Una lettera dal Nord (rivolta al Nord) per sfatare 7 luoghi comuni sull’economia italiana

L’economia italiana è, quasi sempre, al centro della discussione che si svolge in Europa sulle dimensioni e le caratteristiche del Recovery Fund. Il discorso pubblico, soprattutto nei Paesi nord-europei, è dominato da politici, economisti e media che spesso rappresentano in modo distorto l'economia italiana. Philipp Heimberger e Nikolaus Kowall, due ricercatori che lavorano in un Paese del Nord, si propongono, rivolgendosi soprattutto al Nord, di confutare quelle rappresentazioni presentando una serie di dati sull’economia italiana.

Uno degli ostacoli principali che il ‘Recovery Fund’ sta incontrando lungo la sua strada è costituito dalla contrarietà, manifestata in particolare dai paesi del Nord Europa (e, nello specifico, dal quartetto di Stati membri definiti dalla stampa ‘frugali’ in ragione della loro presunta tendenza al rigore fiscale), circa il sostegno finanziario post-pandemia da erogare, in misura rilevante, agli stati meridionali dell’Unione. Da un punto di vista politico, tale contrarietà sta determinando un parziale stallo nelle negoziazioni – concernenti dimensioni e composizione dello stesso sostegno, in particolare la suddivisione tra somme a fondo perduto e prestiti – in corso presso il Consiglio Europeo. Tuttavia, l’incapacità di trovare, in tempi rapidi, un compromesso avanzato che supporti la ripartenza (e ricostruzione) in particolare nelle aree più fragili dell’Unione potrebbe costituire un rischio capitale per quanto riguarda le prospettive economiche e la stessa sopravvivenza della UE.

In questo quadro, i ‘pregiudizi’, su cui si basa la contrarietà dei paesi del Nord e che riguardano la presunta incapacità dei paesi del Sud di gestire in modo oculato e responsabile le proprie finanze, divengono ancora più odiosi poiché rischiano di contribuire ad un esito potenzialmente disastroso per l’intera UE. Questa nota, inizialmente pubblicata in tedesco e in inglese, può essere interpretata come una ‘lettera dal Nord’ inviata, da due economisti del Nord, ai loro concittadini del Nord che coltivano quei pregiudizi, nella speranza che possa contribuire a un dibattito più pacato in tutta l’Unione Europea.

I pregiudizi da sottoporre a vaglio riguardano la più grande delle economie meridionali, l’Italia. Si proverà, in quanto segue, a confutarne 7 tra i più radicati mettendo in luce, con l’ausilio dei dati, tutta la loro inconsistenza. Tanto per cominciare, l’Italia è il secondo produttore di beni industriali dell’UE. Esporta più beni di quanti ne importa. Ed ha spesso rispettato i target fiscali imposti dalla Commissione Europea in modo più̀ rigoroso di paesi tradizionalmente (e pregiudizialmente) considerati ‘rigorosi e frugali’ quali la Germania e l’Austria.

1. L’Italia vive (ed ha vissuto) al di sopra dei propri mezzi

Il debito pubblico italiano è attualmente pari al 135% del Pil. Sulla base di tale dato (o di quelli non dissimili esibiti da tale rapporto durante gli anni passati), viene spesso ripetuto che l’Italia tende a vivere (e, soprattutto, che ha vissuto) al di sopra dei propri mezzi. Questa convinzione è sbagliata. Il rapporto debito/Pil non dice infatti nulla circa i fondamentali complessivi di un’economia. Ci si aspetta che un paese che ‘vive al di sopra dei propri mezzi’ (sebbene il senso più generale di un’espressione simile possa essere messo in discussione quando ci si riferisce non ad un singolo individuo ma ad una collettività) mostri la tendenza a importare, per periodi di tempo significativamente lunghi, più beni e servizi di quanti non ne esporti. Di un paese, come l’Italia, che, invece, esporta più di quanto importa difficilmente si può dire che vive al di sopra dei propri mezzi. Infatti, dal 2012, l’Italia esporta più̀ di quanto importa; ciò vuol dire che consuma meno di quanto produce. L’Italia vive quindi non al di sopra ma al di sotto dei propri mezzi.

Fonte: AMECO (primavera 2020), calcoli propri.

2. L’Italia è piena di debiti.

In Italia, il problema del debito è circoscritto al settore pubblico. I dati lo dimostrano con chiarezza: il livello del debito privato italiano è tra i più bassi registrati nei paesi OCSE. La questione del debito, quindi, andrebbe perlomeno circostanziata e non rappresentata come un malanno generalizzato all’intera economia italiana.

Fonte: OECD.

