Il mese scorso, presso UnitelmaSapienza, si è tenuto un incontro su Debt and Financial Crises: Literary fiction and economic discourse, il tema di un Simposio curato da Bruna Ingrao e pubblicato dalla Rivista di Lingue e Letterature “Costellazioni”. L’incontro ha offerto l’occasione per esplorare il terreno di confine fra economia e letteratura sul tema del debito e delle crisi finanziarie. Questa esplorazione avviene nell’ambito di un campo di ricerca innovativo, la “narrative economics”.
Il termine Narrative economics, reso popolare dall’economista R. J. Shiller autore di un libro dallo stesso titolo e vincitore, nel 2013, del Premio per le scienze economiche assegnato dalla Banca centrale di Svezia in memoria di Alfred Nobel, è stato introdotto per descrivere l’analisi dei cambiamenti nel comportamento economico, indotti dalla diffusione di narrazioni dei fatti economici che fanno presa sulla mente del pubblico diffondendosi in maniera virale. Da questa nozione ristretta, il campo della narrative economics si è ampliato all’analisi dei diversi stili narrativi adottati dagli economisti per comunicare le proprie teorie e visioni su specifiche questioni economiche. Il tema scelto dalla curatrice, debito e crisi finanziarie, si presta particolarmente bene a cogliere questa prospettiva più ampia della narrative economics come cercherò di spiegare in queste brevi considerazioni.
Tra la seconda metà del XIX e gli inizi del XX secolo, i mercati organizzati delle materie prime e dei titoli finanziari sperimentano una forte crescita e mutamenti degli assetti organizzativi, nel quadro di una trasformazione profonda dell’economia mondiale. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, infatti, i progressi nel trasporto marittimo e terrestre e nelle comunicazioni contribuiscono al formarsi d’una rete di mercati globali interconnessi. Contemporaneamente, la necessità di raccogliere ingenti capitali per le nuove imprese che alimentano l’industrializzazione dell’Occidente determina uno straordinario sviluppo delle principali Borse occidentali che acquistano un carattere internazionale e ampliano la gamma dei titoli trattati. L’importanza crescente dei mercati organizzati, strumento al servizio dello sviluppo e del progresso, attira l’attenzione degli economisti e genera una nuova letteratura scientifica volta a comprendere il funzionamento di questi mercati e il ruolo che gli speculatori professionali giocano al loro interno. Lo studio di questi temi s’intreccia con la riflessione sul merito relativo di consentire un accesso ampio e libero ai mercati organizzati anche ai piccoli investitori oltre che agli operatori professionisti.
Nel passaggio fra Ottocento e Novecento, la letteratura scientifica evidenzia tre argomenti principali a favore dell’apertura dei mercati finanziari a tutti investitori, grandi e piccoli. All’aumentare del numero di investitori cresce la liquidità, cioè la facilità di acquistare e vendere in ogni momento a prezzi ragionevolmente prevedibili titoli e materie prime. Quei prezzi riflettono l’opinione collettiva di una moltitudine di acquirenti e venditori, animati dall’obiettivo del guadagno e dell’emancipazione che questo può garantire soprattutto a chi, disponendo di pochi mezzi, riesca a moltiplicarli in Borsa. Sono questi investitori a fornire le risorse finanziarie che come mille ruscelli confluiscono nel grande fiume dell’accumulazione, rendendo possibile raccogliere i capitali con i quali finanziare le ferrovie, i transatlantici, il telegrafo, i cavi transoceanici, l’elettricità e via così sulla strada del progresso.
Ai primi economisti che studiano il nesso tra speculazione e apertura dei mercati non sfuggono i rischi a cui sono esposti i piccoli investitori, alle prese con un mondo nuovo fatto di quotazioni, broker, titoli, promesse di arricchimento, truffe clamorose. L’introduzione di regole e codici di comportamento per contrastare il rischio di cadere preda d’intermediari e imbonitori senza scrupoli caratterizza l’evoluzione dei mercati organizzati. Ciò avviene soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, dove prevale il modello del mercato aperto che si auto-regolamenta a differenza dei modelli francese e tedesco in cui le regole sono scritte dallo Stato. Nella stessa direzione vanno gli sforzi di accrescere l’educazione finanziaria e la conoscenza del mercato e delle sue trappole.
