ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 183/2022

30 Novembre 2022

Una complessa transizione energetica

Francesco Ferrante sostiene che il cambiamento del clima va addebitato non ai paesi di recente industrializzazione ma all’accumulazione di CO2 emessa in passato dall’Occidente per effetto dell’adesione a un modello di sviluppo tecnologico in campo energetico avverso all’ambiente. Per superare l’attuale situazione, caratterizzata da inerzia tecnologica e comportamentale, occorre un appropriato mix di politiche, condivise su scala globale, che però è di difficile implementazione a causa della crisi del multilateralismo.

Francesco Ferrante 

Il dibattito sulla transizione energetica è stato catalizzato dalla mancata adesione di India, Cina e Russia agli accordi di massima sin qui raggiunti. La percezione comune, nonché la tesi di diversi osservatori, è che sul banco degli imputati dovrebbero esserci principalmente questi paesi, in particolare la Cina e l’India, in quanto responsabili, attualmente e in futuro, della quota più elevata di emissioni. Si tratta di una prospettiva errata metodologicamente, potenzialmente fallimentare strategicamente nonché discutibile sul piano etico. Per quanto riguarda il metodo, la crisi climatica che stiamo vivendo è il frutto dell’accumulazione di CO2 avvenuta in passato, di cui gli USA sono di gran lunga il paese più responsabile. Secondo alcune stime, dal 1750, gli USA hanno prodotto il 25% delle emissioni mondiali, quasi il doppio della Cina. L’Europa a 28 ne ha prodotte il 22%. Questo quadro è rafforzato dall’adozione di una metrica che, dal punto di vista delle policy, è decisamente più corretta, quella delle emissioni pro capite. Nel confronto con gli altri paesi avanzati, dall’inizio del ‘900 sino ai nostri giorni, gli USA hanno prodotto oltre il doppio di emissioni pro capite; sintomo di un modello di consumi energetici non particolarmente efficiente, soprattutto in tema di mobilità. Il confronto è implacabile anche rispetto alla Cina e all’India: attualmente gli USA producono il doppio delle emissioni pro capite cinesi e circa sette volte quelle indiane (fig. 1). 

Figura 1: Emissioni pro capite di CO2 (escluse quelle riconducibili all’utilizzo del suolo)

La concentrazione di CO2 ha subito una forte accelerazione a partire dagli anni ’60 passando, nella fase in cui si sono impennate le emissioni pro capite sia degli USA sia dell’Europa, da circa 310 ppm al valore attuale di 417 ppm (nel periodo preindustriale era al di sotto di 278 ppm). Si immagini una famiglia nella quale il primogenito ha utilizzato tutto il patrimonio e che, nel momento in cui occorre rimborsare i creditori, chiede agli altri figli di rinunziare agli studi per ripagare il debito! 

Occorre poi tenere conto che il processo di globalizzazione, a partire dagli anni ’90, ha spostato in India e Cina molte produzioni di multinazionali occidentali, per cui l’aumento delle emissioni di questi paesi e la riduzione di quelle occidentali è ascrivibile ad un processo di cui hanno goduto i frutti anche i consumatori e le imprese multinazionali occidentali.  

Sul piano etico, appare discutibile chiedere a paesi che si sono affacciati solo da pochi decenni sulla via dello sviluppo economico di ridurre le emissioni quando i principali responsabili continuano ad emettere più del doppio delle loro emissioni. La questione etica appare ancora più pressante se si pensa che una quota elevata degli effetti del cambiamento climatico la stanno pagando e la pagheranno paesi che hanno responsabilità ridotte, avendo prodotto in passato poche emissioni e non essendo destinati, a medio termine, ad aumentarle sensibilmente.  

In sintesi, i dati sulle emissioni ci dicono che l’Occidente e gli USA soprattutto, hanno accumulato un debito avendo utilizzato in passato risorse energetiche in eccesso, esternandone gran parte del costo ambientale. Si potrebbe sostenere che non si possono richiamare queste responsabilità in quanto i paesi occidentali non erano consapevoli degli effetti a lungo termine delle loro scelte energetiche. Il punto è che questo andamento è continuato anche dopo i primi allarmi ed è continuato anche quando il consenso tra gli esperti sugli effetti delle emissioni sul clima, potenzialmente devastanti, è divenuto largamente maggioritario: almeno un terzo delle emissioni totali di CO2 degli USA sono state realizzate dagli anni 1990 in poi, in presenza di robuste evidenze empiriche sugli effetti delle emissioni di COsulle temperature. 

