Termites of the State e diritti di proprietà intellettuali

Antonia Carparelli commenta il volume di Tanzi, Termites of the State, soffermandosi sulla sua analisi della proliferazione dei diritti di proprietà intellettuale e del loro impatto sulla concentrazione della ricchezza e sulle disuguaglianze. Carparelli sostiene che questa “rivoluzione silenziosa” che sta trasformando la geografia e la dinamica del potere economico è frutto anche di politiche pubbliche che, però, devono essere ripensate se si vogliono correggere le grandi disuguaglianza, soprattutto considerando che l’economia globale può rendere la tassazione un’arma spuntata.

Termites of the State non è il primo lavoro di Vito Tanzi che affronta il nesso tra complessità e diseguaglianze nel mondo globalizzato, ma è il primo che lo fa con ampiezza inedita, attraversando tutte le dimensioni dell’intervento pubblico in economia, e percorrendo terreni che sconfinano dalla finanza pubblica, come ad esempio quello dei diritti di proprietà intellettuale. Due interessanti capitoli nella terza parte del libro, Focusing on equity, sono dedicati al tema, che però ricorre in molte altre pagine. Si tratta di una scelta importante, perché i diritti di proprietà intellettuale – soprattutto alcune categorie di tali diritti – rappresentano per l’economia odierna, alle prese con la terza o la quarta rivoluzione industriale, qualcosa di analogo a quello che rappresentarono le enclosures dei terreni per la prima rivoluzione industriale.

Come nel caso delle enclosures nel diciottesimo e diciannovesimo secolo, anche i diritti di proprietà intellettuale sono associati a una promessa di grandi slanci all’innovazione, agli investimenti, alla produttività e all’efficienza allocativa, tutti fattori decisivi per la crescita e il benessere collettivo. Allora come oggi, a fronte di questo cambiamento epocale nella definizione e nell’assegnazione dei diritti di proprietà, vi sono esternalità e impatti redistributivi di vastissima portata, anche se difficili da quantificare.

Il caso delle biotecnologie, soprattutto dei semi e delle piante geneticamente modificate (OGM), è particolarmente emblematico perché segna il passaggio da un mondo in cui un agricoltore può liberamente scegliere le sementi, riprodurle e metterle da parte per l’anno successivo, a un mondo in cui l’uso di un seme è soggetto al pagamento di un diritto che permette di deciderne la disponibilità, le caratteristiche e il prezzo. In altre parole, le varietà di piante e di semi smettono di essere un common e diventano proprietà privata. Gran parte del clamore e dei conflitti ideologici che hanno contrassegnato il commercio e la diffusione degli OGM hanno a che fare con questo radicale cambiamento di regime, assai più che con i potenziali rischi ambientali e alla salute.

Molti altri ambiti della proprietà intellettuale – non tutti – hanno la stessa valenza simbolica e lo stesso impatto redistributivo di alcune biotecnologie, come gli OGM. Si potrebbe obiettare che in fondo i brevetti e marchi commerciali esistevano già ai tempi della repubblica veneziana. Ma anche la proprietà dei terreni esisteva molto prima delle enclosures. In entrambi i casi, è la scala che cambia e definisce la natura del fenomeno.

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Gran parte della letteratura sui diritti di proprietà intellettuale vede negli anni Ottanta l’inizio di un cambiamento di regime istituzionale che ancora prosegue: qualcuno ha parlato, con buone ragioni, di una “rivoluzione silenziosa” inizialmente guidata dagli Stati Uniti (cfr. D. Archibugi e A. Filippetti in Global Policy, 2010).

In primo luogo, il campo di applicazione dei diritti di proprietà intellettuale è stato enormemente esteso. Oggi ormai si assicura la protezione intellettuale a quasi tutto: software, metodi commerciali, metodi statistici, piante, ecc. E anche se nella storica sentenza del 2013 sul caso Myriad Genetics, salutata con gran sollievo da Joseph Stiglitz (sul New York Times del 14/07/2013) la Corte suprema americana ha deliberato che i geni umani non possono essere brevettati, è invece possibile brevettare i geni artificiali, e il numero di brevetti legati alla ricerca genetica è aumentato in modo esponenziale.

