ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 188/2023

26 Febbraio 2023

Una interpretazione non razionale del progetto di autonomia differenziata

Gianluigi Coppola sostiene che il progetto di Autonomia differenziata non sembra rispondere a interessi nazionali di lungo periodo ma ad interessi regionali di breve periodo, principalmente perché non tiene in conto le interrelazioni tra le regioni del Nord e del Sud. Coppola considera in particolare il capitale umano che si forma al Sud e emigra al Nord e mette in guardia contro il rischio che con l'autonomia si riducano i livelli di istruzione e di salute al Sud con effetti negativi per l'Italia e anche per il Nord.

Lo scorso 2 febbraio è stato approvato dal Consiglio dei Ministri il disegno di legge recante disposizioni per l’attuazione dell’Autonomia differenziata delle Regioni a statuto ordinario, che costituisce il primo passo di un iter che dovrebbe condurre ad una profonda riorganizzazione del rapporto tra lo Stato centrale e le regioni.

Le caratteristiche essenziali e la filosofia di fondo di tale riforma sono state puntualmente descritte nell’articolo di Gianfranco Viesti, pubblicato di recente sul Menabò

Come è noto, e in estrema sintesi, tale riforma prevede la possibilità di devolvere ulteriori funzioni alle regioni, rientranti nel lungo elenco contenuto nell’articolo 117, III comma, del Titolo V della Costituzione, che include materie fondamentali prime fra tutte istruzione e salute. 

Il progetto prevede che le materie da trasferire siano oggetto di intese bilaterali tra Il Governo e ciascuna regione, previa definizione dei cosiddetti Livelli essenziali delle prestazioni (Lep) che dovrebbero essere garantiti ai cittadini di tutto il territorio nazionale. 

Il punto dirimente consiste nel fatto che al trasferimento di ulteriori funzioni alle regioni è associata una maggiore dotazione di risorse finanziare alle regioni stesse. Soprattutto per questo motivo nei confronti di questo progetto si registrano prese di posizione molto differenti. I Presidenti delle regioni del Nord, favorevoli a tale riforma, sostengono che essa, permettendo di trattenere una quota maggiore delle risorse generate nei propri territori, consentirà di aumentare l’efficienza e la qualità dei servizi offerti dalle loro regioni. Gli stessi Presidenti sostengono, come corollario, anche la tesi che le regioni più povere, che con l’Autonomia Differenziata riceveranno minori trasferimenti, saranno inevitabilmente costrette a far di necessita virtù, e a migliorare la qualità dei servizi offerti alla popolazione attraverso una gestione più oculata ed efficiente delle minori risorse a loro disposizione.

Sul versante opposto i Presidenti delle regioni meridionali, pur con qualche distinguo, si oppongono all’Autonomia Differenziata, perché essa potrebbe comportare una riduzione dei servizi essenziali, tale da ledere alcuni diritti fondamentali dei cittadini, come quelli all’istruzione e alla salute che, peraltro, entrano nel calcolo dell’Indice dello Sviluppo Umano dell’ONU. 

Più in generale, la contrapposizione è tra le regioni più ricche che puntano a perseguire la crescita economica dei propri territori, e le regioni più povere che temono un aumento delle diseguaglianze e l’aggravarsi del divario sociale ed economico con il resto del Paese.

Entrambe le visioni, ma soprattutto quella di chi è favorevole all’autonomia differenziata, sembrano non tenere in debito conto le forti interrelazioni esistenti tra il Mezzogiorno e il Centro-Nord e le conseguenze che ne derivano per il Paese nella sua interezza.

In queste note mi limito a considerare come termine di riferimento per la valutazione di quelle conseguenze il Prodotto Interno Lordo (PIL) e il suo tasso di crescita. E’ noto che il PIL è stato ripetutamente messo in dubbio come misura rappresentativa del Benessere Sociale, ma la sua posizione centrale come obiettivo della politica economica non è stata scalfita. 

Con riferimento alla crescita del PIL a livello regionale il punto di partenza possono essere i modelli di crescita neoclassici, i più diffusi tra i quali sono atomistici, cioè considerano le regioni come singole unità territoriali e non tengono conto delle relazioni che esistono tra di esse. Nel modello di convergenza assoluta, ad esempio, la riduzione dei divari territoriali dipende dall’ipotesi dei rendimenti marginali decrescenti del capitale che frenerà la crescita delle regioni più ricche. Nei modelli di convergenza condizionata i divari in stato stazionario dipendono dal valore di alcuni fattori regionali esogeni (quali ad esempio le caratteristiche istituzionali). I modelli di crescita endogena contemplano, invece, l’ipotesi di non convergenza e di persistenza dei divari.

Tuttavia, nella realtà i rapporti tra le regioni sono di natura complessa ed evolvono dinamicamente. Le regioni si muovono in uno spazio complementare/concorrenziale, in un ambiente collaborativo/conflittuale. I territori sembrano comportarsi come i porcospini del racconto di Schopenhauer, animati da una volontà irrazionale, i quali, nelle fredde giornate d’inverno da un lato tendono a stringersi vicini per scaldarsi con il calore reciproco, mentre, dall’altro, cercano di allontanarsi per non pungersi con i propri aculei. Come i porcospini, che con il variare della temperatura modificano la distanza tra di loro, così i rapporti tra le regioni, sono destinati a cambiare con il verificarsi di eventi e circostanze esterne che possono essere di varia natura: tecnologica, demografica, economica o istituzionale.

