Tremate multinazionali! O forse no.

Ruggero Paladini presenta e discute l’accordo raggiunto all’ultimo G7 su un livello di imposizione fiscale minimo per le multinazionali. Paladini ritiene che si tratti di un passo in avanti rispetto ai fenomeni di concorrenza fiscale sviluppatisi in passato ma osserva che per ora l’accordo è limitato ai paesi più grandi e restano da definire molti importanti dettagli tecnici. Un rischio rilevante è che l’aliquota minima, che è molto più bassa di quella che grava sui redditi da lavoro, diventi l’aliquota normale.

L’accordo raggiunto al G7 su un livello di imposizione minimo per le multinazionali è stato commentato dai ministri partecipanti con grande entusiasmo; un risultato storico, si è detto. In sintesi l’accordo prevede che le multinazionali paghino imposte “almeno” al 15% sugli utili. L’avverbio almeno è stato inserito, sembra su proposta francese, nel tentativo di non dare per scontato che il 15% diventi la scelta definitiva. Janet Yellen, segretario al Tesoro USA, aveva proposto l’aliquota tra il 15% ed il 21%, con una preferenza per la percentuale più alta, ma era plausibile che l’accordo si facesse sul livello più basso, visto anche che la riunione era organizzata da Londra. Il rischio, malgrado l’avverbio “almeno”, è che una volta data l’indicazione di questa aliquota, sarà molto difficile riuscire a salire non solo al 21% ma anche ad una percentuale intermedia.

Tornando al significato dell’accordo del G7, si supponga che una multinazionale paghi il 5% sugli utili nel paese B; il paese A, dove la multinazionale ha la sede principale, potrà far pagare, su quei profitti, un ulteriore 10%, in modo da arrivare al 15%. La convenienza di spostare i profitti verrebbe annullata se anche nel paese A vi fosse un’aliquota al 15%; altrimenti la convenienza rimarrà ancora. Il che spiega anche la preferenza di Yellen, dato che gli USA sono i principali beneficiari dell’accordo.

Questo è la prima parte dell’accordo; una seconda parte prevede che se la multinazionale ottiene profitti superiori al 10% dei ricavi, si potrà effettuare una imposizione sul 20% degli utili (che eccedono il 10%) nei vari paesi dove la multinazionale opera, quindi in base al fatturato relativo. A fronte di questo la richiesta americana è quella che i paesi che hanno applicato la web tax la ritirino; la posizione europea è stata ovviamente che ciò sarà fatto quando l’accordo diverrà operativo.

Piketty ha commentato che il 15% è meglio del 2% o 3%, ma che molti piccoli imprenditori o lavoratori paga di più; anche OXFAM ha criticato duramente l’accordo. Del resto l’organizzazione non profit di giornalismo investigativo ProPubblica ha proprio di recente affermato che i 25 americani più ricchi versano il 15,8% in imposte, meno di molti normali lavoratori. A questo risultato contribuiscono molte scappatoie presenti nella legislazione fiscale statunitense, ma certo i profitti non tassati delle multinazionali danno una buona mano, soprattutto gonfiando i valori azionari.

Sul versante opposto, Paschal Donohoe, l’irlandese presidente dell’Ecofin, ha gelidamente affermato che la concorrenza fiscale “buona” va mantenuta, e che i diritti degli Stati piccoli non devono essere calpestati. Non è un caso che questa presa di posizione venga dall’Irlanda. Bisogna dire che a lungo l’idea della concorrenza fiscale è stata considerata, negli organismi internazionali come IMF o OECD, come un aspetto positivo, sotto l’influenza del Washington consensus. In parte si assisteva a processi di internazionalizzazione di imprese tradizionali del settore manifatturiero, le quali in parte investivano nei paesi dove volevano aumentare le vendite, ed in parte investivano in paesi dove le imposte erano più basse. Gli utili non venivano rimpatriati (in questo caso avrebbe scontato la maggiore imposta decisa dal paese di origine), ma rimanevano poi all’estero per essere investiti dove vi era più convenienza.

Ma la ragione sostanziale era che tramite la concorrenza fiscale si sarebbe limitata la capacità fiscale degli Stati, quindi si poneva un freno alla crescita della spesa pubblica. Solamente con la straordinaria crescita delle grandi società del web, da Microsoft a Facebook, capaci si spostare i profitti a piacimento con un tocco di personal computer, si sono sviluppate le prime critiche, via via crescenti nel tempo, verso la bontà della concorrenza fiscale.

In un mondo in cui vige la libera circolazione dei capitali, e in cui le politiche fiscali sono prerogativa dei singoli Stati (nella UE ciò vale per le imposte dirette, mentre le indirette sono armonizzate), e nel quale la concorrenza fiscale è incoraggiata, alcuni paesi hanno convenienza a ridurre le imposte sulle società; si tratta dei paesi di dimensione relativamente ridotta. Quello che guadagnano attirando le multinazionali eccede quanto perdono, mentre la stessa cosa non vale per i paesi di maggiore dimensione. In uno studio del 2018 (Tørsløv-Wier-Zucman, The Missing Profits of Nations, NBER) l’Irlanda risultava il primo paese dell’Unione Europea tra i paradisi fiscali, ma era preceduto da Isole Caraibiche, Singapore e Svizzera; al quinto e sesto posto si collocavano l’Olanda e il Lussemburgo. Quando l’Irlanda, nel 2010 dovette chiedere l’aiuto ai paesi dell’area euro, vi fu la richiesta, soprattutto da parte della Germania, di un aumento dell’aliquota al 12,5% dell’imposta irlandese sulle società, ma il governo del paese tenne duro, dichiarando di essere pronto alla più severa austerità per i propri cittadini, ma di non avere nessuna intenzione di toccare le società straniere (le multinazionali).