Sono anche enormemente aumentate le fattispecie degli strumenti di protezione, che oggi includono brevetti, copyright, marchi di fabbrica, modelli di utilità, segreti commerciali, design industriale, diritti di pubblicità, business methods, indicazioni geografiche… e sicuramente si tratta di un elenco incompleto. Per non parlare delle grandi questioni legate ai diritti d’uso dei dati personali e dei big data.

In secondo luogo, sono state create apposite giurisdizioni per applicare la legislazione e perseguire le trasgressioni. Negli Stati Uniti il Tribunale dei brevetti nasce nel 1992. L’Unione Europea, dopo lunghe esitazioni e difficili trattative, e dopo essersi dotata nel 2009 di una base legale con l’articolo 118 del Trattato di Lisbona, è forse finalmente in dirittura d’arrivo con il brevetto unitario e il tribunale unico dei brevetti.

In terzo luogo, un elemento cruciale della “rivoluzione silenziosa” sono stati gli accordi di commercio internazionale, e in particolare l’accordo TRIPS (Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights ) entrato in vigore nel 1995, in coincidenza con l’accordo istitutivo del WTO. Con il principio del «single package», i paesi occidentali hanno ottenuto che per aderire al WTO gli Stati sottoscrivano l’accordo TRIPS, e dunque accettino la protezione del diritto intellettuale.

Gli effetti di questa rivoluzione silenziosa, intrinsecamente legata all’avvento delle nuove tecnologie dell’informazione, sono ampiamente visibili nelle statistiche. Nell’ultimo quarto di secolo si è assistito a una crescita esponenziale delle domande e delle registrazioni di brevetti e marchi commerciali, sia nell’Occidente industrializzato – con in testa gli Stati Uniti – sia, soprattutto, nei paesi emergenti. Nel 2016 oltre il 60% delle domande di registrazione dei brevetti provenivano dalla Cina e da altri paesi asiatici.

La geografia e la dinamica dei brevetti riflettono in larga misura la geografia e la dinamica del potere economico, con un’elevatissima concentrazione in un ristretto numero di imprese provenienti da un numero ancor più ristretto di paesi: secondo stime, da prendere però con cautela, l’80% dei brevetti fa capo a non più del 20% delle imprese. Per molte aziende, i diritti di proprietà intellettuale sono diventati l’asset, l’intangible più prezioso, più di qualsiasi patrimonio fisico. Un asset che può diventare garanzia per ottenere crediti, su cui si stipulano polizze assicurative, e per il quale crescono rapidamente i procedimenti legali, che spesso arricchiscono gli avvocati più di quanto risarciscano le imprese.

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In Termites of the State Tanzi affronta anzitutto il tema dei diritti di proprietà intellettuale con un taglio storico e di storia del pensiero economico e – pur con la moderazione che gli è propria – non nasconde la sua simpatia per quella parte del pensiero liberale che ha messo insistentemente in dubbio i meriti dei diritti di proprietà intellettuali proprio in termini di efficienza e di welfare. Cita a lungo (p. 359) Vaughan, che meno di un secolo fa (in Economics of Our Patent System) non aveva esitato a definire “diabolico e dannoso” il sistema dei brevetti. Tuttavia, nonostante la sua dichiarata avversione per i rent-seekers – potremmo dire “le termiti dei brevetti” – Tanzi sospende il giudizio sull’efficienza allocativa dei diritti di proprietà intellettuale, pur offrendo ampia materia per una riflessione critica sull’argomento.

