ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 180/2022

16 Ottobre 2022

Una visione eterodossa della Cina*

Pompeo Della Posta sostiene che parlando della Cina, i media europei si soffermano molto spesso sugli aspetti negativi che la caratterizzano, ignorando o sottostimando, quelli positivi e che ciò rischia di alimentare una crescente contrapposizione con l’UE, oltre a quella, già evidente, fra USA e Cina. Della Posta tenta di riequilibrare la narrativa su quel paese, con l’intento di favorire il mantenimento di un contesto di comprensione e dialogo con l’UE e aiutare così le prospettive di pace in un contesto internazionale sempre più difficile.

Il XX Congresso del Partito comunista cinese, che si apre proprio mentre vengono licenziate queste note, vedrà, con ogni probabilità, la riconferma di Xi Jinping come Segretario generale del Comitato centrale per i prossimi 5 anni. La sua eventuale conferma sarà possibile grazie ad una modifica costituzionale del precedente limite di 2 mandati. Sotto la sua guida, iniziata 10 anni fa la percezione che il mondo ha della Cina è profondamente mutata. Nel parlare del “paese di mezzo”, infatti, i media europei si stanno soffermando in maniera crescente sugli innegabili aspetti critici che lo caratterizzano (ad esempio la censura operata sull’informazione), spesso utilizzando esclusivamente un metro di giudizio occidentale, senza porli in prospettiva storica, geografica o culturale e senza considerare la specificità di un paese popolato da 1 miliardo e 400 milioni di persone. Sono generalmente del tutto ignorati o sottostimati quelli positivi (fra le poche eccezioni vi è un articolo della Harvard Business Review che sottolinea “ciò che l’Occidente sbaglia sulla Cina”). 

Tutto questo sta condizionando il sentimento comune nei confronti di quel paese, ma soprattutto rischia di alimentare la contrapposizione frontale con l’Unione europea (UE) , che andrebbe ad aggiungersi a quella, già evidente, fra Stati Uniti (USA) e Cina, con conseguenze per le prospettive future di pace nel mondo. Per cercare di contribuire ad un riequilibrio della narrativa che riguarda la Cina e per favorire una prospettiva di comprensione e dialogo – e senza alcun intento celebrativo – in quanto segue presenterò alcuni dei principali aspetti positivi che, a mio avviso, dovrebbero esserle comunque riconosciuti.

La Via della Seta. La “Nuova Via della Seta” viene oggi sempre più percepita come espressione inequivocabile del neo-colonialismo cinese, che blandisce i paesi che vi aderiscono per poi impossessarsi delle infrastrutture che questi ultimi non riescono a ripagare. 

Non si ricorda, però, che negli anni Settanta, in seguito alla crisi petrolifera, gli esuberi di “petrodollari” presso le banche europee servirono a finanziare molti paesi dell’allora cosiddetto “terzo mondo”, senza porre attenzione alla loro destinazione. Ciò contribuì a creare il problema del debito estero di quei paesi, che si è trascinato per decenni (il debito era in dollari ed a tasso di interesse variabile, per cui con l’apprezzamento del dollaro dei primi anni Ottanta ed il contemporaneo aumento dei tassi di interesse, gli importi da ripagare in valuta locale aumentarono a dismisura). Nel caso della Cina, i finanziamenti sono finalizzati alla costruzione di infrastrutture richieste dai paesi stessi, in quanto ritenute necessarie al loro sviluppo. Deve anche essere osservato che, viste le difficoltà emerse in alcuni casi, il governo e le banche cinesi hanno ora ridotto tali finanziamenti. 

Inoltre, la “Nuova Via della Seta” riguarda principalmente quelle realtà geografiche (Asia Centrale, Asia del Sud, Africa, America Centrale e America Latina) che sono state ignorate o solo lambite dal processo di globalizzazione degli ultimi 40 anni. Sia pure in misura minore, questo è accaduto anche alla parte nord-occidentale della Cina, quella rimasta fuori dal grande sviluppo costiero i cui fulcri sono Shanghai a est e Guangzhou (Canton) a sud, oltre che Pechino. L’intenzione iniziale, infatti, era quella di favorire lo sviluppo delle provincie cinesi nord-occidentali, mettendole in congiunzione in primo luogo con altre aree non sviluppate dell’Asia centrale (Afghanistan, Kazakhstan, Kirghizistan, Tajikistan, Turkmenistan, Uzbekistan, ma anche Iran e Pakistan).

Anche per rispondere all’iniziativa cinese gli USA e l’UE hanno dato vita recentemente a programmi simili. Gli USA con l’iniziativa Build Back Better World, l’UE con la sua Global Gateway. La Belt and Road Initiative dunque, se non altro, ha avuto il merito di sensibilizzare USA e UE rispetto alle esigenze di aree geografiche evidentemente trascurate in precedenza.

