Storie lavorative e pensioni attese dei lavoratori del “contributivo”

Michele Raitano discute il rischio che il sistema contributivo porti, in futuro, a pensioni inadeguate. Dopo aver ricordato che i meccanismi del contributivo assicurano pensioni adeguate in caso di vite lavorative lunghe e remunerate decentemente Raitano sostiene che i dati presenti negli archivi dell’INPS, mostrano che gran parte dei lavoratori “contributivi” ha finora sperimentato una carriera così discontinua da rendere, purtroppo, assai concreto per loro il rischio di pensioni da povertà, in assenza di miglioramenti nel prossimo futuro.

Una frequente preoccupazione dei lavoratori più giovani riguarda il loro futuro tenore di vita da anziani. Si ritiene infatti, generalmente, che lo schema contributivo – in base al quale sono interamente calcolate in Italia le pensioni di chi ha iniziato a lavorare a partire dal 1996 – genererà pensioni di importo molto modesto, esponendo al rischio di povertà gran parte dei futuri anziani.

In questo contributo si ragiona su quanto sia fondata questa preoccupazione presentando, sulla base dei dati raccolti negli archivi amministrativi dell’INPS, alcuni indicatori relativi alle storie lavorative e all’effettiva accumulazione contributiva nella prima fase di carriera da parte delle prime coorti di lavoratori che rientrano nello schema contributivo.

Prima di presentare le evidenze empiriche, va ricordato che nel metodo contributivo – che ha sostituito quello retributivo, in cui la pensione era legata al numero di anni di attività e alle retribuzioni di fine carriera – l’importo della pensione dipende, sulla base di rigidi criteri di “neutralità attuariale”, dal montante dei contributi versati durante l’intera carriera. In maggior dettaglio, tale importo verrà a dipendente dai contributi versati e dal rendimento conseguito su questi (legato al tasso di crescita del PIL, trattandosi di un’accumulazione solo “virtuale” nel sistema pubblico a ripartizione) e dai “coefficienti di trasformazione”, che, in base alla vita media all’età di pensionamento, convertono il montante in una rendita e fanno sì che chi si ritira più tardi riceva una prestazione più elevata, poiché ne beneficerà, in media, per un minor numero di anni.

A parità di crescita del PIL e di invecchiamento demografico, la pensione è il riflesso della storia lavorativa di ogni individuo: essa dipende, dunque, dall’interazione, nel corso dell’intera carriera, di aliquote di contribuzione (è sfavorito chi, come in passato i co.co.co., versa un’aliquota minore), periodi lavorati (o con contribuzione figurativa) e retribuzioni, su cui incidono, negativamente, anche i lavori part-time. Carriere meno fortunate si rifletteranno, dunque, in una pensione di importo proporzionalmente minore. In aggiunta, al di là dell’assegno sociale e della pensione di cittadinanza, che, sulla base di una prova dei mezzi, sono concessi a tutti gli anziani poveri (anche a chi non ha mai lavorato), nel contributivo non esiste l’integrazione al minimo, che negli schemi retributivo e “misto” costituisce un pavimento per le prestazioni pensionistiche.

In realtà, il cospicuo aumento dell’età pensionabile introdotto dalle riforme del 2009-2011 – che prevedono l’aggiornamento automatico dei requisiti di pensionamento in base all’evoluzione dell’aspettativa di vita – dovrebbe consentire di accrescere l’importo della pensione, per effetto dei più elevati coefficienti di trasformazione da applicare quando l’età di ritiro aumenta e dell’eventuale maggiore durata della vita lavorativa, che comporterebbe una più elevata accumulazione contributiva. Alcune simulazioni rilevano, infatti, che con carriere “piene” e lunghe (circa 40 anni di contributi) il rapporto fra pensione e ultima retribuzione sarebbe del tutto simile (attorno all’80% netto), se non superiore, a quello dello schema retributivo, dove però prestazioni di simile importo erano pagate a età anagrafiche ben inferiori. Chi dovesse trascorrere una vita lavorativa stabile e remunerata decentemente riceverebbe, dunque, una prestazione del tutto adeguata al tenore di vita precedente al pensionamento. Tuttavia, le stesse simulazioni evidenziano che chi avesse una vita lavorativa svantaggiata finirebbe per ricevere una pensione di importo non dissimile dall’assegno sociale.