Questi sforzi si cristallizzano in un secondo filone di letteratura economica. Ne fanno parte manuali sul funzionamento della borsa e dei contratti, bollettini informativi, articoli nei quotidiani e nella stampa specialistica, prospetti informativi. Si apprende con interesse, leggendo il saggio di Silvana Colella, che apre il Simposio, che a questo elenco vanno aggiunte opere letterarie vere e proprie come la raccolta di storie brevi The Stockbroker’s wife di Bracebridge Hemying (1885), pubblicata da una ditta di broker, o romanzi come The Market-Place di Harold Frederic (1899) o il Tono-Bungay di H.G. Wells del 1909.
In queste opere, come nei primi manuali di educazione finanziaria (es. Arthur Crump. 1874, The Theory of Stock Exchange Speculation, tradotto in Italiano da Luigi Einaudi per la Biblioteca dell’Economista (Serie IV) nel 1899,) risuonano echi di idee antiche sul confine labile tra speculazione e gioco d’azzardo, sull’avidità che spinge investitori inesperti a rischiare i propri risparmi, sul fallimento come inevitabile (giusta?) punizione dell’avidità; fallimento che significa bancarotta, perdita del proprio stato sociale e in alcuni casi della vita stessa. Echi di questi temi ritornano in forme diversi in altri saggi. Roberta Patalano, per esempio, affrontando la questione della trappola del disvalore e della perdita di denaro, amore e auto-stima come matrice narrativa nella descrizione delle scelte cruciali, ci parla di Arthur Schnitzler e del luogotenente Kasda che, nel racconto Gioco all’alba, al tavolo da gioco passa dal successo travolgente al suicidio.
I saggi raccolti nel numero di Costellazioni sono un ottimo esempio della ricchezza di prospettive e suggestioni che la narrative economics può offrire sui temi della speculazione, del debito e delle crisi finanziarie. Queste suggestioni ruotano intorno ad alcune parole chiave: ambiguità, incertezza, amore per il denaro.
Ambiguità, per esempio, nell’analisi della decisione di indebitarsi. Da un lato, il debito serve per finanziare gli investimenti, che producono ricchezza. Indebitarsi richiede ottimismo, fiducia nel futuro e in sé stessi, come il banchiere Saccard, protagonista dell’Argent di Zola di cui parla il saggio di Christophe Reffait. Lo stesso debito, soprattutto se costituito da titoli negoziabili nelle mani di investitori impauriti può trasformarsi in una trappola mortale, che porta al fallimento. Accade al banchiere Saccard di Zola, accade al colonnello Silas Lapham nel romanzo di William Dean Howell di cui parla Stephen Meardon nel suo saggio dal titolo Economic Crises in the Age of American Literary Realism.
La narrativa sulla tensione di fondo fra dimensione costruttiva e distruttiva del debito s’intreccia con il tema dell’incertezza che condiziona le scelte umane. La finanza offre strumenti per contenere la portata dell’incertezza, titoli fruttiferi, detenuti direttamente o attraverso assicurazioni e fondi d’investimento, e derivati finanziari di ogni genere. Da un lato, l’esistenza di mercati secondari dove rivendere questi titoli offre, il vantaggio della liquidit. Dall’altro, però, l’innesco che può causare una crisi finanziaria. Quanto più sicuri sono i titoli maggiormente liquidi nelle fasi di prosperità, tanto più facile sarà liberarsene al sopraggiungere dei segnali di crisi, rendendo la crisi stessa più profonda di quanto sarebbe se quei titoli fossero meno liquidi.
All’intreccio fra investimento, liquidità e incertezza, Keynes ha dedicato pagine memorabili a cominciare dal Capitolo 12 della Teoria Generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta. E proprio nelle opere di Keynes, autore dotato di una penna particolarmente felice, ritroviamo molti dei temi che emergono dall’esplorazione del confine fra letteratura ed economia: dall’amore per il denaro come segno di distinzione e di successo sociale allo studio delle varie forme in cui le vicende della moneta e della finanza condizionano l’economia reale.
