In ricordo di Domenico Mario Nuti

Il 22 dicembre scorso un grande economista, Domenico Mario Nuti, tristemente, se n’è andato. La redazione del Menabò, con cui Nuti ha collaborato, gli rende un commosso omaggio attraverso i ricordi di tre suoi membri – Maurizio Franzini, Rama Dasi Mariani e Paolo Paesani - che hanno avuto modo di conoscerlo ed apprezzarlo in varie epoche e in vari ruoli.

Paolo Paesani

Conobbi Domenico Mario Nuti nel 1995, seguendo il corso di Sistemi economici comparati, che teneva alla Sapienza di Roma. Per me si trattava dell’ultimo esame prima della laurea, un corso opzionale – come lo chiameremmo oggi. Avendo scelto di analizzare i rapporti tra gestione del debito pubblico e sviluppo del sistema finanziario, negli Stati Uniti, in Germania e in Italia, come tema della mia tesi di laurea in Economia monetaria, il corso di Nuti mi parve la scelta giusta. Il mio relatore, Marcello de Cecco, fu d’accordo con me e mi raccomandò di seguire con attenzione le lezioni di quel professore, che de Cecco stimava moltissimo e di cui era amico dai tempi comuni passati all’Università di Cambridge.

Il corso era diviso in due parti principali, la prima dedicata ai sistemi economici capitalistici e al confronto tra il modello anglosassone e i capitalismi dell’Europa continentale, con particolare riferimento al modello renano e ai temi dell’integrazione europea. Nella seconda parte si affrontava il tema dell’economia pianificata, le differenze tra i modelli sovietico, cinese, polacco e iugoslavo, i problemi della transizione dalle economie post-socialistiche verso il capitalismo e il mercato. Sullo sfondo, il tema della globalizzazione che allora si affacciava nelle aule universitarie.

Nuti era un docente non conformista, coinvolgente, capace di catturare l’attenzione del piccolo gruppo di studentesse e studenti che seguivano le sue lezioni. In piedi, appoggiato alla cattedra, a volte giocherellando con uno stuzzicadenti o la lattina di una bibita, Nuti – fisicamente imponente, con uno sguardo penetrante, ironico ma in maniera gentile – iniziava a parlare, intrecciando i suoi schemi analitici con ricordi personali tratti dalla sua lunga esperienza come consulente  presso i governi di molte economie dell’Europa dell’Est. Non ricordo che usasse la lavagna e non ricordo le modalità dell’esame, forse una tesina e un colloquio. Ricordo il voto – 30 e Lode – e la soddisfazione di aver concluso in maniera brillante gli esami il 13 giugno del 1996, come recita lo statino che ho conservato insieme a tutti gli altri.

Pensando a Nuti e al suo corso di Sistemi economici comparati mi tornano alla mente le ragioni per cui venticinque anni fa mi appassionai allo studio dell’Economia insieme a molti dei miei compagni di corso, tra i quali il mio carissimo amico Michele Raitano, con il quale ho condiviso le nostre memorie nell’accingermi a scrivere questo ricordo. Nuti fa parte di quel gruppo di professori ai quali molti di noi, che fummo studenti della Facoltà di Economia della Sapienza fra gli anni Ottanta e Novata, devono l’amore per l’Economia. Tra loro mi fa piacere ricordare i nomi di Acocella, Frey, Garegnani, Gandolfo, Gnesutta, Mellano, Parrinello, Vianello oltre a quello di Marcello de Cecco. Docenti molto diversi fra loro, ma animati da un sentire comune e da un’idea comune di Economia, fatta di attenzione ai problemi del mondo reale, alla loro dimensione storica e politica, rifiutando ogni tipo di dogmatismo.

Da questi docenti e da Nuti, in particolare, ho appreso che non esiste un unico modo di concepire il funzionamento dei sistemi economici, che non esiste un unico paradigma teorico, che l’Economia è una scienza sociale che merita di essere studiata per le soluzioni che può offrire alla soluzione dei problemi del mondo reale e al miglioramento delle condizioni di vita delle persone, che non esiste studio dell’economia, disgiunto da quello della Storia del pensiero e dei fatti.

