Analisi del caso spagnolo a venticinque anni dall’adesione all’U.E.

L´avanzare  della crisi greca era evidente da sufficiente tempo a tutti coloro che hanno seguito anche per sommi capi la vicenda; tuttavia l´Unione europea e, soprattutto la Germania, vera arbitra di ogni decisione, si sono  rivelate troppo lente   e quando la situazione è diventata pericolosa per tutti non si è trovata alcuna soluzione strutturale – la Germania ha impedito la nascita di un Fondo Monetario Europeo – e si sono solo stanziati soldi pubblici.

     È evidente come nel precipitare della  crisi gli speculatori abbiano giocato la loro parte, non hanno fatto di meno però  le agenzie di rating internazionale che, con le loro analisi ad hoc, più danni di così all´Europa non potevano fare, per la gioia di euroscettici, nazionalisti e altri grandi interessati. Tuttavia, com’è noto, dalla crisi è stata colpita non solo la Grecia, ma sono stati minacciati  direttamente anche altri paesi tra cui:, in particolare, Portogallo e Spagna.

     In questo articolo voglio soffermarmi su quest’ultimo paese per osservare come i trafficanti di moneta e di submoneta hanno preso di mira il paese iberico per incrementare a spese degli altri i loro alti guadagni speculativi (che fanno aumentare il PIL mentre l’economia ristagna) e la stampa mondiale fa loro coro, dimenticando ciò che in passato ha scritto su “lezione spagnola”, “miracolo spagnolo” o “modello spagnolo”. Ebbene proprio in questo quadro voglio ricordare che la Spagna è una delle grandi nazioni dell’Europa occidentale, con una lunga storia unitaria entro gli stessi confini e di un grande impero, con un sentimento diffuso di identità e orgoglio nazionale e un altrettanto diffuso senso dello Stato. É un Paese consapevole dei vantaggi ottenuti grazie all’integrazione europea. A dimostrazione di ciò si possono prendere in considerazione, ad esempio, i numerosi sondaggi che fanno registrare un forte sostegno all’integrazione europea da parte del popolo spagnolo.

     Nei quasi venticinque anni trascorsi da quando, il 12 giugno 1985 l’allora presidente del governo, il socialista Felipe Gonzáles, firmò il Trattato di Adesione alla CEE, il Paese iberico ha ottenuto miliardi di euro di contributi, qualcosa di molto simile ad un Piano Marshall. Tali aiuti sono serviti a creare occupazione e infrastrutture (si calcola che ogni dieci chilometri di autostrade e superstrade, quattro siano state costruite con le sovvenzioni europee). Dalla sua adesione fino al 2013, la Spagna sarà stato il maggiore utilizzatore di Fondi comunitari.

     Il cambiamento più visibile in questa situazione è riscontrabile anche nell’aumento della popolazione, al quale è corrisposto una crescita parallela dell’occupazione, nonostante negli ultimi mesi la crisi internazionale abbia portato il livello della disoccupazione a livelli decisamente alti. Questi cambiamenti nel modo di vivere si sono tradotti anche in una crescita della speranza di vita. Per Joaquín Almunia, già commissario europeo per gli Affari Economici e Monetari, la Spagna, l’Irlanda e la Finlandia sono i Paesi che meglio hanno approfittato dei vantaggi dell’ingresso nell’Unione. Ma l’importanza che l’integrazione comunitaria ha avuto per la Spagna, non ha solo valore nel campo economico o demografico, ma anche in quello politico, specie nella transizione verso la democrazia. Dalla fine degli anni Settanta, infatti, il Paese iberico ha superato in modo indolore la delicata fase del passaggio alla democrazia. La Spagna democratica si è costruita nello stesso tempo in cui si integrava all’Europa comunitaria. 

