La tentazione di concentrarsi su aspetti isolati della realtà è molto forte, anche nella ricerca storica. Se per un verso la divisione del lavoro scientifico è un dato ineliminabile per ogni campo del sapere, dall’altro il mancato appuntamento con il momento della sintesi rischia di portare a uno smarrimento della visione d’insieme che, nel caso della conoscenza storica, comporta un’artificiosa parcellizzazione del passato.
Alla luce di questa premessa, è legittimo concepire una ricostruzione storica che abbia per oggetto il lavoro in Italia? Certamente sì, a patto di considerare le vicende che hanno interessato il lavoro (come attività produttiva, ma anche come soggettività politica e sindacale) nell’ambito più generale della storia del Paese, considerando quindi la “storia del lavoro” come parte integrante della storia dell’economia, della politica, della società. In questo senso, la storia del lavoro non si comprende senza analizzare i rapporti di genere, il dibattito economico e politico, il ruolo delle organizzazioni politiche e sindacali, le forme dell’intervento pubblico in economia e del welfare, le attività economiche e imprenditoriali nella loro accezione più ampia.
È da questa esigenza di sintesi che prende le mosse il mio ultimo libro: riprendendo da Marx l’enfasi sulla storicità delle forme del lavoro e della produzione, nel volume Il lavoro in Italia. Un profilo storico dall’Unità a oggi (Carocci, 2024) ho cercato di offrire uno sguardo ampio e multidisciplinare sui cambiamenti del lavoro nell’Italia contemporanea, considerando l’interazione dialettica fra economia, società, politica e cultura. Come suggeriva lo storico Luigi Dal Pane (La storia come storia del lavoro. Discorsi di concezione e di metodo, Patron, Bologna 1968), il lavoro – come attività economica, ma anche come soggettività di uomini e donne che si organizzano per trasformare le proprie condizioni di vita – può essere una chiave d’accesso privilegiata per la comprensione della storia tout court.
Il profilo storico proposto in questo volume parte dal 1861, non solo in funzione della continuità storico-istituzionale dello Stato unitario italiano, ma anche in relazione all’accelerazione che il Risorgimento impresse all’affermazione della produzione capitalistica per il mercato come modo di produzione predominante. La ricostruzione giunge fino alle soglie del presente, cercando di collocare le tendenze in atto in un percorso di lungo periodo. In un arco cronologico così esteso emergono i grandi mutamenti che hanno interessato il lavoro, cambiamenti che hanno caratterizzato l’Italia come la gran parte dei paesi occidentali. Tra questi, la progressiva riduzione del peso delle occupazioni agricole, a vantaggio di quelle industriali e terziarie; la nascita e lo sviluppo del movimento operaio, come pure dello Stato sociale; l’evoluzione della partecipazione femminile al mercato del lavoro; il mutevole peso dei flussi migratori da e verso l’estero, oltre che quelli interni.
Tra i tanti aspetti che potrebbero essere evidenziati, guardando alla complessa vicenda del lavoro nell’Italia unita, vi è quello che attiene al legame non sempre lineare fra espansione economica, dinamismo sociale e affermazione dei diritti del lavoro.
A inizio Novecento si assistette a una fase di crescita economica, trainata dall’industrializzazione e dalla prima ondata di globalizzazione dei mercati. In questa stagione, passata alla storia come “età giolittiana”, lo sviluppo economico del Paese, seppure segnato dal dualismo Nord-Sud, si accompagnò a un graduale (seppur timido) allargamento dei diritti sindacali e degli spazi di partecipazione democratica, unito a un altrettanto graduale miglioramento delle condizioni dei lavoratori, segnalato anche dalla crescita dei salari reali. Questi cambiamenti, indubbiamente connessi alla fase di espansione economica e all’impatto sul mercato del lavoro della massiccia emigrazione verso l’estero, non si spiegano senza chiamare in causa anche il ruolo svolto dalla prima significativa affermazione del sindacalismo e della soggettività politica socialista, nonché dalla costruzione delle prime (limitate) basi dello Stato sociale.
