ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 221/2024

12 Settembre 2024

Unione Europea tra protezione, protezionismo e globalizzazione illuminata*

Pompeo Della Posta sostiene che la tesi contenuta nel recente rapporto di Enrico Letta sulla competitività in Unione Europea secondo cui occorre ‘protezione’ e non ‘protezionismo’ per l’UE, rischia di alimentare la contrapposizione fra blocchi. Secondo Della Posta sarebbe preferibile riconoscere i limiti della ricetta neoliberista seguita fino a poco tempo fa e perseguire una globalizzazione ‘illuminata’, praticando un protezionismo non unilaterale, concertato con i partner dell’Unione Europea attraverso un dialogo aperto.

La situazione politica internazionale è sostanzialmente polarizzata in due schieramenti, che vedono da un lato gli USA, l’UE e il resto del mondo sviluppato, e dall’altro la Cina con i paesi ad essa collegati attraverso istituzioni come BRICS (Brasile, Russia, India, China, South-Africa), RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership), ASEAN (Association of Southeast Asian Nations), BRI (Belt and Road Initiative), GDI (Global Development Initiative) e SCO (Shanghai Cooperation Organization).

Si confrontano quindi paesi sviluppati, guidati dagli USA, e paesi meno sviluppati, guidati dalla Cina (sia pure con molte qualificazioni: si pensi alle alleanze che gli Stati Uniti tessono in Asia, anche al fine di pattugliamento delle rotte commerciali navali in quei mari, al fatto che aderiscono alla BRI anche paesi sviluppati, o al fatto che l’UE stessa si trova spesso in situazioni di competizione economica con gli USA).

L’UE sembra voler tenere un profilo diverso rispetto a quello americano, come dimostra la definizione di ‘rivale strategico’ attribuita alla Cina, a differenza di quella di ‘avversario’ usata dagli americani. Questi ultimi, poi, auspicano un ‘decoupling’ (‘separazione’) nei confronti del ‘paese di mezzo’, a differenza del più blando ‘de-risking’ perseguito dagli europei. 

In ogni caso, nonostante la posizione più morbida rispetto alla Cina, l’UE, da qualche anno a questa parte sta, giustamente secondo me, riconoscendo la necessità di una ‘nuova’ (nel senso che non era stata mai condotta prima) politica industriale a livello europeo, che permetta di colmare il gap tecnologico accumulato nei confronti non solo della Cina ma anche nei confronti degli USA.

Negli anni passati, infatti, seguendo in maniera acritica le prescrizioni neoliberiste, l’UE aveva costantemente monitorato i singoli paesi europei per evitare che fornissero sussidi alle industrie nazionali a danno delle altre e garantire così condizioni di parità nella concorrenza fra imprese dei diversi paesi europei (l’eccezione del periodo del COVID-19 non cambia la sostanza di quanto precede). Tutto questo, però, avveniva mentre gli Stati Uniti da un lato ricevevano capitali privati dal mondo intero così da finanziare la ricerca in innovazioni tecnologiche e la Cina faceva quello che qualunque paese emergente che vuole svilupparsi ha sempre fatto. Uno dei tanti esempi, oltre a quelli relativi agli investimenti effettuati in settori strategici per l’innovazione tecnologica, è l’ampio uso di investimenti pubblici per creare una rete di ferrovie ad alta velocità, che collega oggi 90 città cinesi per decine di migliaia di chilometri (vale forse la pena ricordare che le stazioni ad alta velocità negli USA sono 3 e in Europa corrono solo internamente ai singoli paesi, mancando i collegamenti a livello di Unione europea, come lamenta Enrico Letta nel suo recente rapporto). Il ruolo delle infrastrutture e quindi delle politiche pubbliche nello sviluppo di un paese è ben descritto dalla new structural economics (nuova economia strutturale).

 Nell’UE, invece, si è continuato ad alimentare una competizione illusoria fra i paesi che ne fanno parte, negando così le ragioni stesse che hanno portato ad iniziare il processo di unificazione. Ce ne siamo dimenticati, ma l’UE nacque con i Trattati di Roma del 1957, oltre che per evitare nuove guerre fratricide, anche dall’umiliazione subita da Francia e Regno Unito nella crisi di Suez del 1956, e dai carri armati sovietici a Budapest dello stesso anno; nasceva cioè dalla consapevolezza che da soli i paesi europei non avevano alcuna possibilità di resistere alle potenze mondiali che stavano crescendo: gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, allora, gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese, oggi.

Comunque sia, oggi l’UE ha finalmente scoperto la politica industriale da condurre a livello europeo, avendo però sprecato anche l’occasione dataci dal COVID-19 per ragionare a livello continentale, anziché nazionale, con i vari PNRR che avrebbero ben potuto essere pensati come dei piani pan-europei di ripresa e resilienza, anziché soltanto nazionali.

