Se la crisi della Ue è istituzionale…

Paolo De Ioanna partendo dall’osservazione che vi è largo consenso sulla natura intimamente istituzionale della crisi in atto nella UE sostiene che occorre indagare più a fondo sulle radici e gli sviluppi delle contraddizioni istituzionali e sulla necessità di ridisegnare le linee di forza per un nuovo focus istituzionale che poggi su una graduale ma nitida revisione dei Trattati. Secondo De Ioanna aprire questo cantiere è urgente per costruire una concreta prospettiva politica fondata su un nucleo di istituti federali e sulla forza della democrazia.

Se si semplificasse e ordinasse l’enorme congerie di commenti che economisti (e commentatori vari) dedicano alla crisi della UE lungo pochi, essenziali, fuochi tematici, probabilmente emergerebbe un punto centrale di consenso e due varianti, analitico-interpretative.

Il punto di consenso è che la crisi in atto presenta una natura essenzialmente istituzionale. Le due varianti dicono :

(a) che questa natura strutturale ha mostrato una sostanziale tenuta e adattatività (ESM, Quantitative easing, piano Junker, ecc) e che quindi il processo di integrazione deve continuare così, con lenti e condivisi aggiustamenti, ma dentro i confini dei Trattati (no bailout, no debito pubblico europeo, ecc,) che recano in se tutta la flessibilità necessaria;

(b) che è invece proprio questa struttura ad aver generato le attuali contraddizioni e dunque deve essere modificata su questioni sostanziali.

Ora , secondo i sostenitori della (a) il principale obiettivo della integrazione sarebbe “la correzione dei difetti istituzionali che caratterizzano i paesi del sud Europa, da cui principalmente dipende l’instabilità e la bassa crescita della Eurozona”. Dunque il futuro europeo appare come un sistema politico istituzionale omogeneo con i sistemi nordici e della RFT. Si tratta della tesi che vede strettamente uniti Merkel e Gabriel. Vorrei provare a sollevare qualche dubbio sulla tesi (a), proprio sul terreno istituzionale che forse gli economisti maneggiano con qualche difficoltà; i disastri che la perversa alleanza tra economisti e giuristi ha prodotto in Italia sul terreno del cd federalismo (“che non c’è”) corrobora questa affermazione.

Se l’obiettivo (razionalizzato)   istituzionale della UE è quello indicato sub (a), il metodo diventa cruciale, proprio perché si è preventivamente e definitivamente rinunciato al conflitto armato e le questioni devono essere risolte per via democratica, consensuale e procedurale. La UE si preoccupa, infatti, di verificare il tasso di democraticità dei processi politici nei paesi che intendono aderire all’Unione e dovrebbe sanzionare eventuali lesioni del metodo democratico o dubbi nei suoi confronti.

Ora, mi sembra, che tutta la letteratura più autorevole indichi che l’esperienza istituzionale dei paesi nordici è fondata su sistemi di democrazia parlamentare, a base proporzionale, corretti con patti di coalizione vincolanti (Svezia, Finlandia, Danimarca, e la stessa RFT) e su grandi partiti che costruiscono e canalizzano il consenso. Sono sistemi fondati sul rispetto di procedure cognitive collettive che strutturano opinioni pubbliche ragionevolmente informate e organizzate intorno a vere politiche pubbliche (innovazione, trasporti, ricerca, università, ecc) e senso della cittadinanza attiva.

Il mercato non è una struttura naturale ed organicistica, ma una delle forme di regolazione della vita associata. Linguaggio e consenso critico sono ingredienti essenziali di queste esperienze: esse costituiscono, a mio avviso, una secca smentita dei sostenitori, in via generale e meccanica, di sistemi presidenziali o semi presidenziale, di esecutivi “ fortificati” e di premi di maggioranza, a prescindere, per domare le democrazie parlamentari che generano debito.

Se questo è vero, e se si ritiene che la crisi UE è istituzionale, le forze democratiche europee dovrebbero sostenere in Europa e per l’Europa processi analoghi: fondati sulla centralità della sintesi e dei poteri (razionalizzati) delle istituzioni parlamentari e su alleanze che rendano stabili temi e tempi della agenda politico-legislativa. Ora, tutte le analisi economiche convergono nell’indicare che una unione di Stati con una sola autorità monetaria indipendente da organi politici, non può a lungo sopravvivere senza strumenti per fronteggiare crisi di fiducia e, soprattutto, crisi derivanti dagli andamenti di cicli economici sempre più influenzati dalla globalizzazione e dalla “concorrenza-confronto” di sistemi monetari agganciati a strutture statuali.

In altri termini, il processo di convergenza dei paesi del Sud verso un modello nordico, se è un processo politico istituzionale, non può per definizione essere governato dentro un meccanismo che per   struttura interna è auto impedito da ogni trasferimento tra Stati, via bilancio e /o via sistema finanziario-creditizio. E dove la BCE deve vigilare (sotto l’occhio arcigno della Corte di Karlshure) sul rispetto di tali regole costitutive.

La RFT ha parlato di recente per bocca di Weideman e Schauble per indicare che ogni modifica dei Trattati deve intensificare il carattere tecnocratico e anti parlamentare della UE. Gli economisti sub (a) sostengono, tuttavia, che lentamente le istituzioni si modificano e che il rispetto sostanziale delle regole di bilancio, unico vero pilastro della UE, insieme alla BCE, consentirà ai paesi del Sud di avvicinare nel tempo quelli del Nord.

In economia il tempo è una variabile cruciale: un utilizzo intelligente (orientativo) dei modelli macro dice (vedi anche alcuni studi del FMI) che le regole di bilancio numeriche e rigide sono una vera assurdità e che, con queste regole, la convergenza con le economie del Nord durerà trenta o quaranta anni e forse alla fine tutte cresceranno dello 0, … annuo. Gli effetti positivi di robusti programmi pubblici, diretti verso investimenti in infrastrutture e ricerca, finanziati con debito netto aggiuntivo, garantito dalla UE, risultano dimostrati con ampiezza di dati e riflessioni: ma sono irrimediabilmente ostruiti dalle vigenti regole.

Ci sembra in conclusione fondato sostenere che la posizione degli economisti sub (a) sia essenzialmente di natura “morale”: essa prescinde dai dati e dalle metodologie di analisi ed esprime una disaffezione (certo in parte giustificata) sulla capacità e l’idoneità della nostra classe politica a presidiare in modo autonomo e paritario i nostri interessi nazionali in un mondo globale.

Dunque mentre i leaders storici del PD studiano (forse per recuperare il tempo perso), meglio in ultima analisi affidarsi a Merkel e Gabriel piuttosto che cercare difficili nuove alleanze. La conclusione di chi scrive è che è meglio se gli economisti cercano di fare il proprio mestiere; se la crisi è istituzionale, la parola deve tornare alla politica, e gli sviluppi futuri devono essere sottratti ad una tecnocrazia chiusa in un cul de sac; ma ciò richiede appunto una teoria ed una prassi per una classe politica democratica europea, che per ora non si vede: il nostro Prodi ha messo le carte in tavola con chiarezza, ma una rondine da sola non fa primavera. E soprattutto occorre costruire una prospettiva politica agibile e concreta per i prossimi anni, fondata sulla forza della democrazia e su punti nitidi e comprensibili ai cittadini e ai giovani, e non sulla tattica e sulla lenta ma perdente difesa dell’esistente. Al centro di questa prospettiva dovrebbe esserci il focus di una modifica sostanziale dei Trattati.

Schede e storico autori