Alcune novità di quegli anni meritano di essere ricordate, a cominciare dalla legge sul lavoro delle donne e dei fanciulli del 1902, che vietava, fra le altre cose, l’impiego nelle fabbriche dei minori di 12 anni, il lavoro notturno per le donne e quello delle madri nel primo mese dopo il parto. Per dare una risposta ai problemi sorti dall’espansione urbana, nel 1903 un disegno di legge presentato da Luigi Luzzatti prevedeva per la prima volta un intervento dello Stato in materia di alloggi popolari. Nel 1907 fu approvato il Testo Unico della legislazione sanitaria, che riordinava l’assistenza medica in ambito locale, ponendo come priorità la lotta a malattie endemiche come la malaria e la pellagra. Nello stesso anno veniva sancito l’obbligo del riposo settimanale e festivo. Nel 1910 una legge istituiva la Cassa di maternità, mentre nel 1912 fu creato presso il ministero di Agricoltura, industria e commercio un Corpo di ispettori dell’industria e del lavoro.
Spostandoci ai primi anni del ventennio fascista, possiamo invece osservare che il periodo di crescita economica collocatosi fra il 1922 e il 1926 implicò un netto peggioramento delle condizioni dei lavoratori, comprensibile in funzione delle scelte di un regime nato sull’onda della reazione antisocialista seguita al “biennio rosso” (1919-20). Il fascismo, infatti, andò al potere grazie a un iniziale appoggio di molti esponenti liberali e cattolici, nonché al sostegno della grande borghesia industriale e agraria e del ceto medio danneggiato dalla caduta dei redditi fissi e dall’inflazione. Le classi sociali che sostennero il nuovo governo Mussolini, giunto al potere alla fine del 1922, furono ricompensate sin da subito con provvedimenti volti a ripristinare il loro ruolo, come l’arresto di ogni progetto di riforma agraria, l’abolizione della nominatività dei titoli, l’abolizione dell’imposta di successione e della tassazione sui profitti di guerra, l’aumento della giornata lavorativa e l’abolizione delle libertà sindacali.
Sul terreno delle politiche del lavoro la prima mossa del governo Mussolini fu lo smantellamento della normativa esistente. Nel 1923 venne abolita la disciplina sul collocamento nata nel dopoguerra, creando un vuoto legislativo che sarebbe durato fino al 1928. La giornata lavorativa di 8 ore venne formalmente conservata, ma furono previste molte eccezioni, fino ad arrivare a un allungamento da 8 a 9 ore nel 1926. Sempre nel 1923 venne soppresso il ministero del Lavoro, le cui competenze furono trasferite prima al ministero dell’Economia nazionale e poi a quello delle Corporazioni. Quello stesso anno, l’assicurazione contro la disoccupazione vide una forte riduzione dei soggetti interessati: furono esclusi dall’obbligo assicurativo i lavoratori agricoli (ossia più della metà della forza lavoro impiegata), come richiesto dalla grande proprietà agraria.
Rispetto alla dinamica di crescita salariale che si era registrata nel primo dopoguerra (caratterizzata anche da una riduzione dei divari nelle retribuzioni fra donne e uomini) l’avvento del fascismo portò a un’inversione di tendenza. La storica Vera Zamagni ha parlato non a caso della compressione salariale come stile peculiare della crescita economica italiana; evidente in età fascista, sarebbe proseguita in realtà anche negli anni del “miracolo economico” (V. Zamagni, La dinamica dei salari nel settore industriale, 1921-1939, in “Quaderni storici”, 1975, 10, 2-3, pp. 530-49).