     Il governo spagnolo, con una classe dirigente cresciuta all’ombra della dittatura, ma con una forte vocazione internazionale, sollecitò già il 9 febbraio del 1962, nonostante la riluttanza di Franco a consentire alla domanda di adesione, una qualche forma di “associazione” alla Comunità economica europea che, come disse il ministro per gli Affari Esteri dell’epoca, fosse “suscettibile di arrivare un giorno alla piena integrazione”. Nel giugno del 1970 venne stipulato un accordo commerciale fra la Spagna e la Comunità. Ma nel settembre 1975, a causa di alcune condanne capitali inflitte ad oppositori del regime, il Parlamento europeo impose alla Commissione europea e al Consiglio dei Ministri di sospendere tutti i rapporti con la Spagna. Una volta eseguite le condanne, tutti gli ambasciatori degli Stati membri (ad eccezione di quello irlandese) vennero ritirati. In questa occasione il caudillo pronunciò un forte discorso sostenendo che quanto deciso dall’Europa obbediva “ad una cospirazione massonico-sinistroide della classe politica in combutta con la sovversione comunista-terrorista”. Tuttavia, queste parole ebbero un effetto contrario aumentando, nell’immaginario collettivo degli spagnoli, l’Europa come vero e proprio mito. Morto Franco e avviato il processo di democratizzazione, la Spagna chiese formalmente l’ammissione alla Comunità Europea nel luglio 1977, lo stesso anno in cui avvennero le prime elezioni libere e democratiche nel Paese.

     È stato scritto che se il franchismo era incompatibile con l’Europa comunitaria, che per questo motivo si convertì in simbolo di tutto ciò che il regime negava agli spagnoli, la futura integrazione europea esigeva di necessità l’instaurazione di un sistema democratico. Si rinforzarono così due binomi che avrebbero esercitato una grande influenza nel posteriore cambiamento di regime: quello di autoritarismo-isolamento internazionale, da una parte, e quello di democrazia-Europa, dall’altro”. In sostanza, dunque, se la consapevolezza dei vantaggi ottenuti grazie all’integrazione europea è un primo elemento per spiegare le motivazioni profonde dell’attaccamento del popolo spagnolo all’Europa, quello appena sintetizzato nelle parole di Charles Powell è senza dubbio il secondo motivo di questo forte europeismo.

     Durante la transizione, dunque, il modello europeo di democrazia aveva esercitato una forte attrazione sulla realtà spagnola, fino al punto di portare vari studiosi ad affermare che la costruzione di un sistema politico democratico e l’obiettivo della piena integrazione non erano stati che due lati dello stesso processo.

     In sostanza, guardando in maniera più generale al processo di trasformazione che la Spagna ha vissuto negli ultimi lustri, si può osservare, come ha saggiamente analizzato Víctor Pérez Díaz, che nel trascorrere di una generazione la Spagna si è trasformata in un’economia capitalista moderna, con uno Stato democratico-liberale e una società pluralista e tollerante, ampiamente secolarizzata sulla maggior parte dei temi politici ed economici, basata su principi quali il rispetto della libertà individuale e i diritti umani, sui quali si fonda la stessa Europa a cui ha a lungo aspirato. Tutto ciò è stato possibile grazie ad una profonda trasformazione culturale e istituzionale. L’esperienza spagnola sembra mostrare che il successo del processo di transizione e consolidamento della democrazia dipenda da due fattori. In primo luogo, per dirlo con le stesse parole di Pérez Díaz, «depende del éxito de un proceso previo de emergencia de tradiciones “democráticoliberales” en la sociedad civil»; in secondo luogo da «la naturaleza de los simbolismos políticos (tales como ritos, mitos, héroes, dramas o iconos) y de los mapas cognitivos, idiomas culturales y orientaciones morales encarnados en tale símbolos, que están a disposición de, o son “inventados” por las elites y la población en su conjunto».         

     Se si volesse fare una breve comparazione con l’Italia è facilmente riscontrabile l’invidiabile record di stabilità politica della Spagna. Nei venticinque anni che seguono le elezioni post-costituzionali del 1979, infatti, la Spagna ha visto alternarsi nove governi e cinque primi ministri. In quattro elezioni su otto, poi, il primo partito è uscito dalle urne con la maggioranza assoluta dei seggi, mentre tutti i governi sono stati monopartitici, unico caso nell’Unione europea dei quindici, insieme alla Gran Bretagna. Ma anche nell’utilizzo delle opportunità che l’Europa ha sempre messo a disposizione dei Paesi Membri è facilmente riscontrabile come la Spagna abbia molto più saggiamente utilizzato tali occasioni di quanto non abbia fatto, purtroppo, il nostro Paese. Ciò è senza dubbio dovuto a tutta una serie di fattori di carattere politico, istituzionale, culturale, sociale, e non solo che hanno giocato a vantaggio del Paese iberico che, nel giro di un ventennio, è riuscito a lasciarsi alle spalle un regime autoritario e a raggiungere elevati standard economici e sociali. 