A meno che non vi sia un chiaro riconoscimento dell’esistenza di un debito energetico ed ambientale dei paesi avanzati, con tutte le conseguenze che ne derivano per i debitori in relazione alla quota di debito di loro pertinenza e agli obblighi di riduzione delle emissioni, è illusorio pensare che l’India, la Cina e gli altri paesi in via di sviluppo, accetteranno di accelerare la transizione energetica. Da questo punto di vista, la proposta di utilizzare un meccanismo di compensazione a favore dei paesi in via di sviluppo, basato sulla differenza tra le emissioni pro-capite rispetto alla media, appare in linea di principio equo e ragionevole ed un meccanismo per ripagare almeno in parte il debito energetico accumulato.   

Accanto a quella distributiva, l’altra questione rilevante di questa storia, in vista della scelta delle misure da adottare, è quella relativa all’inerzia tecnologica. Le dinamiche innovative sono caratterizzate da processi di apprendimento localizzato (A. Atkinson e J. Stiglitz, “A new view of technological change”, Economic Journal,1969) e rendimenti dinamici crescenti che generano processi non ergodici e fenomeni di “intrappolamento” (B. Arthur, “Competing technologies, increasing returns and lock in by historical events”, Economic Journal 1989) lungo sentieri di sviluppo legati ai segnali di scarsità prevalenti. In assenza di un prezzo per le emissioni, per lungo tempo il sistema dei prezzi energetici ha indirizzato l’attività di innovazione, produzione e consumo lungo sentieri a forte trazione di fonti fossili, senza tenere conto degli effetti ambientali a lungo termine. Dunque, tecnologie e modelli comportamentali incorporano oggi una distorsione dinamica indotta da segnali di scarsità inefficienti che hanno prodotto una distribuzione delle opportunità innovative distorta a sfavore dell’ambiente (F. Ferrante, “Induced Technical Change, Scientific Advance and the Efficient Control of Pollution” in Economic Behaviour and Design, a cura di M.Sertel, McMillan, 1999). Il tentativo oggi di internalizzare questa scarsità, attraverso i tipici strumenti di mercato (tassazione delle emissioni, permessi di inquinamento) si scontra col fatto che, giunti a questo punto, il segnale di scarsità richiesto per ottenere l’aggiustamento necessario nei modelli di produzione e di consumo non è fattibile sul piano politico e sociale. L’inerzia tecnologica e comportamentale si è poi tradotta in inerzia istituzionale, soprattutto a causa del ruolo delle lobbies energetiche (F. Ferrante, “Localized technical change and the efficient control of global warming”, in Environmental Policies and Societal Aims, a cura di D.R. Requirer-Desiardens et al., Kluwer, 1999), che sono particolarmente forti in alcuni paesi. 

Per aggredire l’inerzia è necessario adottare un mix di strumenti con al centro le politiche tecnologiche e industriali (F. Ferrante, Localized, cit.; F. Ferrante, Induced, cit. F. Ferrante, “Induced Technical Change, Adjustment Costs and Environmental Policy Modelling”, 1998; D. Acemoglu et al. “Transition to Clean Technology”, NBER Working Paper, 2014). Di questo mix fanno parte anche strumenti di tipo command and control (ad esempio, gli standard tecnologici e/o di emissione), utili soprattutto a modificare le aspettative degli operatori in merito alla credibilità dell’impegno dei governi nel perseguire la transizione energetica e a coordinare le strategie di innovazione. 

Una ricetta che sarebbe stato necessario adottare sin dagli anni ‘90 ma che non ha trovato allora un clima culturale favorevole, soprattutto tra gli economisti, più propensi all’impiego di strumenti di mercato, che però non sono mai stati utilizzati coerentemente con quanto richiesto dagli obiettivi di sostenibilità. Una ricetta che siamo ora costretti a usare e che i governi sono più disponibili a adottare, grazie anche ad un mutato clima ideologico tra gli economisti. 

Quello che non si è voluto fare in passato si sta in parte realizzando in tempi e con modalità non sostenibili sul piano economico e sociale e con gravi effetti regressivi e recessivi, a causa del drastico aumento dei prezzi dell’energia. Tornando all’esempio di prima, oggi stiamo sperimentando quello che potrebbe accadere ad una famiglia che, per molto tempo, mantiene livelli di consumo in beni di lusso non sostenibili e si trova improvvisamente costretta a ridurre i consumi essenziali.  

Malgrado l’inadeguato impegno passato, i notevoli progressi fatti registrare nello sviluppo delle fonti rinnovabili, confermano che non esisteva un vantaggio assoluto di queste ultime, un pregiudizio, questo, che negli ultimi quaranta anni ha nei fatti informato le scelte di investimento in materia di energia. Appare evidente che se si fosse partiti prima, oggi non ci troveremmo ad affrontare l’emergenza ambientale ed energetica nei termini in cui siamo costretti a farlo. 