Ma quanti nei decenni a venire saranno i lavoratori con vite lavorative lunghe e remunerative o, al contrario, con carriere particolarmente sfavorevoli? Ovviamente, si ignora come evolveranno le carriere degli attuali lavoratori da qui al 2040-2050 (quando le prime coorti contributive raggiungeranno i requisiti per il pensionamento), ma si può iniziare a far luce su questa problematica mostrando l’evidenza sull’accumulazione effettiva di contributi nella prima fase di carriera da parte di chi ha iniziato a lavorare dopo il 1995.

A tal fine, sfruttando l’archivio degli estratti conto contributivo INPS-LOSAI, che rileva le carriere di un campione pari all’incirca al 13% dell’universo dei lavoratori italiani, si sono selezionati gli individui entrati in attività fra il 1996 e il 1999 (194.455 individui) e li si è seguiti per i 15 anni successivi a quello di ingresso. Per valutare la diffusione dei rischi connessi a fasi svantaggiate nei 15 anni successivi l’entrata in attività e alle conseguenze di tali rischi per le prospettive previdenziali, sono stati calcolati diversi indicatori, che consentono di mostrare separatamente l’importanza di ognuno dei fattori di rischio durante la carriera lavorativa.

La prima dimensione rilevante consiste nella frequenza delle interruzioni lavorative, spesso associate – quando si ha diritto a ricevere un sussidio di disoccupazione – all’assenza di contribuzione figurativa. Come indicatore di frequenza contributiva si è calcolato il rapporto fra le settimane effettive di contribuzione (da lavoro o figurativa) nel quindicennio e il numero di settimane potenziali di contribuzione. Come evidente nella figura 1, una consistente quota di lavoratori è caratterizzata da un ampio gap contributivo nel primo quindicennio di attività: solo l’8,2% dei lavoratori (il 9,2% degli uomini e il 6,8% delle donne) ha infatti un periodo contributivo sostanzialmente pieno (pari ad almeno 14 anni accreditati in 15 di attività), mentre per il 26,7% dei lavoratori (22,8% fra gli uomini, 32,1% fra le donne) i primi 15 anni di attività si riflettono in un periodo effettivo di lavoro o contribuzione non superiore a 6 anni.

Nel dibattito pubblico, i rischi di inadeguatezza delle pensioni attese in Italia sono sovente associati alla diffusione dei contratti atipici, in primis quelli parasubordinati, che fino all’omogeneizzazione delle aliquote con quella dei dipendenti entrata in vigore nel 2018 erano caratterizzati da aliquote contributive ridotte (pari addirittura al 10% nel periodo 1996-1997 e inferiori al 20% fino al 2006) e, nella maggior parte dei casi, da bassi salari e frequenti periodi di non lavoro. Tuttavia, l’analisi longitudinale delle carriere individuali induce a non enfatizzare troppo i, seppur molto gravi, rischi associati a tali forme contrattuali (peraltro in via di eliminazione), dal momento che una quota esigua di lavoratori risulta continuativamente occupata con contratti parasubordinati come collaboratore o professionista a “partita IVA” (figura 2): solo il 3,0% del nostro campione ha infatti trascorso almeno 6 anni su 15 come parasubordinato nel primo decennio di attività e, fra questi, alcuni potrebbero essere individui che, per l’attività professionale svolta, scelgono di lavorare con forme atipiche (ad esempio i sindaci e gli amministratori di società).

Una dimensione cruciale di rischio nella carriera lavorativa è quella retributiva che risente sia di eventuali periodi non lavorati durante l’anno, sia di bassi salari nei periodi di attività (anche a causa di contratti a tempo parziale, spesso “involontari”). Vista da questa prospettiva, solo una quota esigua di lavoratori – il 22,8% (27,0% fra gli uomini, 17,0% fra le donne) – risulta aver trascorso come working poor – ovvero con una retribuzione annua inferiore al 60% di quella mediana dei dipendenti del settore privato – non più di 1 anno nei primi 15 di attività (figura 3).

I rischi di inadeguatezza delle pensioni attese vanno dunque valutati sulla base di intere dinamiche di carriera – anziché assumendo semplicemente che lo status osservato in un determinato momento rimanga immutato nel tempo – e descrivendo queste dinamiche sulla base di più dimensioni (retribuzioni, aliquote di versamento, periodi di contribuzione), evitando di guardare a una sola di esse. Coerentemente, per cogliere l’effetto congiunto di tutte queste dimensioni nel tempo, si è calcolato il montante contributivo che i lavoratori del nostro campione hanno accumulato alla fine del primo quindicennio di attività (escludendo dall’analisi l’anno di ingresso).