     Dal punto di vista economico l’adesione comportò una serie di problemi che nell’immediato crearono una serie di difficoltà economiche, come la soppressione delle imposte sulle importazioni e altre conseguenze della liberalizzazione del commercio europeo. Nei primi anni dall’ingresso la Spagna soffrì così un grave deficit nella bilancia commerciale, per un aumento delle importazioni superiore a quello delle esportazioni. A tale deficit fecero da argine l’accresciuto volume degli investimenti stranieri, che favorirono la modernizzazione tecnologica del Paese e la complessiva crescita economica, alla quale giovò anche la favorevole congiuntura economica internazionale. Per ultimo poi, a partire dal 1988, la Spagna poté godere dei Fondi strutturali per progetti di sviluppo e dei Fondi di coesione della Comunità europea.

     In Spagna, durante gli anni Sessanta, l’Europa è stato un “objeto compartido” tra il regime franchista e la opposizione alla dittatura. Secondo alcuni studiosi, per come il regime si stava evolvendo, l’integrazione europea, ad un certo punto, fu considerata come un mezzo e non come un fine desiderabile per se stesso. Questo soprattutto nel momento in cui cominciò a farsi sempre più forte nell’immaginario collettivo degli spagnoli l’equazione: Europa = Benessere = Democrazia, e quando l’unanime ricerca dell’Europa, durante la Transizione, permise di rompere l’isolamento politico e l’autarchia mentale sia dal punto di vista sociologico che culturale. L’adesione, in sostanza, rispondeva all’esigenza non soltanto di chiudere definitivamente il capitolo dell’isolamento internazionale subito dal Paese durante il quarantennio franchista, ma anche – come ricorda Powell – di superare quella che il filosofo Ortega y Gasset aveva definito la tibetización della Spagna, ovvero la sua esclusione dalle principali correnti di pensiero e di sviluppo europee. La firma del Trattato di Adesione, il 12 giugno 1985, fu celebrata dalla società spagnola come uno dei grandi avvenimenti che cambiano il ruolo della Nazione. La notizia del “ya estamos en Europa” monopolizzò i mezzi di comunicazione, la Spagna aveva raggiunto l’obiettivo più importante: entrare nel club più selezionato del Vecchio Continente. Si può affermare che le resistenze e le difficoltà che il Paese iberico ha dovuto affrontare e superare per poter entrare nella “casa comune europea”, hanno contribuito a tener alta la tensione e con essa le aspettative degli spagnoli, contribuendo con ciò anche al radicamento degli ideali europeisti.    

     La Spagna, con circa trentanove milioni di abitanti, era il quinto Paese più popoloso dell’Europa occidentale, e ciò le permetteva di avere un ruolo intermedio tra i membri della Comunità. Si potrebbe dire che era il piccolo dei grandi, cioè, dietro Germania, Regno Unito, Francia e Italia, e il grande fra i piccoli, avanti a Olanda, Belgio, Lussemburgo, Danimarca, Irlanda, Grecia e Portogallo. La sua rappresentazione nelle istituzioni comunitarie, al momento della sua adesione, sarebbe stata di due dei diciassette membri della Commissione, sessanta dei 518 deputati del Parlamento Europeo, uno dei tredici giudici presso la Corte di Giustizia delle Comunità Europea, otto voti su cinquantaquattro nel Consiglio dei Ministri e vent’uno rappresentanti all’interno del Comitato Economico e Sociale.

