Alle radici del costituzionalismo: la Corte, il Governo e la sentenza n. 70/2015

Giorgio Grasso torna sulla sentenza della Corte costituzionale relativa al meccanismo perequativo dei trattamenti pensionistici dopo che il Governo, con il d.l. 65/2015, ha dato attuazione ai principi in essa enunciati. Ricostruendo il dibattito che è seguito alla sentenza, Grasso illustra la propria posizione, alla base della quale c’è la convinzione che il giudizio costituzionale ha la sua più profonda ragione d’essere nella garanzia della rigidità della Costituzione e dei suoi principi supremi e intangibili, considerati limiti che la politica non può superare

A due mesi dal deposito della sent. 70/2015 della Corte costituzionale, dopo che il Governo, con il d.l. 65/2015, ha malamente (e forse in frode alla Costituzione: vedi anche Esposito, Rivista AIC/2015) dato attuazione ai principi enunciati in essa, e in attesa delle motivazioni della decisione sul blocco dei trattamenti economici dei dipendenti pubblici (di cui al comunicato stampa del 24-6-2015), è forte la consapevolezza che su questa vicenda si sia combattuta, ben oltre il tema dell’azzeramento del meccanismo perequativo per i trattamenti pensionistici di importo complessivo fino a tre volte il trattamento minimo INPS, per il biennio 2012-2013, una formidabile tenzone sul modo stesso di intendere il costituzionalismo come limite all’esercizio del potere e come strumento di legittimazione del medesimo potere.

Nei numerosissimi commenti sulla pronuncia in esame, tra chi ha contestato le sue risultanze, anche in raffronto alla sent. 10/2015, e chi invece ha plaudito a essa, così come nella messe di dichiarazioni di personaggi politici che hanno spesso cercato di fare il mestiere dei costituzionalisti, oltre che nelle parole di qualche ministro che avrebbe forse voluto addirittura sostituirsi alla Corte (il riferimento corre all’intervista del ministro Padoan, a ridosso della pubblicazione della sentenza, in cui si è rimproverata la mancanza della “massima condivisione dell’informazione”, auspicando che “in futuro l’interazione [tra Governo e Corte] sia più fruttuosa”), il livello di scontro tra le diverse posizioni in campo è stato per lunghi tratti sopra le righe (così Balboni, Forum Quad. Cost./2015) e forse è sfuggito a qualcuno che il giudizio costituzionale ha la sua più profonda ragione d’essere nella garanzia della rigidità della Costituzione e in modo più pregnante dei suoi principi supremi e intangibili.

Così nessuna decisione politica di un Governo sostenuto da una maggioranza parlamentare, fosse anche di un Esecutivo che, come il Governo Monti, ha operato in un contesto drammatico, assediato dalle Agenzie di rating e sotto il ricatto dei partner europei e dei finanziatori del debito sovrano, può permettersi di cozzare contro la Costituzione e valicare, per riprendere un passo della sent. 70, “i limiti di ragionevolezza e proporzionalità”, sacrificando “nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio” diritti fondamentali, come quelli connessi al rapporto previdenziale, che in ultima istanza rimandano proprio ai due principi supremi della solidarietà e dell’uguaglianza sostanziale. Il giudizio costituzionale, insomma, rappresenta esplicazione dell’idea stessa del costituzionalismo che, ai sensi del nostro testo costituzionale, richiede persino che l’esercizio della sovranità popolare avvenga nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Certo si potrebbe sostenere che a sua volta la Corte, con una legittimazione ben diversa da quella degli organi di indirizzo politico, ma non incompatibile con i fondamenti della democrazia, come ci hanno insegnato due secoli fa i Costituenti di Filadelfia, non può non trovare vincoli all’esercizio del suo potere. Tuttavia coloro che, proprio riguardo alla sent. 70, hanno contestato un’esorbitanza della Corte dai suoi confini (come Barbera, Rivista AIC/2015), suggerendo in proposito qualche rimedio per assicurare il controllo dei controllori (nelle proposte di riconoscere le opinioni dissenzienti dei giudici costituzionali e di prevedere che una legge possa essere annullata solo con una maggioranza qualificata), hanno in parte finito per indebolire i valori di fondo che la giustizia costituzionale rappresenta, in un sistema di poteri tutto squilibrato a vantaggio delle decisioni del Principe nazionale o dei rigoristi del bilancio europei. Ciò sembra valere sia di fronte a espressioni forti come “brutta pagina per la Corte” (Barbera) o ingiustizia della sent. 70/2015 (Morrone, Federalismi/2015), sia per le accuse mosse al Giudice costituzionale di essersi svincolato dal principio di responsabilità, affermando “un’ideologia dei diritti senza costo e senza limiti” (Ceccanti, Federalismi/2015).