Dopo la seconda guerra mondiale, superata la fase della “ricostruzione”, si ebbe tra anni Cinquanta e Sessanta una fase di straordinaria crescita economica, che però, almeno in una prima fase, non coincise con un sensibile miglioramento delle condizioni di benessere dei lavoratori e della società nel suo insieme. Il “miracolo economico” si tradusse in una crescita delle grandi concentrazioni industriali del Nord-Ovest, ma più ancora nel consolidamento e nell’espansione del tessuto delle piccole aziende, che conobbero i tassi di crescita dell’occupazione più elevati. L’epoca che stiamo considerando era ben lungi dall’essere il periodo del “posto fisso”, come spesso erroneamente si crede. La presenza di lavori instabili e fluttuanti, privi di tutele e garanzie, continuò a caratterizzare il mercato del lavoro italiano anche negli anni centrali del boom, coinvolgendo soprattutto le donne e la manodopera meno specializzata, come evidenziato già all’epoca dall’economista Paolo Sylos Labini (P. Sylos Labini (a cura di), Problemi dell’economia siciliana, Feltrinelli, Milano 1966; Idem, Saggio sulle classi sociali, Laterza, Roma-Bari 1974).
Anche nel caso dei primi decenni del periodo repubblicano, possiamo osservare che il miglioramento delle condizioni del lavoro non scaturì meccanicamente dalla crescita economica, ma dipese molto anche dalle lotte sindacali e dalle priorità stabilite in sede politica, e quindi dalla legislazione messa in campo. Lo snodo degli anni Settanta lo dimostra.
Nonostante il rallentamento della crescita economica (comunque molto sostenuta rispetto agli standard attuali) e le forti turbolenze sul piano internazionale, gli anni Settanta furono probabilmente il momento di maggiore affermazione dei principi sanciti dalla Costituzione del 1948. Fra il 1970 e il 1980 non a caso migliorarono molti indicatori di benessere: la diseguaglianza sociale e l’incidenza della povertà si ridussero come mai in passato, e aumentò sensibilmente la speranza di vita. Nonostante i perduranti limiti del sistema di formazione, crebbe anche il livello di istruzione della popolazione. Questi risultati furono il frutto di politiche economiche nel complesso espansive e volte ad allargare lo Stato sociale, dietro la sollecitazione di un movimento operaio dinamico e capace di generare conflitto distributivo. Tali risultati vanno certamente messi a bilancio insieme a numerose criticità, come i problemi di bilancia dei pagamenti e l’instabilità monetaria, la crescita del divario fra Nord e Sud (ridottosi solo nel periodo fra il 1951 e il 1971), l’allarmante pervasività della criminalità organizzata e la perdita di efficienza di parti importanti del sistema industriale e bancario sotto il controllo statale. Va inoltre precisato che le condizioni di vita e di lavoro furono molto diversificate, alla luce di quella che gli economisti chiamano la “segmentazione” del mercato lavoro. Le condizioni della manodopera centrale della media e grande industria, prevalentemente maschile e con occupazione relativamente stabile, erano certamente diverse da quelle della forza lavoro periferica, ad ampia presenza femminile e giovanile.
Venendo all’oggi, dobbiamo registrare che il lavoro nel suo insieme risulta molto fragile, in un quadro economico che rimane pressoché stagnante. Si va configurando una nuova questione sociale, che comprende il tema del lavoro precario e delle nuove forme di povertà, la questione salariale (con l’Italia fanalino di coda in Europa), il problema degli incidenti mortali sul lavoro, nonché le forme durissime di sfruttamento a cui sono sottoposti i lavoratori immigrati nelle nuove forme di caporalato. Non si comprende questo stato di cose senza chiamare in causa non solo il rallentamento dell’economia, ma anche l’affievolimento, se non alla scomparsa, di una soggettività politica che abbia come orizzonte un miglioramento delle condizioni di vita e benessere di chi lavora. Il quadro attuale potrà cambiare soprattutto se ci sarà una riorganizzazione delle forze politiche e sindacali che hanno a cuore i temi della democrazia economica e del lavoro, tanto in Italia quanto nel resto dell’Europa.
I pochi esempi sin qui citati, inclusa quest’ultima considerazione sul presente, suggeriscono che lo sguardo storiografico sulle vicende del lavoro serve a evidenziare la complessità delle interazioni fra economia, azione politica e condizioni di benessere, e a escludere qualsiasi relazione deterministica fra le variabili che possono condizionare la storia del lavoro.