In anni più recenti, mi è capitato di rincontrare Nuti alla Sapienza, alla stazione Termini, scendendo dal treno che mi riportava a Roma da Firenze, dove studiavo per il dottorato all’Istituto Universitario Europeo, dove Nuti stesso e de Cecco avevano insegnato in anni passati, e in occasione di seminari e convegni. Ogni volta mi stupivo che si ricordasse di me, mostrando interesse per le mie ricerche e per i miei progressi accademici. L’ho incontrato l’ultima volta a Siena, alla commemorazione per Marcello de Cecco, scomparso nel 2016. Anche in quell’occasione, seppur molto stanco, mi rivolse lo stesso sguardo penetrante e affettuoso di vent’anni prima ed è a quello che voglio pensare oggi mentre scrivo questo mio breve ricordo.

Rama Dasi Mariani

Da studentessa di Economia alla Sapienza di Roma, ho seguito il corso di sistemi economici comparati tenuto dal prof. Domenico Mario Nuti. Non ricordo con precisione cosa mi ha portato alla scelta di quel corso opzionale, ma rammento vividamente la prima lezione; l’argomento: la tassonomia del socialismo.

In diverse occasioni sono ritornata sugli appunti di quella lezione, anche dopo aver superato l’esame. Il prof. Nuti aveva individuato quattro elementi che costituivano il sistema socialista massimalista ideale: la proprietà e impresa pubblica dominanti, l’uguaglianza, la partecipazione e la democrazia economica, l’effettivo controllo sociale sulle principali variabili economiche. Dando valore zero all’assenza e uno alla presenza significativa di ogni elemento, il prof. Nuti elencava sedici diversi sistemi economici esistenti, passati o solo teorizzati. Nell’estremo caratterizzato da tutti zero vi era il sistema capitalistico puro e semplice.

La capacità analitica del prof. Nuti e il modo in cui era in grado di restituire a noi studenti le sue elaborazioni teoriche era rara e straordinaria. Ero iscritta alla laurea specialistica e già innamorata dell’economia, ma il prof. Nuti con le sue lezioni ha certamente intensificato la mia passione intellettuale e rafforzato le mie scelte di studio.

Dopo il corso di sistemi economici comparati ho incontrato nuovamente il prof. Nuti in un’aula della Sapienza. Aveva organizzato un seminario sul tema delle migrazioni internazionali ed io ero stata invitata dalla prof.ssa Marilena Giannetti, con la quale muovevo i primi passi nel campo della ricerca proprio sul tema del seminario. Era un tema attuale che aveva attratto un osservatore della realtà e un conoscitore della storia come il prof. Nuti. Anche in quell’occasione rimasi impressionata dalle sue riflessioni, le quali lasciavano trapelare un metodo analitico che gli permetteva di avere sempre spunti e visioni originali.

Quando penso al prof. Nuti, però, il primo ricordo che la mia mente evoca è l’ultima lezione del corso di sistemi economici comparati. Quella è stata anche la sua ultima lezione da docente ordinario. In aula erano presenti alcuni suoi colleghi e amici. Rammento il prof. Milone, col quale in quel periodo il prof. Nuti condivideva l’ufficio. L’eccezionalità degli uditori, non solo studenti, di quella lezione dava la percezione di un evento memorabile e già allora mi sentii fortunata per esserne testimone. Oggi l’amara consapevolezza che il prof. Nuti non potrà tornare a sedere in cattedra mi fa rivivere quel sentimento e mi fa apprezzare ancor di più il privilegio che ho avuto di ascoltare le sue lezioni.

 

Maurizio Franzini

“E non si preoccupi, se avrà qualche problema potrà rivolgersi a Mario Nuti al quale ho scritto del suo arrivo”. A parlare è Federico Caffè e davanti a lui ci sono io, laureato da poco, in partenza per Cambridge, con molta confusione in testa, qualche timore e anche una discreta emozione. Questo fu il primo ingresso di Mario nella mia vita. Allora era Fellow del King’s College; 4 o 5 anni prima aveva completato il suo Ph.D., iniziato con Nicky Kaldor e concluso con Maurice Dobb, più esperto nel suo tema, i sistemi socialisti. A Cambridge ebbi pochi ma molto utili contatti con lui.  Lo cercai poco, in realtà. Il mio college era un altro, il mio supervisor – che condividevo con Ugo Pagano – era un altro, Richard Goodwin, straordinario economista-pittore-già comunista ribelle vittima del maccartismo e all’epoca amante della Dino Ferrari. E per di più avvertivo uno sciocco senso di inadeguatezza.