Ma per cogliere ancora meglio il senso di quanto si vuole sostenere, è dalla disposizione dichiarata costituzionalmente illegittima, nella sent. 70, l’art. 24 c. 25 d.l. 201/2011, conv. con mod. dalla l. 214/2011, che si deve ripartire.

Ancor prima dell’inserimento in Costituzione del principio dell’equilibrio di bilancio, avvenuto nel 2012, richiamando frettolosamente la contingente situazione finanziaria, la disposizione citata ha bloccato per il 2012-2013 l’adeguamento all’inflazione per tutte le pensioni superiori a tre volte il trattamento minimio INPS, pensioni cioè pari a soli 1.217,00 Euro mensili. Una qualche misura di intervento sulle pensioni era stata richiesta anche dalla notissima lettera dell’agosto 2011, con cui i due Governatori della BCE, quello uscente Trichet e quello entrante Draghi, avevano dettato al Governo italiano l’agenda politica per affrontare la crisi. Indiscrezioni filtrate al momento dell’adozione del decreto del 2011 e riprese in queste settimane sembra(va)no indicare che il Governo Monti inizialmente avesse prefigurato addirittura di azzerare per due anni l’adeguamento di tutte le pensioni, senza alcuna differenziazione. Su questa disposizione sta la misura del rapporto tra la decisione di indirizzo politico, veicolata dal rispetto degli impegni presi a livello europeo, e il vincolo costituzionale insormontabile della garanzia dei diritti, che ha giustificato il dispositivo della pronuncia.

Qual è, infatti, il livello di sacrificio costituzionalmente sopportabile, nel nome di conti pubblici in ordine e dell’esigenza del salvataggio dell’Italia dal default, come si scrisse allora? Quanto un Governo può spremere se stesso, il proprio Paese e il proprio Parlamento, per poi pretendere che altri lo aiutino, come avrebbe dichiarato, nel settembre 2012, il Presidente Monti, intervenendo al Forum Ambrosetti di Cernobbio? Possono le persone e i loro diritti essere considerati come i limoni di Sicilia o i pomodori San Marzano, oppure c’è in Costituzione qualcosa di insopprimibile, anche più forte della stessa rigidità del testo costituzionale? La politica doveva fare il bilanciamento in quel difficilissimo autunno 2011 e sul tema delle pensioni esisteva già uno schema consolidato dalla giurisprudenza costituzionale che, considerando il trattamento pensionistico una retribuzione differita, aveva anche ammesso la possibilità di graduare, bloccandole temporaneamente, le forme di perequazione.

Ma “un equo contemperamento della pluralità di beni e interessi in gioco” (Niccolai, Il Manifesto/2015) non era fissare l’asticella al triplo del trattamento minimo INPS, quasi fosse un vanto, per non aver colpito comunque chi, con una pensione di poche centinaia di euro, lotta per il pane quotidiano, dovendo pesare attentamente anche quelle minime spese, la cui soddisfazione pure dovrebbe garantire un’esistenza libera dal bisogno; per conseguire tale obiettivo, piuttosto, si sarebbe dovuto modulare progressivamente la misura del sacrificio richiesto, tra livelli di pensione assolutamente incomparabili, determinando l’eventuale blocco integrale della perequazione automatica sulle pensioni di importo superiore a cinque volte il trattamento minimo INPS, cifra in grado forse di reggere allo scrutinio di costituzionalità.