Ma in ogni caso le interrelazioni tra le regioni contano. Ed esse possono essere tali da rendere il divario tra le due aree un fenomeno di equilibrio da stato stazionario, e non il risultato di un mancato o erroneo funzionamento del processo di convergenza tra le regioni, così come teorizzato dall’ipotesi di convergenza assoluta della teoria neoclassica, né la conseguenza di un fallimento delle politiche di coesione, sulle quali vi è un ampio dibattito in relazione alla loro efficacia. Piuttosto, il divario, date le interrelazioni, e anche il conflitto, tra le regioni sarebbe, come si è detto, un fenomeno di equilibrio. 

Nella teoria economica una simile ipotesi è contemplata, ad esempio, nel modello di Boris e Stein (1968). In sintesi, tale modello si basa sulla ipotesi dell’esistenza di due regioni con strutture produttive diverse e con differenti livelli di produttività e di remuneratività dei fattori. Ciò comporta che i fattori produttivi (lavoro e capitale) si spostano dalla regione in cui la remuneratività è bassa verso quella in cui è più elevata. Il risultato è la persistenza dei divari la cui costanza verrebbe, ovviamente, meno se, per qualsivoglia ragione, i tassi di crescita del reddito divergessero.

Nel caso del dualismo italiano tali interrelazioni tra Nord e Sud si sostanziano soprattutto in un flusso di risorse che va dal Nord al Sud, – o meglio, dall’Europa al Sud, soprattutto dopo la fine dell’intervento straordinario e con il mancato rispetto del criterio dell’addizionalità (i fondi europei si sostituiscono e non si aggiungono, come dovrebbero, alle risorse ordinarie) – ed un importante e costante flusso migratorio della popolazione più giovane, ovvero di capitale umano, dal Sud verso il Nord, come ampiamente documentato dalla Svimez. E’ ben noto che il capitale umano è uno dei principali fattori della crescita economica, unitamente al progresso tecnico. Dunque, questo flusso è di grande importanza per la crescita economica del Nord. 

Perché questo flusso persista, occorre che tra Nord e Sud vi sia un divario non solo in termini di redditi correnti, ma soprattutto in termini di guadagni attesi nel medio e nel lungo periodo, dunque in una prospettiva di lungo periodo. Si potrebbe dire che tra il Nord e il Sud dovrebbe esservi un divario in termini di reddito permanente. Ma è importante che questo divario non sia né troppo alto né troppo basso. 

Se è basso i flussi migratori si riducono, ma anche se è troppo alto – e soprattutto se lo è perché il reddito del Mezzogiorno ristagna o si riduce – possono esservi, anche se non nell’immediato – problemi: quelli derivanti dalla impossibilità per il Sud di continuare a contribuire – anche per il sempre più grave fenomeno della denatalità – alla formazione del capitale umano da fornire al Nord, 

Come attestano molti studi i divari tra Nord e Sud sono persistenti e tendenzialmente costanti nel lungo periodo. Carrascal-Incera et al. (2021), ad esempio, misurando attraverso l’Indice di Theil la disparità interna dell’Italia per un lungo periodo (dal 1910 al 2011) e confrontandola anche con quelli di altri Paesi Europei, hanno mostrato come i divari territoriali siano aumentati sino al 1950, per poi ridursi e rimanere pressoché stabili dal 1970 in poi. Anche Felice e Vecchi (2015) ricostruiscono l’andamento del PIL pro capite per le 3 Macro aree del Paese (Nord Ovest, Centro e Nord Est, Mezzogiorno) dal 1871 al 2011. Posto pari a 100 Il PIL Pro capite dell’Italia, quello del Mezzogiorno era pari al 90 nel 1871 per poi ridursi in modo costante sino a 60 fino nel 1951. Nel periodo dal 1951 al 1971 il divario tra il Mezzogiorno e l’Italia si è ridotto e il rapporto di cui si è detto ha superato di poco il valore di 70. Ma dopo il 1971 è diminuito a 60 per poi restare stabile. Nello stesso periodo si è avuta la sostanziale convergenza tra il Nord Ovest e il Centro-Nord Est. Si può ipotizzare che quel divario sostenga flussi di trasferimenti e di migrazioni che conducono a tassi di crescita regionali con esso compatibili. 

Diventa quindi naturale porsi la domanda se si tenga conto di tutto ciò quando si chiede una maggiore autonomia e quali siano le possibili conseguenze della stessa su queste dinamiche.  

Una possibile risposta è che le regioni del Nord hanno una visione asimmetrica e di corto respiro spazio/temporale, un orizzonte elettorale limitato alla macroregione, o alla singola regione. Il Nord è interessato soprattutto all’impatto sul PIL regionale che nel breve/medio può derivare  dai minori trasferimenti di risorse dal Nord al Mezzogiorno e assume (implicitamente almeno) che questo non incida sul flusso di capitale umano che dal Sud emigra al Nord. In breve, le aspettative sono di divari crescenti con tendenziale peggioramento delle condizioni al Sud. Ciò vuol dire che anche la continuità dei flussi di capitale umano dal Sud al Nord, nel medio-lungo termine, è in pericolo. 

In breve, con l’autonomia differenziata il divario tra il Nord e il Sud del Paese potrebbe eccedere il livello che si può considerare ottimale e crescerebbero quelle “differenze legate a fattori sociali, economici, organizzativi, sanitari tra i diversi territori del nostro Paese – tra Nord e Meridione, per le isole minori, per le zone interne – creano ingiustizie, feriscono il diritto all’uguaglianza”, di cui ha parlato il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella nel suo Messaggio di fine anno alla Nazione. E, inoltre, date le caratteristiche strutturali delle due regioni vi sarebbero danni per entrambe e quindi per tutto il paese, perché dalle interrelazioni tra le regioni, e dal controllo dei meccanismi che le governano, dipende il nostro comune destino come Nazione.

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