bene che su questo menu riflettesse chi ha a cuore il futuro della protezione sociale e, in particolare, del sistema previdenziale.

Schede e storico autori