Per valutare il livello di accumulazione si è scelto di esprimere il montante in termini relativi, cioè rispetto al montante che, nello stesso intervallo di tempo, avrebbe accumulato un lavoratore rappresentativo, ovvero un individuo che nel quindicennio fosse stato continuativamente occupato da dipendente (quindi con aliquota piena del 33%), ricevendo ogni anno esattamente la retribuzione lorda annua mediana dei dipendenti full-time (pari a 23.500 euro, a prezzi correnti, nel 2014). Un valore dell’indicatore pari al 100% segnala, dunque, che nel quindicennio il lavoratore ha accumulato lo stesso montante del “dipendente mediano” rappresentativo; un valore inferiore registra, invece, il divario fra il valore di riferimento e il montante accumulato. In coerenza con la metodologia standard nell’analisi della povertà relativa (che esprime solitamente la soglia di povertà come il 60% della mediana della distribuzione di riferimento), si può immaginare che un valore del rapporto inferiore al 60% esprima il rischio di “povertà relativa di accumulazione contributiva” nel primo quindicennio di attività.

Sulla base di questo indicatore, emerge chiaramente come gran parte del campione abbia registrato nel primo quindicennio di attività un’accumulazione contributiva (e, dunque, in ottica multidimensionale, una carriera) meno favorevole di quella del “dipendente mediano” (figura 4): solo il 24,1% del campione (29,7% e 16,4% fra gli uomini e le donne, rispettivamente) ha accumulato più del “dipendente mediano”, mentre il 54,6% (48,6% e 62,9% fra gli uomini e le donne, rispettivamente) presenta un’accumulazione inferiore al 60% del valore di riferimento e potrebbe, dunque, essere considerato a rischio di povertà relativa da anziano qualora la sua storia lavorativa non dovesse migliorare sensibilmente negli anni a venire lungo almeno una delle dimensioni che caratterizzano la fragilità o meno della carriera in ottica previdenziale (retribuzioni, periodi lavorati o di contribuzione, aliquote di versamento).

L’osservazione dei dati dei montanti accumulati dalle prime coorti di lavoratori del contributivo in una fase abbastanza lunga della loro carriera (15 anni, un periodo pari ad almeno 1/3 della carriera lavorativa attesa) conferma, dunque, l’esistenza di un rischio rilevante di ricevere una pensione di importo modesto, anche dopo una lunga attività, per una quota di lavoratori che sarebbe ampia se coloro che fin qui hanno avuto carriere lavorative svantaggiate continuassero ad averle nei decenni a venire. Va anche sottolineato che l’aver considerato coorti entrate in attività fra il 1996 e il 1999 non consente di cogliere appieno l’effetto della crisi iniziata nel 2009 (che qui colpisce solo il gruppo di lavoratori già da anni in attività). È quindi del tutto probabile che il quadro di fragilità diffusa si aggravi sensibilmente quando ci si riferisca alle coorti più giovani, maggiormente penalizzate dai devastanti effetti della crisi economico-occupazionale che ha interessato il nostro paese, perché appena entrate nel mercato del lavoro e quindi particolarmente fragili.

Le simulazioni condotte e l’analisi dei versamenti contributivi nei primi 15 anni di attività portano, dunque, a smentire il rischio che “col contributivo avremo tutti pensioni da fame”; è invece concreto e serio, il rischio che la pensione futura non sia adeguata per quella quota – purtroppo per nulla irrilevante – di individui caratterizzata per molti anni da carriere svantaggiate in termini di “buchi” lavorativi, aliquote di contribuzione e livelli salariali. Per questi lavoratori, peraltro, la previdenza privata non può rappresentare una risposta: infatti appare molto poco plausibile che un lavoratore povero possa risparmiare in misura adeguata per garantirsi un maggior consumo da anziano. Questa esigenza va invece posta a carico del sistema pubblico, all’interno del quale andrebbero introdotte forme di “pensione di garanzia”, di cui si è già discusso sul Menabò.

* La versione integrale di questo contributo è inclusa nel “Rapporto sullo Stato Sociale. 2019”, a cura di F.R. Pizzuti, Sapienza University Press.

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