ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 225/2024

13 Novembre 2024

Sui travagli d’amore tra governo e mercato

Andrea Boitani commenta il recente intervento di Claudio De Vincenti sul Menabò nel quale presentava le linee essenziali del suo recente libro. Boitani argomenta come siano molti e complessi gli intrecci tra i problemi allocativi su cui De Vincenti si concentra e quelli distributivi e di welfare che vengono invece lasciati fuori dalla sua analisi. Inoltre, l’artrite della “mano invisibile” e la concentrazione del potere risulterebbero con più evidenza guardando in profondità al funzionamento dei mercati finanziari.

Il mercato, creazione umana. I temi sollevati da Claudio De Vincenti nell’articolo in cui ha presentato ai lettori del Menabò il suo ultimo libro (Per un governo che ami il mercato) sono molti e importanti. Ci ragioniamo e discutiamo insieme da decenni. Non è possibile qui una riflessione compiuta su tutti. Non mi soffermerò, per esempio, sull’impianto di politica economica e, in particolare, di politica industriale. Me ne sono occupato in un articolo uscito su Domani (10 ottobre 2024). Un impianto che condivido: non vuole cedere all’illusione liberista che i mercati facciano sempre e comunque meglio da sé, ma respinge anche l’illusione dirigista per cui l’intervento pubblico è onnipotente, operando “una ‘rimozione’ delle possibili risposte che il mercato e i soggetti che vi operano daranno all’azione dei poteri pubblici”. Di seguito, rifletterò su questioni solo apparentemente più astratte, ma che a mio avviso giocano un ruolo centrale nella lettura e interpretazione della realtà e, in definitiva, nel dare un segno e un senso alla politica economica.

Sul piano normativo è condivisibile la tesi di De Vincenti che l’intervento pubblico non possa limitarsi a un’opera di rammendo dei fallimenti (difetti) del mercato. E ciò perché nella realtà (cioè sul piano descrittivo), i poteri pubblici e i soggetti privati entrano sempre in una serie di interazioni strategiche ripetute nel tempo. Ed è proprio da queste interazioni che emergano le effettive configurazioni economiche e sociali osservate e i loro cambiamenti nel tempo. Dunque, su tali interazioni è necessario intervenire per orientarne gli esiti al bene comune. Mi sembra che De Vincenti accolga così la lezione di Federico Caffè, quando scriveva: “poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio … Sul piano storico, l’intervento pubblico è tutt’altro che esente da inconvenienti ed errori… Ma non si contribuisce al loro superamento con contrapposizioni ormai anacronistiche, né con affermazioni apodittiche con cui si attribuisce alle imperfezioni del mercato un carattere del tutto secondario rispetto alle imperfezioni di carattere politico amministrativo” (F. Caffè, Lezioni di politica economica, 5° ed., 2008, p. 18). 

Mano invisibile o mano artritica? Non coerente con la lettura della realtà appena citata mi sembra, perciò, l’identificazione suggerita da De Vincenti tra mercato e “mano invisibile”. Il mercato reale è certamente un potente meccanismo di coordinamento delle scelte dei soggetti economici, ma il suo funzionamento non è indipendente dall’intervento pubblico che – come scrive Caffè e De Vincenti concorda – ne è parte necessaria, nel bene e nel male. Il punto è che, nella tradizione della teoria economica, la “mano invisibile” racconta, viceversa, la capacità del libero mercato, senza alcun intervento pubblico, di raggiungere un equilibrio efficiente. 

In realtà, ciò che gli economisti hanno dimostrato è il teorema secondo cui, se si verificano condizioni molto stringenti (mercati completi e perfettamente concorrenziali, con informazione perfetta e simmetrica tra tutti i soggetti economici e assenza di qualsiasi effetto esterno), l’equilibrio di un mercato lasciato a se stesso sarà Pareto-efficiente, nel senso che ogni ulteriore miglioramento per qualcuno comporterebbe un peggioramento per qualcun altro. È questo, appunto, il “teorema della mano invisibile”, altrimenti noto come “primo teorema dell’economia del benessere” (Kaushik Basu, Oltre la mano invisibile, Laterza, 2013). Nel mondo della mano invisibile, l’efficiente allocazione delle risorse e le efficienti configurazioni produttive sono del tutto separate e indipendenti dalla distribuzione del reddito.

Io tendo a essere d’accordo con Stiglitz quando dice (nella sua lezione Nobel, 2001) che “la mano può essere invisibile semplicemente perché non esiste, o se esiste è artritica”. Il mercato funziona come può, come riesce. I fallimenti (o difetti) del mercato sono proprio quell’artrite della mano invisibile, quella fatica nell’esercizio del coordinamento, secondo la felice espressione di De Vincenti. Sono il risultato del modo in cui, nella realtà, il mercato opera, inestricabilmente insieme alla mano visibile dell’intervento pubblico. Un mondo molto lontano da quello cui in genere ci si riferisce parlando di “mano invisibile”. Possono perciò sorprendere affermazioni come “quelli che siamo soliti chiamare ‘fallimenti del mercato’ vanno visti in realtà come testimonianze dei meriti del mercato quale meccanismo capace di effettuare il coordinamento delle scelte nelle condizioni complesse e conflittuali inevitabilmente proprie delle economie reali”. Il cambiamento climatico è da tutti (e certamente da De Vincenti) riconosciuto come frutto del più macroscopico fallimento del mercato (e, insieme, della negligenza e miopia dei governi); riesce difficile identificarlo come testimonianza dei meriti del mercato.