3. Il debito pubblico italiano è dovuto alle eccessive spese dello stato

Da dove viene il debito pubblico italiano? Per quanto, visto dal Nord, il quadro della politica interna italiana, da Berlusconi a Salvini, possa essere considerato disastroso – e noi condividiamo tale opinione – non è quest’ultimo ad aver causato il debito né tantomeno ad aver contribuito alla sua crescita. L’origine del debito pubblico italiano è più lontana, va ricercata in quello che è successo nel corso degli anni ’80, che possono essere considerati gli anni della ‘politica spensierata’ (i.e. ovvero dell’uso della spesa pubblica a fini in parte assistenziali e comunque non idonei a rendere produttivamente e tecnologicamente virtuosa la parziale ‘terziarizzazione’ dell’economia italiana) e del drammatico aumento dei tassi d’interesse di riferimento, a livello internazionale, che hanno imposto allo Stato italiano un servizio del debito sempre più oneroso. Analizzando la dinamica del bilancio pubblico italiano a partire dal 1992, si osserva come, al netto di tali interessi, esso sia rimasto sempre in attivo (ad eccezione dell’anno più duro della recente crisi finanziaria, il 2009). Un avanzo primario positivo che paesi quali Germania e Austria hanno visto molto meno frequentemente. Sembrerebbe quindi che la ‘frugalità’ abbia albergato ed alberghi più in Italia, perennemente additata come ‘cicala’, che non nelle presunte formiche d’oltralpe. Allo stesso tempo, tuttavia, l’onere annuale degli interessi sui vecchi debiti (i.e. quelli contratti durante gli anni ‘80) ha continuato ad incidere negativamente spingendo costantemente il saldo complessivo del bilancio statale italiano in territorio negativo. Un’ulteriore informazione, non meno rilevante e sempre collegata alla finanza pubblica, riguarda il fatto che l’Italia è stata finora anche un contributore netto al bilancio dell’UE.

Fonte: AMECO (primavera 2020), calcoli propri.

4. L’economia italiana è stata enormemente avvantaggiata dall’euro

Nel 1995, il debito pubblico italiano era già̀ pari al 120% del Pil. Ma non è stato l’eccesso di spesa a far crescere il rapporto. La causa sembra avere più a che fare con il denominatore, ossia con la debole crescita economica degli ultimi 20 anni. Quando l’economia ristagna, uno Stato non può̀ uscire dalla trappola dei debiti esistenti a prescindere dalla suo grado di ‘frugalità’. In questo caso, la strategia di politica economica seguita nell’ultimo ventennio dall’Italia (senza per questo dimenticare il peso negativo esercitato da instabilità politica, corruzione e criminalità̀ organizzata che, tuttavia, affliggono l’economia italiana da molto prima che problemi quali l’elevato debito pubblico e la bassa crescita emergessero) ha avuto un ruolo centrale. Se si volge lo sguardo un po’indietro, è possibile infatti scoprire come, negli anni ‘60 e ‘70, nonostante i suoi atavici e già menzionati malanni, l’economia italiana mostrasse un potere d’acquisto pro capite superiore a quello del Regno Unito (1969) e della Francia (1979). Nel 2000, il tenore di vita in Italia era praticamente identico a quello della Germania (il 98,6% del potere d’acquisto pro capite tedesco). Dall’introduzione dell’euro in poi (1999), tuttavia, l’economia italiana ha cominciato a perdere terreno scivolando dietro il Regno Unito (2002) e dietro la Francia (2005). A venti anni dall’introduzione della moneta unica (2019), il reddito pro capite italiano è sceso di oltre il 20% rispetto a quello tedesco.

L’introduzione dell’euro e la stagnazione della crescita economica italiana sembrano dunque essere andati di pari passo. Una potenziale spiegazione di ciò è data dal fatto che alla sua introduzione, il valore dell’euro è stato determinato con riferimento alla media ponderata delle valute di tutte le economie aderenti all’Unione Monetaria. In questo modo, la moneta unica è risultata essere ‘troppo debole’ per la Germania (con effetti positivi sulla competitività di quest’ultima) e ‘troppo forte’ per l’Italia.

In un tale contesto, la capacità dell’Italia di riacquistare slancio economico rimanendo all’interno dell’UME dipenderà dalla volontà̀ di paesi quali Austria e Germania di riformare l’architettura dell’Unione – soprattutto per quanto riguarda le sue regole di bilancio. Austria e Germania stanno beneficiando fortemente di una moneta comune che per loro è relativamente debole. Per questo, i paesi del Nord dovrebbero fare tutto il possibile per mantenere l’Italia nell’euro riconoscendo come una riforma capace di rendere l’UME sostenibile per tutti gli stati aderenti scongiurerebbe una perdita di benessere generalizzata che interesserebbe le economie tedesca e austriaca non meno di quella italiana (per paesi come la Germania e l’Austria un ritorno a una valuta ‘forte’ come il Marco o lo Scellino rappresenterebbe una grave penalizzazione della capacità competitiva dell’industria esportatrice).