Tanzi (p. 366) esprime invece un punto di vista molto netto sull’impatto distributivo, in linea del resto con una vasta letteratura sull’argomento, e afferma che i diritti di proprietà intellettuali hanno “prodotto grandi redditi per un piccolo numero di individui e imprese”, contribuendo alla crescita delle diseguaglianze. In particolare, i fattori che a suo avviso hanno consentito e consentono questa enorme concentrazione della ricchezza sono: i) il potere di monopolio che i governi conferiscono ai titolari dei diritti di proprietà intellettuali; ii) le nuove tecnologie di comunicazione, che permettono la vendita o la distribuzione dei nuovi prodotti e servizi “protetti” a milioni e milioni di persone; iii) le politiche pubbliche che hanno reso possibili questi sviluppi aprendo mercati, finanziando la ricerca che è all’origine delle nuove tecnologie e investendo nella creazione delle infrastrutture che le sostengono.

La principale conclusione di policy che Tanzi ne trae è la seguente: poiché le politiche pubbliche sono in larga misura all’origine delle posizioni di rendita di cui godono individui e imprese grazie ai diritti di proprietà intellettuale, i governi hanno pieno diritto di prelevare parte di questa rendita attraverso la tassazione, con aliquote marginali più elevate. Una conclusione che appare ancora più ovvia se si pensa alle molte spese correnti che gravano sul bilancio pubblico: dalla creazione e il mantenimento di apposite istituzioni, ai costi giudiziari, ai costi di polizia, ai costi dei negoziati internazionali.

Sembra difficile confutare le conclusioni di Tanzi dal punto di vista della legittimità sostanziale e dell’equità distributiva. Senonché sono note le enormi difficoltà legate alla tassazione societaria nell’economia globale e digitale, difficoltà del resto richiamate in molte parti del libro. Ne sono una prova eloquente, tra l’altro, i ripetuti fallimenti dei tentativi di concordare una base imponibile consolidata tra i paesi dell’Unione europea. Ciò non vuol dire che si debba rinunciare a perseguire un “approccio globale” alla fiscalità, ma soltanto che occorre essere realisti sulla fattibilità o almeno sui tempi necessari per conseguire avanzamenti significativi.

Una strada forse politicamente più praticabile è quella di ancorare la regolazione dei diritti di proprietà intellettuale a principi di equità e di giustizia economica e sociale, sia con riforme interne al sistema – che ridefiniscano ambiti di applicazione, durata e condizioni di concessione dei diritti – sia con politiche pubbliche che promuovano la produzione di beni di reale interesse collettivo (cfr. A. Kapczynski, Intellectual Property’s Leviathan, 2015)

Purtroppo anche qui la frammentazione e i ritardi nella definizione di una politica europea in materia di brevetti complicano notevolmente il quadro, non soltanto sotto il profilo dell’efficienza allocativa, ma anche ai fini dell’affermazione di una politica europea dei brevetti ancorata ai valori comuni, e in qualche misura capace di contrastare le “termiti dei brevetti”. Tuttavia non mancano esempi – anche se ancora piuttosto rari – che quella appena indicata è una strada praticabile. Uno di questi è la Convenzione sulla diversità biologica, entrata in vigore nel 2014, per la quale l’Unione europea è stata in prima linea, e in particolare il Protocollo di Nagoya sull’accesso alle risorse genetiche, che obbliga le imprese dei paesi sottoscrittori a ottenere un consenso informato (a pagamento) per l’uso di materiale biologico proveniente da altri stati membri, aprendo la strada a un’equa ripartizione dei benefici derivanti dall’utilizzo di materiale genetico. E’ una dimostrazione di come si possa gestire la complessità limitando gli spazi per le termiti e arginarne l’impatto sulla disuguaglianza.

Vorrei concludere con una sollecitazione che mi auguro risponda alle preoccupazioni di Vito Tanzi (che, in un libro del 2012 sul processo di unificazione italiana – in corso di riedizione – ha descritto mirabilmente il drammatico impatto sui contadini poveri della privatizzazione dei terreni comuni nel Sud dell’Italia): prendiamo pure atto delle enclosures del ventunesimo secolo come di un processo inevitabile e probabilmente irreversibile, ma preoccupiamoci di disegnare e distribuire i diritti di proprietà intellettuale con criteri di equità, e anche di… assicurare la terra ai contadini poveri, prima che questi si rivoltino.

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