     Nel Trattato di Adesione era previsto un tempo di due anni perché i due nuovi Paesi membri (Spagna e Portogallo), potessero celebrare, mediante suffragio universale, le elezioni del Parlamento europeo: in Spagna queste si svolsero il 10 giugno del 1987. Nel 1989, poi, lo spagnolo Enrique Barón Crespo fu eletto presidente del Parlamento Europeo rimanendo in questa carica durante il periodo che va dal luglio 1989 al gennaio 1992. Il peso ispanico nella CEE dunque, nel momento del suo ingresso, era dell’11%, il che non era male considerando che il Prodotto Interno Lordo del Paese era il 6,5% di quello dell’intera Comunità, e che la sua popolazione costituiva il 12% dell’intera popolazione comunitaria.

     Circa l’impatto che la Spagna ebbe sulla Comunità possiamo dire che questa alterò la politica europea almeno in tre direzioni: in primo luogo, insieme con il Portogallo, veniva a rafforzare la presenza latina e mediterranea nella CEE; con un livello di reddito economico più basso della media europea veniva ad aumentare il numero dei Paesi più poveri insieme a Grecia, Portogallo e Irlanda; in terzo luogo, la sua posizione filo-europeista e a favore dell’integrazione andava ad alterare la bilancia in favore di un concetto di Europa federale. Difatti, nel lungo dibattito sopra il concetto di unificazione europea, che divideva i membri della Comunità dai tempi della sua fondazione, si trovavano da una parte Germania, Italia, Olanda, Belgio e Lussemburgo che difendevano la tesi di un’“Europa Sovranazionale”, dall’altra parte, invece, vi erano Regno Unito, Danimarca e Grecia favorevoli ad un’“Europa delle Nazioni” o, per dirla con De Gaulle, un’“Europa delle patrie”. Francia e Irlanda si trovavano nel mezzo, senza schierarsi chiaramente per una delle due correnti di pensiero ma, a seconda delle circostanze, tendendo una volta per l’una e una volta per l’altra. La Spagna, pertanto, andava ad inclinare la bilancia a favore dello schieramento dei Paesi che premevano per un’Europa che andasse oltre la somma delle singole Nazioni.   

     Con il 1° gennaio 1986 cominciava, pertanto, una nuova era nelle relazioni fra Spagna ed Europa. A quella data il Paese iberico si trovava in buone condizioni politico-economiche: la democrazia si era consolidata e le tensioni della Transizione erano già state superate. Inoltre, il PSOE governava reggendosi su una larga maggioranza parlamentare e su un forte appoggio popolare. In virtù delle norme contenute nel Trattato di Adesione, le autorità iberiche procedettero ad una riduzione graduale, tra il 1986 e il 1992, degli ostacoli esistenti nel commercio estero fino a conseguire, dopo il passaggio dal Mercato Comune al Mercato Unico nel 1993, la totale liberalizzazione degli intercambi con il resto dei Paesi membri della UE. Infine, con la creazione dell’Unione Monetaria nel 1999, sotto la guida politica di José María Aznar, la Spagna condivise insieme ad altri undici Paesi una moneta e una Politica Monetaria unica, il che rese ancor più forti le relazioni commerciali con le economie del resto degli Stati membri. Per questa ragione, l’identità europea della Spagna è, e sarà sempre, inevitabilmente legata alle necessità e all’impegno di cercare di orientare attivamente l’UE verso politiche che rinforzino, in tutti gli ambiti, la dimensione esterna dell’Unione (e di conseguenza, pertanto, anche del Paese iberico). Rivendicare che l’UE assuma un ruolo più attivo in determinate aree non deve essere visto solo in termini delle necessità speciali iberiche, ma nell’Europa ampliata, gli interessi della Spagna nel Mediterraneo o in America Latina o con riferimento al controllo delle frontiere, dei flussi migratori e della delinquenza organizzata, devono essere considerati tanto profondi, ineludibili e irreversibilmente europei come le relazioni con la Russia, la politica verso il Medio Oriente o le relazioni con gli Stati Uniti.   