Nel corso di questi anni, il costo di produzione dell’energia da impianti fotovoltaici si è ridotto notevolmente rendendola competitiva rispetto ad altre fonti tradizionali. L’innovazione tecnologica ha consentito di ridurre drasticamente il costo degli impianti e di migliorare la resa dei pannelli. Ad esempio, un decennio fa, un sistema solare residenziale medio di 6 kilowattora poteva costare più di $ 50.000. Ora, il costo totale di una tipica installazione domestica varia da $ 16.200 a $ 21.400.

Il solare fotovoltaico domina le dinamiche di crescita delle energie rinnovabili nonostante l’aumento dei prezzi delle materie prime. Si stima che esso sia cresciuto del 17% nel 2021, un nuovo record annuale di quasi 160 GW aggiuntive. Da solo contribuisce per il 60% all’incremento di produzione delle rinnovabili, con quasi 1100 GW che diventano operativi nel periodo, un tasso doppio rispetto ai cinque anni precedenti. Nella maggior parte dei paesi, il solare fotovoltaico su scala industriale è l’opzione meno costosa per aggiungere nuova capacità elettrica, soprattutto di fronte all’aumento dei prezzi del gas naturale e del carbone. I progetti solari su scala industriale continuano a fornire oltre il 60% dell’incremento di energia da fonte fotovoltaica in tutto il mondo. Nel frattempo, le iniziative politiche in Cina, nell’Unione europea e in India stanno promuovendo la diffusione di progetti fotovoltaici commerciali e residenziali.

Il solare fotovoltaico sta diventando l’opzione più economica per la produzione di elettricità, fatto che dovrebbe spingere gli investimenti nei prossimi anni. Lo scenario delle emissioni nette zero entro il 2050 si basa su una crescita media annua della generazione del 24% tra il 2020 e il 2030, che corrisponde a 630 GW di capacità netta aggiuntiva nel 2030. Come in passato, il tasso di diffusione del solare e di sostituzione di altre fonti sarà comunque condizionato dal contributo del progresso tecnologico alla riduzione dei costi fissi e variabili di generazione di energia e, quindi, anche dalle risorse pubbliche e private destinate alla R&S. 

Un’importante fonte di miglioramento ancora solo parzialmente esplorata riguarda le tecnologie di monitoraggio finalizzate sia all’ottimizzazione dei processi di generazione di energia sia a indurre comportamenti di consumo più virtuosi. Quest’ultimo costituisce un versante di intervento centrale in quanto l’inerzia comportamentale continua ad esercitare i suoi effetti negativi sul processo di transizione energetica attraverso la ridotta adozione delle tecnologie innovative già disponibili. In quest’ambito, rilevante appare il contributo dell’economia comportamentale (Policy Studies Institute, “Designing policy to influence consumers”,Working Paper, 2006) all’analisi delle anomalie nelle scelte dei consumatori che alimentano l’inerzia e che spiegano come mai, tecnologie di consumo che presentano tempi di payback decisamente ridotti, non vengano adottate su larga scala. 

I sistemi della mobilità, tra i principali responsabili delle emissioni, risentono particolarmente del ruolo dei fattori inerziali anche a causa della presenza di elevate complementarità strategiche infrastrutturali ed economie di rete che rendono necessario un forte intervento pubblico, quantomeno sul piano regolatorio. Si pensi, ad esempio, alla questione della creazione di una rete diffusa di approvvigionamento, funzionale al passaggio alla mobilità elettrica.

La sostanziale inerzia nel rivedere in passato il nostro modello energetico è rivelata dall’andamento delle quote di R&S destinate dai paesi che aderiscono alla International Energy Agency rispettivamente, ai combustibili fossili e alle energie rinnovabili (fig. 2): a parte il nucleare, che ha continuato a fare la parte del leone, solo dopo il 2000, malgrado la disponibilità di una robusta evidenza empirica che prospettava i gravi rischi legati al cambiamento climatico, la quota riservata alle rinnovabili ha superato quella destinata ai combustibili fossili. Un’inerzia riconducibile soprattutto all’azione delle lobby legate alle fonti fossili e a quella nucleare, molto attive soprattutto negli USA. 

Figura 2: Quota di R&S pubblica per fonte energetica

Fonte IEA

Il superamento dell’inerzia tecnologica e comportamentale, grazie all’adozione di un appropriato mix di politiche, non è certamente facilitato dall’attuale congiuntura internazionale. La crisi del multilateralismo e la complessa fase geopolitica che stiamo vivendo non costituiscono un terreno fertile per l’adozione di soluzioni di ingegneria istituzionale condivise.

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