Lo spaesamento generato dall’identificazione tra mercati del mondo reale (di cui De Vincenti si vuole occupare) e mano invisibile è rafforzato dal fatto che, fuori dal mondo della mano invisibile (nell’accezione tradizionalmente accettata), la distribuzione del reddito e il welfare sono due luoghi cruciali dell’interazione tra governo e mercati, contribuendo a determinarne il funzionamento e quindi si intrecciano alle questioni su cui si concentra De Vincenti sul piano normativo, cioè le regole, le istituzioni e le decisioni allocative del governo. Perciò penso sia un peccato che De Vincenti lasci tali questioni fuori dall’analisi, anche se più volte ne sottolinea il rilievo. Così come un peccato è che non tratti, se non marginalmente, la finanza, il luogo dove la capacità di coordinamento dei mercati è stata ritenuta massima per un paio di decenni (i ruggenti anni ’80 e ’90) e dove poi le crepe sono risultate più profonde e pericolose, con impatti devastanti sia sull’allocazione delle risorse e la crescita che sulla distribuzione e gli assetti di potere. 

Distribuzione, potere di mercato e inefficienza. La non separabilità tra questioni allocative e distributive ha implicazioni per le politiche di cui si occupa il libro (regolazione e politica industriale). In estrema sintesi: se meno disuguaglianza (almeno fino a un certo punto) genera più crescita – come molte analisi empiriche dimostrano – e se la distribuzione dipende in larga misura dal potere di mercato (oltre che dall’estensione e dalla natura della finanza, come si dirà), le politiche per la concorrenza, la regolamentazione e la stessa politica hanno impatto sulla distribuzione e, quindi, le scelte relative a quelle politiche non possono ignorare gli effetti distributivi, con riferimento sia al reddito che alla ricchezza. 

Come ha notato Mordecai Kurz (The Market Power of Technology, 2023, Columbia University Press, 511), “la lezione sbagliata da apprendere dall’enorme crescita delle disuguaglianze negli anni ’80 del secolo scorso è che potremmo lasciare inalterate le politiche che hanno fatto crescere il potere di mercato, ma dovremmo aumentare tasse e trasferimenti”. Il potere di mercato, anche qualora faccia crescere la torta, ne lascia fette sempre più piccole ai salari (esclusi quelli dei top managers) e più grandi ai profitti di monopolio. Intervenire ex post, tassando questi nella misura necessaria a pagare sussidi ai lavoratori e a finanziare il welfare è estremamente difficile e, molto probabilmente, poco efficace. Inoltre, il potere di mercato nasce soprattutto dall’innovazione, dalle economie di scala e dai conseguenti profitti che genera e dalla ferrea protezione brevettuale che conferisce e prolunga il potere di monopolio nel tempo. Alle politiche regolatorie e per la concorrenza, dunque, spettano compiti pre-distributivi di grande rilievo, che naturalmente è molto complesso, se non impossibile, delegare ad autorità indipendenti, per loro natura estranee a scelte strettamente politiche, come sono sempre quelle che riguardano in qualche modo la distribuzione. Eppure, bisogna essere coscienti che le scelte di queste autorità hanno generalmente effetti distributivi non trascurabili (Boitani A., Pezzoli A., “Antitrust e lotta alle disuguaglianze: obiettivo esplicito o esternalità consapevole?”, Mercato concorrenza regole, 1-2, 2023, 19-47). 

La non separabilità delle questioni distributive da quelle allocative pone un altro problema teoricamente e praticamente rilevante: l’efficienza non è correttamente definibile senza un giudizio sulla distribuzione ad essa associata. Quindi anche il paretianesimo parziale diventa problematico e, con esso, tutte le raccomandazioni di politica economica degli economisti come puri tecnici. Detto in altri termini, qualsiasi scelta implica trade-off abbastanza inscindibili non solo tra efficienza ed equità, ma anche tra capacità di agire, arricchirsi, liberarsi dal bisogno, perseguire i propri piani di vita da parte dei singoli soggetti e dei diversi gruppi sociali. Come affrontarli? Recentemente Stiglitz (The Road to Freedom, Princeton University Press, 2024) ha proposto, sostanzialmente, un ritorno a Rawls e quindi ad affrontare i trade-off in termini di giustizia. Dovremmo cioè porci la questione di come sceglieremmo tra diversi assetti sociali e istituzionali sotto velo di ignoranza, in cui cioè non sappiamo quale posto occuperemo nell’economia e nella società, se saremo il monopolista dominante, il manager potente o il cittadino dominato, il lavoratore sfruttato. 