Fonte: AMECO (primavera 2020); calcoli propri.

5. L’Italia non ha fatto le ‘riforme strutturali’

Nel 2015, l’OCSE ha classificato gli “sforzi di riforma” dell’Italia come ‘significativamente superiori a quelli della Germania e della Francia’. L’economista olandese Servaas Storm è della stessa opinione. In un’indagine approfondita, Storm ha mostrato come l’Italia abbia aderito in modo molto più̀ stringente alle indicazioni di riforma ed alle indicazioni  di politica economica della UE di quanto non abbiano fatto Germania e Francia. Ciò si aggiunge a quanto già messo in luce poco fa: l’Italia si è caratterizzata per un’attitudine tra le più ‘frugali’ (circa l’uso della spesa pubblica) tra quelle registrate in Europa nell’ultimo ventennio. Tutto questo zelo non sembra tuttavia avere particolarmente giovato all’economia italiana. La combinazione di avanzi primari e ‘riforme strutturali’, fondamentalmente orientate alla flessibilizzazione, ha influito negativamente sulla dinamica della domanda aggregata contribuendo a ‘strozzare’ la crescita del paese.

Ci si è trovati di fronte a quello che la teoria definisce il “Paradosso del risparmio”: l’eccesso di risparmio, proprio di un’attitudine austera (o frugale), si traduce in mancanza di investimenti e minori entrate per lo Stato. Tutto ciò mentre i tassi d’interesse continuano a far crescere il debito. Può sembrare una questione tecnica, ma…le conseguenze sono purtroppo molto concrete. Come l’economista tedesco Achim Truger ha recentemente mostrato, l’austerità̀ ha avuto in Italia conseguenze nefaste quali, ad esempio, la riduzione dell’offerta di beni e servizi sanitari pubblici, con gli effetti  emersi con chiarezza nel corso della pandemia da Covid-19. Inoltre, la forte contrazione degli investimenti pubblici ha influito negativamente sulla crescita della produttività in Italia. Come detto, tuttavia, non è solo in termini di finanza pubblica e austerità che l’Italia è stata particolarmente diligente rispetto alle indicazioni provenienti dalla Commissione Europea. La flessibilizzazione del mercato del lavoro, ha indotto, secondo Storm, un forte aumento dei contratti a tempo determinato, una significativa riduzione del potere contrattuale dei sindacati e un calo dei salari reali rispetto alla Germania e alla Francia. Le tutele contro il licenziamento sono state fortemente ridimensionate nel 2014 dal governo Renzi. Si tratta dell’approfondimento di misure che avevano in parte contribuito a ridurre l’inflazione e la disoccupazione negli anni ’90. Tuttavia, favorire l’impiego di manodopera a basso costo disincentiva l’adozione di strategie virtuose – quali quelle basate sugli investimenti, l’innovazione tecnologica e il potenziamento delle competenze interne all’impresa –  in grado di  accrescere la produttività. Gli investimenti privati, ancor più di quelli pubblici, sono infatti lo strumento chiave per aumentare la produttività, che è a sua volta alla base della crescita dei redditi. Il combinato disposto di austerità fiscale e riforme strutturali finalizzate a liberalizzare il mercato del lavoro ha, di fatto, ostacolato la crescita della produttività in Italia. Una ‘ricetta’ di politica economica che, in definitiva, ha fatto più danni che altro.

6. Quella italiana è un’economia in declino che vive quasi solo di turismo

Nonostante la debole crescita della produttività e i problemi di competitività di prezzo emersi nel recente passato, anche per via dell’euro, l’economia italiana continua a presentare alcuni significativi punti di forza. Non è principalmente di turismo, come alcune rappresentazioni caricaturali sembrano suggerire, che l’economia italiana vive. L’industria italiana, soprattutto grazie alla forza economica delle sue regioni settentrionali, è tuttora la seconda d’Europa – anche nel caso si consideri ancora la Gran Bretagna parte della UE. In termini dimensionali, l’industria italiana mostra livelli produttivi inferiori solo a quelli della Germania, esporta molti più manufatti industriali di quanto non ne importi ed è la terza economia europea per quanto riguarda l’esportazione di tali beni, posizionandosi subito dopo la Francia.