La politica del 2011 non ha fatto tutto questo, nel nome di una visione che oggi, dopo la revisione costituzionale sul pareggio di bilancio, spinge a considerare tale principio “come una sorta di super-valore costituzionale” (così criticamente Salerno, Federalismi/2015), che si impone su tutto, incondizionatamente, comprimendo il godimento dei diritti.

Si è scritto che la Corte con la sent. 70 avrebbe proprio colpevolmente ignorato l’art. 81, difendendo a senso unico “diritti tirannici” (Ceccanti, Morrone); si è anche rilevato che sono stati gli avvocati dei pensionati d’oro a sollevare la questione di costituzionalità; ancora si sono criticati due diversi pesi usati dalla Corte, a confronto con altre vicende, dove pure era intervenuto un blocco, nel caso di progressioni stipendiali (come nella sent. 310/2013 sui docenti universitari: Barbera).

Poteva la Corte decidere diversamente, magari surrogando il legislatore con un’additiva di principio forse troppo sbrigativamente evocata (da Cassese, CorSera/2015)? Poteva con la forzatura della pronuncia sulla Robin Tax circoscrivere solo per il futuro gli effetti della sua decisione di accoglimento? Poteva, secondo le voci trapelate sulla pronuncia sul blocco della contrattazione collettiva per il lavoro pubblico, dichiarare un’illegittimità costituzionale sopravvenuta, di nuovo con decorrenza dalla pubblicazione della sentenza?

La verità è che, riaffermando vigorosamente lo statuto costituzionale dei diritti sociali, “contro la strisciante tendenza ad una loro decostituzionalizzazione”, come ha sottolineato Giubboni, su questa rivista, la Corte ha ricordato di essere l’organo che garantisce che la politica non possa mai tracimare i limiti costituzionali, e che fare il giudice costituzionale, alle radici del costituzionalismo, è ben diverso dall’essere il semplice “maggiordomo che cuce, a posteriori, pezze giustificative al legislatore, inventandosi, all’occorrenza, valori di nuovo conio” (Niccolai).

L’arguzia della metafora, che lascia impregiudicato se la Corte possa intervenire sul controllo della destinazione delle risorse, rispetto a date priorità costituzionali (Carlassare, Costituzionalismo/2013), richiede qualche cenno finale sul d.l. 65 che, in esordio, individua la propria finalità nel dare attuazione ai principi della sent. 70, “nel rispetto del principio dell’equilibrio dei bilanci e degli obiettivi di finanza pubblica, assicurando la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche in funzione della salvaguardia della solidarietà intergenerazionale”. La gradazione, tardiva, delle percentuali rispetto a cui riconoscere la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici (100%, 40%, 20%, 10%), in corrispondenza di diverse soglie di moltiplicatori del trattamento minimo INPS (tre, quattro, cinque, sei volte), riguardo agli anni 2012-2013, risulta piuttosto insoddisfacente, sia perché gli scarti tra le percentuali lasciano mere briciole a chi ha pensioni comunque non elevate (cinque-sei volte il minimo), sia perché il dispositivo della pronuncia pareva squisitamente demolitorio, non in grado quindi di lasciare margini di apprezzamento a un intervento retroattivo che abroga una disposizione, in realtà, annullata dalla Corte (così anche Esposito).

Che la soluzione escogitata sia davvero un tiro a palombella, destinato a insaccarsi nella rete, per impiegare un’altra metafora (Balboni), è forse un dato politicamente rilevante, ma costituzionalmente essa esprime, una volta ancora, solo la sostanza autoritaria del potere, che si ritiene libero di travolgere anche il giudicato costituzionale.

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