Welfare. Il welfare – che è una delle forme in cui si manifesta (o dovrebbe manifestarsi) l’intervento pubblico in economia – si intreccia con le scelte allocative e con la distribuzione in molti modi. E questo anche se la funzione primaria del welfare è di tipo assicurativo, anzi proprio per questo. Ma non solo, come cercherò di dire tra poco.

Innanzitutto, il welfare dipende dalle scelte di allocazione di bilancio pubblico, dal momento che deve coprire anche, e direi soprattutto, evenienze non assicurabili da soggetti privati (disoccupazione, vecchiaia, ecc.) ed evenienze che le compagnie private assicurano solo dietro pagamento di premi insostenibili per una larga fetta di cittadini (cure molto costose e operazioni chirurgiche). E per tutto ciò servono risorse pubbliche molto consistenti, nonché crescenti con l’invecchiamento della popolazione. Perciò non è facile conciliare, per esempio, un aumento della spesa per il welfare (o almeno la sua costanza in termini reali) con l’aumento della spesa per la difesa e le armi. Si tratta di trade-off nella politica di bilancio che hanno impatti non trascurabili sulla distribuzione del reddito e del benessere. Un’assicurazione collettiva, finanziata da risorse comuni è più un sistema mutualistico che un sistema assicurativo puro. E ogni sistema mutualistico è, in una certa misura, redistributivo, specie se la contribuzione è legata al reddito (sia pure in misura proporzionale e con tetti) e i risarcimenti sono legati al bisogno (sotto forma di evento negativo che si realizza).

Il welfare dovrebbe anche garantire una base di beni e servizi fondamentali per tutte e tutti, per la formazione e per il perseguimento dei singoli piani di vita. In altri termini, il welfare offre servizi che consentono di acquisire o ripristinare capacità (capabilities, nel senso di Sen e Nussbaum) e quindi permette la realizzazione di un’uguaglianza di opportunità in senso forte. Sotto questo profilo, allora, il welfare influenza la distribuzione di capacità ma anche la costruzione di sempre maggiori capacità. E quindi il welfare è al centro della crescita, incidendo positivamente sulla Produttività Totale dei Fattori, anche se questo non è il suo obiettivo primario. Ovvero il welfare non è semplicemente al servizio della crescita, strumento per assorbire e far accettare le durezze del mercato e le disuguaglianze prodotte da un mercato dove gli spiriti animali (o bestiali?) sono scatenati.

Mercati finanziari. Oggi la finanza è al centro dell’economia e le risorse che muove e controlla hanno una dimensione di molto superiore al Pil mondiale. Il mondo della finanza è popolato di soggetti (non bancari) che direttamente o indirettamente controllano o hanno quote rilevanti delle più importanti corporation della digital economy, ma anche nel “vecchissimo” settore petrolifero e negli stessi settori dei servizi di pubblica utilità e delle infrastrutture, quando vengano privatizzati. La circostanza che i maggiori asset manager (le famose Big Three) controllino insieme ampi pacchetti azionari di diverse grandi imprese che operano in un settore può indebolire la pressione concorrenziale sui prezzi e, anzi, favorire il comportamento collusivo, se i manager di tutte le imprese controllate internalizzano gli obiettivi degli asset manager. Recente ricerca empirica dimostra che questo effetto anti-competitivo del potere strutturale degli asset manager potrebbe essere significativo, dalle aviolinee alle banche, così come significativo può essere il ruolo nel rallentare il passo della transizione dai carburanti fossili all’energia pulita (come riportato in Franzini, 2024). In sostanza, il potere di mercato delle imprese industriali e di servizi può essere rafforzato dal dominio azionario degli asset manager. Chiaro come ciò si intrecci con la mancata efficienza allocativa, con la distribuzione del reddito, con gli assetti di potere e, quindi, con la politica economica, lungo tutto il suo spettro, dall’antitrust, alla regolamentazione, alla politica industriale, alle privatizzazioni.

Il settore della finanza, inoltre, è quello dove la deregolamentazione avvenuta (soprattutto negli Usa) negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, ha avuto effetti più devastanti, creando l’illusione che si fosse in presenza di una distribuzione/riduzione dei rischi, mentre, in realtà, si lasciava aumentare, con la pro-ciclicità della leva delle banche e degli intermediari non bancari, la fragilità finanziaria. I malfunzionamenti della finanza (se si preferisce, i fallimenti dei mercati finanziari) hanno originato tutte le crisi recenti (salvo, ovviamente, quella dovuta alla pandemia di Covid-19). Dalla deregolamentazione della finanza è anche venuta una forte spinta alla disuguaglianza (verso l’alto) dei redditi e della ricchezza, che a sua volta ha avuto impatti sull’economia reale e sulla coesione sociale. 

In conclusione, la costruzione di un rapporto d’amore stabile, duraturo (e auspicabilmente reciproco) tra governo e mercato richiede un surplus di attenzione e cura quando si tenga pienamente conto delle questioni che De Vincenti lascia ai margini o fuori del suo campo di indagine.

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