Il settore di gran lunga più̀ importante per le esportazioni italiane è quello dell’ingegneria meccanica, che comprende da solo quasi un quinto delle esportazioni totali. Seguono le automobili (e i veicoli più in generale) e i prodotti farmaceutici. In termini di composizione, l’export italiano è praticamente identico a quello tedesco. I settori più attivi in termini di esportazioni vanno, secondo la classificazione OCSE, dalla “medio-alta” alla “alta tecnologia”. La forza della struttura industriale italiana ed il suo relativo dinamismo costituiscono solo un esempio del grande potenziale economico di un paese, l’Italia, spesso rappresentato attraverso false (e pregiudizievoli) caricature che a tali capacità industriali ed economiche non rendono alcuna giustizia. D’altra parte, se la politica di austerità e le ‘riforme strutturali’ non hanno contribuito a valorizzare i punti di forza del paese, la cosa ovvia da fare sarebbe tentare una strategia diversa. Un tentativo di inversione di tendenza senz’altro valido è, ad esempio, quello di riscoprire il ruolo chiave degli investimenti, come sembra stiano facendo Merkel, Macron e alla Commissione Europea. In questo quadro, sarebbe possibile interrompere il circolo vizioso del rigore fiscale e dell’austerità incentivando l’industria italiana con una moderna strategia industriale europea.

Fonte: Eurostat

Fonte: AMECO (primavera 2020), calcoli propri.

7. Gli italiani sono più ricchi dei tedeschi o degli austriaci

Alcuni economisti e politici sostengono che gli italiani dispongono di un patrimonio privato maggiore rispetto agli austriaci e ai tedeschi e affermano che se gli italiani volessero potrebbero risolvere il problema del debito autonomamente usando il patrimonio privato per farvi fronte. Questo argomento è, tuttavia, sbagliato. Chi propone questo tipo di ragionamento tende a confondere patrimonio medio e mediano. Nel calcolo del patrimonio medio, tutte le attività sono sommate e divise per il numero di famiglie. Il patrimonio medio descrive dunque la ricchezza media di una famiglia. In termini di patrimonio medio, le famiglie tedesche e austriache sono sensibilmente più̀ prospere di quelle italiane. Ciò non è vero però se si guarda al patrimonio mediano. Dunque, il patrimonio privato complessivo è più basso in Italia rispetto all’Austria e alla Germania, ma è più̀ equamente distribuito. In Germania e in Austria, la ricchezza è maggiormente concentrata. Una delle ragioni principali di tale differenza ha a che fare con il fatto che la proprietà̀ immobiliare privata in Italia è molto importante (per vivere) per molte famiglie. E questo non vuol dire che gli italiani sono più ricchi ma, piuttosto, che lo Stato italiano non offre prestazioni di welfare paragonabili a quanto avviene in Austria e in Germania. L’edilizia sociale e cooperativa che consente a molte persone in Germania, e soprattutto in Austria, di disporre di alloggi a prezzi accessibili di dimensioni ragionevoli, è sempre più rara in Italia. Al contempo è necessario considerare che gli immobili di proprietà pubblica, ove vivono moltissimi cittadini tedeschi e austriaci, non vengono contabilizzati come patrimonio privato nonostante il fatto che le persone che vi risiedono, spesso per la loro intera vita, vivono meglio e con una qualità̀ del servizio superiore rispetto a quello di cui godono i cittadini italiani proprietari di immobili privati di livello medio-basso. Se si prende questo elemento in seria considerazione, è possibile mettere in discussione uno dei più consolidati pregiudizi: non è vero che gli italiani sono ‘più ricchi’ dei tedeschi o degli austriaci.

Fonte: ECB

Le immagini nelle loro teste…

L’immagine che i media, soprattutto quelli di lingua tedesca, forniscono dell’Italia, dunque, non sembra reggere la prova dei fatti. Angela Merkel e il suo ex ministro delle finanze dell’epoca, Wolfgang Schäuble, hanno dato libera circolazione a questi cliché dieci anni fa, durante la crisi finanziaria.

La politica e gli interessi economici allora dominanti in Germania supportavano tali rappresentazioni mistificatorie dell’Europa meridionale, utili anche a tutelare l’impianto neoliberale della politica economica europea. Oggi, dieci anni dopo la crisi finanziaria e nel mezzo della pandemia da Covid-19, gli stessi attori sembrano accorgersi dei risultati nefasti prodotti dalle politiche che hanno così pervicacemente imposto al resto d’Europa. La situazione è di una gravità tale da mettere a repentaglio l’intera Unione.

Per questa ragione, la Germania sembra sconfessare se stessa proponendo ora una politica a carattere ridistributivo, basata sugli investimenti, in gran parte a favore del Sud. La costruzione di un consenso politico adeguato alla realizzazione di misure di dimensioni commisurabili alla sfida non è, tuttavia, un obiettivo semplice. Convincere le popolazioni dell’Europa settentrionale, subissate per anni da falsi stereotipi e pregiudizi, sarà un’operazione molto difficile. Il primo passo consiste nel liberarsi dei tossici pregiudizi riguardanti l’Europa meridionale e, in particolare, l’Italia che hanno sin qui infestato il Nord Europa.

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