La pandemia. La gestione della pandemia da parte della Cina viene spesso definita “disastrosa”. Ma guardiamo i dati: negli Stati Uniti, dove vivono circa 340 milioni di persone, i morti da COVID sono stati, secondo le statistiche ufficiali, circa 1 milione e 40 mila; la Cina, con 1 miliardo e 400 milioni di persone (quindi più di 4 volte la popolazione statunitense) ha avuto 25 mila morti. Una banalissima ed approssimativa proporzione suggerisce, quindi, che se la Cina avesse seguito la politica americana, avrebbe contato intorno ai 4 milioni e 200 mila morti, anziché “soli” 25 mila. Si può discutere, naturalmente, delle modalità seguite dal governo cinese (il lockdown di Shanghai di circa 10 milioni di persone fatto per proteggere il restante miliardo e 390 milioni di cinesi), ma non può essere ignorato che quel sacrificio è servito, anche solo indirettamente, ad evitare la morte di tante persone. Si tratta di una tipica situazione di “trade-off” ben nota agli economisti e la Cina ha evidentemente preferito sacrificare le ragioni dell’economia a vantaggio della vita delle persone. Altri paesi hanno fatto scelte diverse, ma non credo che questo permetta di definire “disastrosa” la politica cinese.

La povertà e l’aspettativa di vita. Non si può non notare, poi, un risultato a dir poco straordinario, vale a dire quello che la Cina è riuscita a togliere dalla povertà estrema 800 milioni di persone (come dire poco più della popolazione di UE e USA messe assieme!) nei quarant’anni circa che vanno dal 1981 ad oggi. Se invece guardiamo a Brasile ed India, per esempio, vediamo che hanno ancora oggi ampie sacche di povertà estrema, nonostante che partissero da livelli percentuali ben inferiori. Del resto, già John Kenneth Galbraith nel 1979 osservava che “some capitalist countries (e.g., India) have done worse than some communist countries (e.g., China) when it comes to poverty reduction.” Questo non attenua però il fatto che in Cina le disuguaglianze siano enormemente aumentate, come del resto in quasi tutti gli altri paesi del globo.

Osservazione simile si può fare per quanto riguarda l’aspettativa di vita cinese, che è oggi superiore a quella statunitense, nonostante che il reddito pro-capite USA sia circa tre volte e mezzo maggiore di quello cinese (è vero che al di sopra di un certo livello di reddito pro capite non c’è un legame statistico forte fra quest’ultimo e l’aspettativa di vita, ma forse questi dati suggeriscono ugualmente qualcosa di significativo sulla differenza nei due sistemi sanitari, aspetto questo che credo dovrebbe essere ugualmente tenuto in considerazione quando si valuta l’operato di un paese).

La globalizzazione temperata. Ma come ha fatto la Cina ad ottenere questi risultati? Dopo il 1978, anno dell’apertura in seguito alle riforme di Deng Xiaoping, la Cina ha adottato un modello di globalizzazione temperata (secondo alcuni critici, in realtà, neo-mercantilista), al contrario di quanto cominciava a fare il mondo occidentale. A ben pensarci, si è presentata un’occasione storica unica alla Cina, che si confrontava con paesi occidentali ora disposti ad accettare incondizionatamente le concorrenziali esportazioni cinesi rese possibili dal nuovo corso della politica cinese delle “porte aperte”. Va ricordato, infatti, che è proprio di quegli anni, quando si impose la visione neoliberista rappresentata dall’ascesa al governo di Margaret Thatcher nel Regno Unito e di Ronald Reagan negli USA, anche la svolta politico-economica dei paesi occidentali, dopo i terribili anni Settanta caratterizzati dalla stagflazione e dalla conseguente caduta del modello keynesiano di globalizzazione temperata. È con gli anni Ottanta che inizia la terza fase della globalizzazione (dopo la prima corrispondente alla cosiddetta Belle Époque che ha preceduto lo scoppio della I Guerra mondiale e la seconda, cominciata al termine della II Guerra mondiale). È così che i minori costi del lavoro cinese hanno contribuito a indurre delocalizzazioni produttive, investimenti diretti esteri e la creazione di complesse catene del valore globali.

Nel globalizzare la propria economia, però, la Cina ha sì aperto al libero movimento dei capitali, ma solo a quelli a lungo termine, non anche alle attività finanziarie a breve termine, molto facili da attrarre, ma anche pronte ad andarsene alle prime incertezze, come ha dimostrato la crisi del sud-est asiatico del 1997, che non a caso non ha riguardato quel paese. 