E’ noto peraltro come la concorrenza fiscale abbia, nel corso del tempo, determinato una diminuzione dell’aliquota media globale dell’imposta sulle società; tra il 1985 ed il 2019 Petr Janský & Miroslav Palanský (“Estimating the scale of profit shifting and tax revenue losses related to foreign direct investment”, International Tax and Public Finance, 2019) hanno calcolato una diminuzione dal 49% al 23%. Questo indicatore, che riguarda solo le aliquote nominali, fornisce solo un’idea del fenomeno, perché in effetti al di là del livello formale dell’aliquota societaria, contano tutte una serie di misure volte a ridurre, fin quasi ad annullare, l’onere fiscale, per esempio con misure che riguardano gli ammortamenti, il trattamento dei ricavi provenienti da brevetti (patent box), ed altro ancora.

Per esempio in Irlanda l’aliquota societaria è del 12,5%, ma una serie di misure legali consentono accordi riservati con le multinazionali, per cui il peso effettivo dell’imposizione viene stimato tra il 2 ed il 4%. Malgrado ciò le multinazionali versano in quel paese oltre la metà del gettito dell’imposta societaria.

Il fenomeno dello spostamento annuo dei profitti verso i paradisi fiscali è stato stimato, in modo molto prudenziale, da Janský e Palanský in almeno 125 miliardi di dollari l’anno. Si tenga presente che Amazon, Google, Facebook ed Apple hanno realizzato ricavi e utili in netta crescita nei due anni della pandemia, un po’ come succedeva ai produttori di armamenti durante le guerre, per cui le cifre vanno aumentate almeno di un 50%.

Si sono verificati anche fenomeni che hanno interessato le statistiche macroeconomiche. Nel 2015 l’istituto statistico irlandese ha annunciato un incremento del PIL del 26,3%, successivamente rivisto in aumento al 34,4%, perché il Central Statistical Office irlandese voleva tener riservata la causa del fenomeno. Si è venuti a sapere successivamente che si era trattato di uno dei più rilevanti casi di base erosion and profit shifting (BEPS) mai verificatisi. Paul Krugman ha definito il fatto come leprechaun economics, l’economia dei folletti, con riferimento alle credenze popolari presenti soprattutto nel nord del paese (Carlingford). Krugman ha fatto giustamente notare che non si è trattato di un fenomeno che riguardava l’economia reale, cioè investimenti, creazione di posti di lavoro e così via. Si è trattato invece di puri segni informatici che si sono tradotti nell’occultamento di decine di miliardi di profitti. Ormai tra gli statistici ed i macroeconomisti la leprechaun economics è divenuta un tema di interesse professionale.

Si è accennato alle critiche mosse all’aliquota troppo bassa del 15% e alla fondata preoccupazione che diventi l’aliquota verso la quale gli altri paesi dell’UE finiranno per convergere come il male minore; altre polemiche sono state suscitate dalla seconda parte dell’accordo al G7, relativo a quel 10% di utili sui quali i paesi dove è presente la multinazionale non potranno ottenere entrate. Ad esempio Amazon ha una redditività, rispetto al fatturato, in Italia, più vicina al 5% che al 10%, e probabilmente ciò è vero per molti altri paesi in cui opera il colosso della distribuzione. Tuttavia qui si deve ricordare che una parte ancora prevalente dei ricavi di Amazon è ottenuta dalle vendite dei prodotti più vari, con stabilimenti che operano negli stessi paesi dove vivono gli acquirenti. Pertanto Amazon Italia, Francia o Germania è soggetta alle regole della stabile organizzazione, in base alle quali la società versa le imposte dove la stabile organizzazione ha sede e dove si effettuano gli incassi delle vendite. Il fatto che Amazon preferisca la crescita del volume d’affari piuttosto che quella degli utili è una questione di strategia scelta da Bezos, e per ora premiata dai livelli della capitalizzazione. Piuttosto si dovrebbe guardare alla parte crescente di ricavi che derivano dai servizi, come ad esempio Amazon Entertainment Center. Qui Amazon si trova ad operare in modo simile ad una società informatica, con cui è in competizione, e, come è noto, lì le strategie di Base Erosion and Profit Shifting (BEPS) sono estremamente facili da mettere in atto, attribuendo i diritti di un canale web ad una società del gruppo situata in un paradiso fiscale (magari europeo).

In conclusione si potrebbe dire che il bicchiere ha cominciato a riempirsi, forse non ancora a metà. Per ora l’accordo è avvenuto tra i paesi più grandi, cioè quelli che hanno da guadagnare, e non a caso gli USA di Biden se ne sono fatti promotori, visto che ne trarrebbero evidenti benefici. Secondo stime l’Italia potrà ottenere 2,7 miliardi da Banca Intesa, Unicredit e poche altre grandi imprese, ma non è colpa dell’accordo, bensì del limitato numero di multinazionali. Ma i tempi saranno lunghi, e particolarmente complicati nell’UE. E, come è noto, il diavolo si nasconde sempre nei dettagli.

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