Ed eccoci quindi al rapporto Letta, presentato dopo la sua uscita come il nuovo rapporto Delors, a gettare le basi per una rinascita europea.

 Letta ha sostenuto al recente incontro di Firenze sullo ‘Stato dell’Unione’ che l’UE cerca ‘protezione e non protezionismo’. La distinzione è importante, perché nella logica di Letta (e in quella di Christine Lagarde, presidente della BCE che, come Letta, sottolinea la necessità di protezione per l’UE), la prima è lecita, mentre il protezionismo non lo sarebbe, visti i danni che ha prodotto in passato e visto quanto la teoria economica dominante suggerisce. In effetti, anche sui libri di testo di economia più ortodossi non si ammettono eccezioni al libero commercio, se non per ragioni dettate dalla difesa degli interessi militari e vitali di un paese, la ‘protezione’, appunto.

Il punto che intendo fare, tuttavia, è che usare l’argomento della ‘protezione’ per introdurre comunque in maniera unilaterale misure di fatto ‘protezionistiche’ (vedi i recenti dazi sulle importazioni di auto elettriche cinesi, imposti da Stati Uniti, fino alla misura del 100% e UE, fino al 48%), rischia di determinare un ulteriore peggioramento delle relazioni internazionali (tenendo conto anche delle possibili misure di ritorsione cinesi future), con l’esito probabile di determinare una situazione che è peggiore per tutti. 

Del resto, molto spesso in passato le misure protezionistiche sono state camuffate da misure di protezione. E non è forse un caso che queste misure di ‘protezione’ arrivino ora che la Cina ha una certa superiorità tecnologica in alcuni settori. Eravamo a favore della globalizzazione, noi occidentali, fino a che eravamo noi ad esportare i beni tecnologicamente più avanzati e lasciavamo agli altri l’esportazione dei meri prodotti manifatturieri. Non lo siamo più ora, che gli altri sono in grado di esportare beni che sono alla frontiera dell’innovazione che ora saremmo noi a dovere importare.

Non si dovrebbe avere timore, dunque, a mio avviso, di usare il termine protezionismo, accompagnandolo però con un aggettivo quale ‘illuminato’, come proponeva già diversi anni fa il compianto Vittoriangelo Orati. E se non vogliamo parlare di ‘protezionismo’ illuminato, perché il termine ‘protezionismo’ non ci piace, allora parliamo pure di ‘globalizzazione illuminata’.

Il punto è che la globalizzazione ‘tout-court’, quella ‘non illuminata’, ha causato un numero crescente di ‘perdenti della globalizzazione’. Ad essi non era stata assicurata alcuna ‘protezione’, soprattutto perché non erano quei perdenti che controllavano le regole del gioco. Le classi medie, i professionisti, del resto se ne stavano ben al riparo delle rigide regolamentazioni delle loro professioni: la globalizzazione andava bene fintanto che il prezzo erano gli altri a pagarlo. Ora Letta scrive che l’UE non può e non deve sacrificare la propria manifattura alla causa della globalizzazione. Benissimo, ma si dovrebbe almeno riconoscere che non era quello che si diceva fino a poco tempo fa. 

Le proteste contro la globalizzazione, infatti, vanno indietro alla famosa conferenza interministeriale del WTO di Seattle, del novembre-dicembre 1999, e alle proteste del tragico G8 del luglio 2001. Ma in quegli anni e fino a che non si è avuta la ‘sveglia’ data dalla crisi finanziaria globale del 2008/09, si credeva nell’acronimo ‘TINA’ coniato dalla Thatcher: ‘There Is No Alternative’ (‘non vi è alternativa [alla globalizzazione]’); e si credeva ciecamente nell’idea del ‘trickle down’ (‘tracimazione’: se un bicchiere si riempie, allora il suo liquido tracima anche sotto, beneficiando tutti), o che la marea della globalizzazione solleva tutte le barche, le grandi e anche le piccole. Il centro-sinistra mondiale, da Tony Blair, a Clinton, a Schroeder, per citare i capi di governo più noti appartenenti allo schieramento progressista, e la maggior parte degli economisti (naturalmente con diverse eccezioni, fra cui Rodrik, il compianto Mario Nuti e Della Posta, oltre a Stiglitz) concordavano che la globalizzazione non potesse essere non tanto fermata, ma neanche governata. Salvo poi scoprire, dopo la crisi finanziaria ed economica globale del 2008/09 che mette a terra anche la classe media, che in effetti la globalizzazione poteva finire e come (lo diceva il compianto Marcello de Cecco, prendendo la Belle Époque come esempio, la cui fine e la fine della I fase della globalizzazione economica, coincisero con lo scoppio della I guerra mondiale e con le chiusure che ne seguirono fino al termine della II guerra mondiale). Perché a quel punto c’è la classe media a rigettare la globalizzazione, insieme ai lavoratori manuali e non specializzati. E lo fa votando per partiti populisti che predicano il ritorno alla chiusura, come ben sappiamo e stiamo ancora verificando.