E dagli afflussi di capitale produttivo ha voluto trarne il massimo vantaggio, imponendo la regola che se una impresa straniera voleva delocalizzare in Cina per beneficiare dei minori costi del lavoro, in cambio doveva permettere ai cinesi di avere il controllo dell’impresa per il 51% , in modo da potere imparare qualcosa e creare così le premesse per il proprio sviluppo. Misure di assoluto buon senso, che solo recentemente sono state allentate sotto la pressione del WTO.

Dani Rodrik, fra gli altri, da tempo metteva in guardia contro gli eccessi di una iper-globalizzazione che penalizzasse gli interessi dei cittadini, anche di quelli dei paesi “vincenti”. Il “Washington consensus” del tempo suggeriva invece la liberalizzazione indiscriminata dei mercati, violando le regole del “trilemma” di Rodrik e producendo inevitabilmente, come reazione finanche eccessiva, la tendenza a chiudere i mercati che osserviamo oggi. 

Infine, mentre nel mondo occidentale si imponeva la supremazia assoluta del mercato, in Cina, al fine di orientare l’economia, lo stato, operando in una prospettiva di lungo termine (a differenza di quello che purtroppo fanno molti governi occidentali), ha adottato politiche industriali attive, verso le quali soltanto ora USA e Unione europea, nel parziale risveglio dall’ubriacatura neoliberista di cui sono state vittime, stanno guardando con rinnovato interesse. 

La soddisfazione dei cinesi. Non dovrebbe sorprendere che tutto questo sia riflesso nell’alto grado di approvazione (95,5% nel 2016) del governo cinese da parte dei suoi cittadini, nonostante le severe critiche occidentali al modello cinese (ma il gradimento è ben minore nei confronti dei vari livelli di governo locale, quelli che forniscono i servizi ai cittadini per i loro bisogni quotidiani). Il dato non deriva da fonte cinese, ma è prodotto dall’Ash Center for Democratic Governance and Innovation della Harvard Kennedy School, in uno studio che copre il periodo 2003-2016 con otto round di rilevazioni. Lo stesso studio mostra come il livello di gradimento dei governi nazionali sia di gran lunga inferiore nei paesi occidentali (era del 38% nello stesso anno negli USA). Fra le ragioni di tale elevato grado di consenso lo studio indica senz’altro il controllo dell’informazione, ma rileva anche che i dati risentono dello stato di benessere materiale dei cittadini, dipendente dall’andamento dell’economia e dalle condizioni dell’ambiente (si pensi all’alto grado di inquinamento di Pechino, per ridurre il quale il governo ha intrapreso azioni a partire dal 1998), ma anche dalla stabilità del contesto politico ed economico. Tutto ciò fa riflettere sulle variabili che determinano maggiormente il consenso di cui un governo gode presso i suoi cittadini.

Il dato generale è confermato se si guarda al livello di gradimento per le infrastrutture (ad esempio i trasporti): la Cina primeggia con il 77% di soddisfazione, contro il 38% della media mondiale, il 27% degli USA e il 18% dell’Italia. Anche in questo caso, i dati non sono di fonte cinese, ma dell’istituto di ricerca IPSOS.

In conclusione. Discutiamo pure della Cina e di tutto quello che non va bene in quel paese (senz’altro c’è molto di cui parlare), ma senza preconcetti (che per esempio potrebbero portarci a ignorare o pesare in maniera diversa le storture e gli errori commessi nel tempo anche da altri paesi) e senza ignorare i molti aspetti positivi che pure la caratterizzano. Facendo così si potrà forse comprendere quel paese un po’ meglio di quanto la narrazione corrente suggerisca in maniera pressoché automatica. Evitare di fermarsi a ciò che appare a prima vista (Mario Morroni e Carlo Rovelli docent), potrebbe essere molto utile non solo per una più serena valutazione di ciò con cui ci confrontiamo, ma soprattutto per la pace, in difesa della quale l’UE, in un mondo che sta nuovamente diventando sempre più pericolosamente bipolare, può e deve giocare un ruolo ben più determinante di quanto stia facendo attualmente.


*Ringrazio Enrico Marelli, Marcello Messori, Mario Morroni, Roberto Tamborini, Raffaele Tamborrino e Patrizio Tirelli per i loro commenti a precedenti versioni di questo lavoro. Ringrazio anche Maurizio Franzini per i suoi preziosi commenti e per avermi aiutato a snellire e meglio chiarire il testo. Naturalmente nessuno di loro può essere ritenuto responsabile di quanto ho scritto, né di eventuali errori o inesattezze che vi fossero contenute.

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