Però, le poche volte che vidi Mario mi feci l’idea che la sua mente fosse di una lucidità straordinaria, la sua sensibilità sociale sopraffina e la sua indole bonaria e affabile anche se non abbastanza da trattenere l’occasionale urgenza di esprimersi, in circostanze controllate, con toni severi e perfino taglienti.

La seconda occasione di vicinanza con Mario fu quando, per così dire, mi trovai a calpestare i suoi passi a Siena. Ero un giovane e poco esperto assegnista e dal dipartimento allora diretto da Marcello de Cecco, carissimo amico e compagno di vita di Mario, mi arrivò la generosa offerta di tenere per supplenza il corso di Macroeconomia destinato a Mario Nuti che, però, nel frattempo era stato chiamato a dirigere il Centre for Russian and East European Studies presso l’Università di BIrmigham. Accettai con entusiasmo e chiesi qualche consiglio a Mario che più o meno mi disse: “non credo che tu abbia bisogno dei miei consigli. Vedrai, ti piacerà”. E, sì, mi piacque.

La terza occasione di vicinanza, questa volta prolungata e appropriatamente consumata, fu quando tornai al mio dipartimento di origine, alla Sapienza, nel 2001. Mario era lì da 8 anni, dopo le varie e importantissime esperienze a Birmingham, all’Istituto Universitario Europeo di Fiesole, a Bruxelles e, come consulente, in vari paesi est-europei. In quegli anni ebbi modo di verificare la correttezza dell’idea che mi ero fatto di lui a Cambridge, quasi 3 decenni prima. Gli anni avevano aggiunto dolcezza alla sua affabilità, di cui ho abbondantemente beneficiato, ma forse anche leggermente indebolito la sua capacità di trattenere l’urgenza di esprimere – sempre, o quasi, con ottime ragioni – la propria indignazione.

Metto le mani nel cesto dei miei ricordi, che si estendono anche al periodo successivo al suo pensionamento iniziato nel 2010, ed estraggo una conversazione sulla tendenza della ricerca a produrre pseudo-spiegazioni senza vera teoria. Poco dopo quella conversazione Mario mandò, non solo a me, un file pieno di esilaranti correlazioni spurie (come dire: immaginate cosa si potrebbe dire). Una era tra consumo pro capite di mozzarelle e numero di dottori di ricerca in ingegneria; un’altra tra consumo di margarina e divorzi nel Maine.

Dal cesto dei ricordi estraggo un’altra conversazione. Ad originarla fu una domanda: ma tu, che sei praticamente cresciuto a pane e socialismo, che socialista sei? Mi disse di essere un socialdemocratico moderno. Per lui voleva dire molte cose che, in particolare, non coincidevano affatto con quelle che vedeva realizzate nell’Europa, che chiamava austeritaria. Comunque, a me sembrò di poter sintetizzare il tutto così: secondo me sei un Keynesiano responsabile (che voleva richiamare il keynesismo delinquenziale di cui aveva detto Marcello de Cecco). Non credo trovò molto convincente quella mia rozza sintesi e anche per questo gli chiesi di scrivere per il Menabò un pezzo sulla socialdemocrazia moderna secondo Nuti, tema al quale fece cenno anche in una lezione a Varsavia del 2018. Quel pezzo non l’ho mai ricevuto. Ho ricevuto invece, qualche mese dopo, un messaggio in cui mi diceva di essere stato colpito da un ictus emorragico che lo avrebbe ‘incapacitato’ per almeno un anno. Prima che quell’anno scadesse ho ricevuto non l’articolo promesso ma alcune lattine dell’olio che produceva a Castiglion Fibocchi. Mi disse che era una gratuita redistribuzione di olio, una sorta di olio di cittadinanza.

Così ci siamo lasciati. Anzi con la parola conclusiva che metteva quasi sempre nelle sue e-mail e che prendevo come prova della sua perdurante affabilità: “Affettuosità”. Sì, Mario, “Affettuosità”.

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