Allora, ecco il punto che intendo sollevare: si preferisce dire che si cerca ‘protezione’ e non ‘protezionismo’ perché quella eccezione è prevista dalla teoria economica. Non si può/non si vuole mettere in discussione il credo liberista della superiorità del mercato lasciato a se stesso e per far questo non si esita a soffiare sul fuoco della separazione fra aree geografiche e paesi, contribuendo però così ad alimentare il clima da guerra fredda che credevamo di avere abbandonato per sempre.

Non sarebbe più efficace, invece, cercare soluzioni cooperative, cioè non unilaterali? L’imposizione di dazi unilaterali, quella sì, è portatrice di sventure future. Perché non riconoscere in maniera aperta e trasparente che l’UE ha delle criticità, dei ritardi, delle dipendenze (così come ce l’ha la Cina che, per esempio, importa petrolio e gas rispettivamente nella misura del 75% e 41% dei propri consumi e soia per l’84%) e sedersi ad un tavolo con i cinesi (e con gli americani, perché, lo riconosce Letta nel suo rapporto, anche l’Inflation Reduction Act americano pone delle sfide commerciali all’UE) e insieme cercare soluzioni condivise? Questo consentirebbe di concedere protezione ai perdenti della globalizzazione, favorendo la loro riqualificazione e la crescita della loro produttività e garantirebbe anche il de-risking rispetto alle criticità europee. 

Ma realizzerebbe questo obiettivo senza alimentare il clima di diffidenza che ci porta sempre di più a vedere nel nostro competitore un ‘rivale strategico’, come diciamo noi europei e un ‘avversario’, come dicono gli americani, nella speranza di non doverci ritrovare presto a parlare di ‘nemici’.

Allora ecco che la ricetta di Letta, pur certamente condivisibile per molti punti, manca di lanciare un ponte di collaborazione internazionale, trattandosi di una proposta rivolta solo all’interno dell’Unione europea, come se fossimo i soli giocatori di questa partita. Così si ambisce al superamento dei confini nazionali per fermarsi però davanti a quelli europei. Benissimo, se confrontiamo questa proposta con quelle populiste in giro per l’Europa e per il mondo. Ma perché non essere più ambiziosi? Perché non cercare una soluzione condivisa con gli altri attori planetari, avendo così maggiori garanzie di successo e evitando gli elevatissimi rischi delle chiusure unilaterali?

Letta ritiene necessario tenere all’interno dell’UE i risparmi, in modo da trovare le risorse per gli investimenti (senza però spiegare come si può sperare di ottenere questo risultato) e individua la ‘quinta libertà’, quella di fare ricerca, innovazione e educazione finalmente a livello trans-europeo, perché solo la dimensione europea permette all’UE di competere con le altre realtà mondiali. Al fine di colmare i deficit di produttività delle imprese europee rispetto a quelle cinesi e americane nei settori più innovativi, Letta, giustamente, riconosce ora la necessità di fornire sussidi a livello europeo, per iniziative comuni (lo stesso fa Mario Draghi nel rapporto sul futuro della competitività europea presentato da pochissimi giorni). Va però ricordato che in passato, un’iniziativa come quella dell’Airbus, realizzata facendo esattamente quanto essi auspicano oggi, fu vista come un anatema rispetto ai sacri principi del libero mercato dal Fondo monetario internazionale e dall’Organizzazione mondiale per il commercio e fu osteggiato ad ogni livello in nome del rifiuto al sussidio pubblico. Se i tempi sono davvero cambiati, sarebbe bene riconoscere che la fiducia nella globalizzazione economica e nel buon funzionamento del mercato lasciato a se stesso non è stata ben riposta e che quei principi possono anche essere rimessi in discussione, perché ci può anche essere un protezionismo ‘buono’, se non è condotto in maniera unilaterale, ottenuto praticando una globalizzazione ‘illuminata’ e concertato con i nostri partner, attraverso il dialogo e il confronto aperto.


* Versione rivista dell’intervento alla conferenza online dal titolo “Il Modello Sociale Europeo e il Manifesto del Gruppo ‘A New Industrial Strategy’. Quali politiche industriali nella prossima legislatura europea?”, 3 luglio 2024.

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