Nel saggio dedicato alle Prospettive economiche per i nostri nipoti, per esempio, confrontando gli anni Trenta con quello che immagina sarà il mondo dopo cento anni di progresso tecnico, accumulazione e investimento, Keynes riflette sull’atteggiamento verso il denaro come strumento di affermazione e di riconoscimento sociale, movente potente dell’azione umana. Scrive Keynes “Quando l’accumulazione di ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. […] Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione “denaro” il suo vero valore. L’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali. […] Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. […] Ma attenzione! Il momento non è ancora giunto. Per almeno altri cent’anni dovremo fingere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no. Avarizia, usura, prudenza devono essere il nostro dio ancora per un poco, perché solo questi principi possono trarci dal cunicolo del bisogno economico alla luce del giorno.
Avarizia, usura, prudenza, condizionano le scelte e le decisioni degli uomini, a maggior ragione all’interno di sistemi economici in cui la moneta svolge un ruolo fondamentale e – come scrive ancora Keynes nel 1933 nel saggio a Monetary Theory of production, la moneta “influisce sulle motivazioni e sulle decisioni ed è, in breve, uno dei fattori operativi della situazione, cosicché il corso degli eventi non può essere previsto, né nel lungo né nel breve periodo, senza conoscere il comportamento del moneta tra il primo stato e l’ultimo”.
Le vicende economiche che coinvolgono gli uomini e le nazioni non si possono comprendere prescindendo dall’analisi dei fattori monetari e finanziari. Ecco una delle grandi lezioni di Keynes la cui rilevanza appare in controluce in molti dei saggi raccolti da Bruna Ingrao, e in particolare nel saggio di Stephen Meardon, già ricordato, e in quello di Alexandre Péraud sull’apocalisse monetaria degli Stati Uniti immaginata da Lionel Shriver. Che quell’apocalisse inizi nella forma di un’inflazione fuori controllo che annienta la fiducia nel dollaro, innescando una crisi finanziaria globale, non lascia affatto tranquilli se guardiamo ai giornali in queste ultime settimane.
Molto ancora si potrebbe dire sul tema dell’amore per il denaro in Keynes e sui nessi fra moneta, debito e crisi finanziaria che emergono dai suoi scritti e da quelli dei suoi allievi. Tra questi, in conclusione, mi piace ricordarne uno, Richard Kahn. Riflettendo sulla teoria keynesiana della preferenza per la liquidità, Kahn giunge a elaborare una teoria innovativa e profondamente originale del comportamento che guida le scelte d’investimento. Nella mente di ogni investitore, scrive Kahn si svolge un dialogo fra lo speculatore e l’investitore prudente, Il primo punta a trarre un guadagno dall’anticipazione corretta degli andamenti di mercato, incurante della qualità intrinseca del titolo che compra o vende. Il secondo, lo chiameremmo il cassettista, è interessato solamente a titoli solidi che promettono una rendita sicura nel tempo e poco si cura delle fluttuazioni di breve periodo.
Proiettando questa caratterizzazione dal piano individuale a quello aggregato emerge una relazione complessa fra moneta, tassi d’interesse e investimento che condiziona l’andamento dei mercati finanziari e dell’economia, generando un caleidoscopio di posizioni possibili, fortemente influenzato dalle congetture, dalle diverse visioni della realtà da parte degli investitori e dal modo in cui quelle visioni sono influenzate dalle narrative dominanti a proposito dei fatti economici. Chi controlla la narrazione dei fatti economici – sembra dirci Kahn – condiziona i meccanismi di formazione delle aspettative, le congetture, le scelte e in ultima analisi l’andamento dell’economia.
Anche da qui deriva l’importanza di studiare le narrazioni nel campo dell’economia, i modi in cui si formano, gli interessi e i rapporti di potere sui cui basano, gli esiti ai quali porta la loro diffusione. In tutte queste direzioni, la narrative economics può fornire prospettive interessanti e importanti.