     Il processo di europeizzazione della politica estera spagnola ha fatto si, come già evidenziato, che il Paese abbia apportato idee e risorse al disegno e alla gestione dei problemi internazionali, e abbia partecipato attivamente a fori multilaterali, guadagnando un crescente prestigio internazionale dopo un lungo periodo di isolamento. La Spagna si è inserita completamente nella dimensione multilaterale, fondamentalmente europea, nella quale i suoi interessi esteri hanno lasciato di essere definiti esclusivamente in chiave nazionale. La Spagna moderna, perciò, non si può intendere oggi senza l’Europa e la stessa Unione deve riconoscersi in questo grande successo guardando con maggior fiducia al proprio futuro, accettando ed affrontando le difficili sfide che, come quella in atto in queste settimane, si presenteranno davanti al suo cammino.        

     Alla Spagna può guardarsi anche relativamente a quelle che sono le sue “vocazioni plurime”. La vocazione imperiale, quella nazionale e le autonomie, sono elementi distintivi che il più grande fra i Paesi iberici porta con se, e che possono essere definiti i “caratteri della Spagna”. È a questi “caratteri” che è possibile guardare per comprendere quelli che sono stati gli elementi necessari e i punti di forza che hanno permesso alla Spagna di prosperare dopo il suo ingresso nelle Istituzioni comunitarie. Questi “caratteri”, segnano l’indole di uno Stato e influiscono inevitabilmente sul suo “stare” in Europa, cioè sulla sua condotta politica all’interno della cornice comunitaria, oltre che di quella internazionale.    

     Il 2007 è stato un anno di celebrazioni nel calendario europeo. I Trattati di Roma, che misero le basi di un processo che è sfociato nell’attuale Unione Europea, hanno compiuto cinquant’anni, ma allo stesso tempo per la Spagna si sono celebrati i trent’anni della presentazione, il 28 luglio del 1977, della richiesta di adesione alle allora chiamate Comunità Europee. Molte cose sono successe e cambiate da allora in Europa e nella stessa Spagna.

     In Europa, si è triplicato il numero di membri, passando dagli allora nove agli attuali ventisette. Sono state trasformate quelle che originariamente erano tre Comunità di carattere economico in un’entità, l’Unione Europea, con ampie competenze e con una cooperazione rafforzata con i suoi Stati membri. È stato possibile prosperare, come mai era accaduto prima, in una cornice aperta di stabilità e di futuro dei quali i primi beneficiari sono l’insieme dei cittadini europei. È ciò è accaduto per la prima volta nella nostra Storia di europei. Non esiste nessuna altra regione del mondo che può fare mostra di un livello di libertà, prosperità, giustizia e integrazione sociale che raggiunge un grande numero di cittadini come quelli che oggi l’Europa è riuscita ad integrare dal dopoguerra. Tutto questo all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale poteva sembrare un’utopia, ma forse, come diceva il poeta, scrittore, storico e politico francese Alphonse de Lamartine, “l’utopia non è altro che una verità prematura”. In questo senso, oggi più che mai, c’è da sperare che le attuali deboli autorità europee, che dovrebbero fronteggiare l’attuale crisi in maniera pià unitaria e decisa, non dimentichino l’importante eredità che esse rappresentano, ritornando a guardare all’Europa con la lungimirante visione dei Fondatori.   

     La Spagna, da parte sua, è stata capace di avvalersi di tutte le nuove opportunità, come membro a pieno diritto dell’Unione Europea, per realizzare sicuramente la più spettacolare trasformazione di tutta la sua Storia. Spettacolare perché, se è vero che il Paese iberico ha scritto grandi pagine nel passato, soprattutto nell’età imperiale, è ancor di più vero che mai fino ad allora un numero tanto alto di spagnoli è riuscito a condividere i benefici di un così grande successo. Benefici che, come dovrebbe essere ormai chiaro, non sono solo di natura economica. Ciò è tanto vero che a conclusione di un incontro privato, Barón Crespo mi dice, in riferimento al successo della Spagna: “no lo plantee solo como una operación economíca…”.

     Un elemento senza dubbio centrale di un’integrazione che ha avuto un così positivo esito è stato, senza alcun dubbio, il costante consenso politico e sociale sopra la vocazione europea che ha fatto della Spagna un socio d’avanguardia, solido, attivo e degno di fiducia. Per l’ex Presidente del Parlamento Europeo “España ha aportado un compromiso político serio, es decir, nosotros no entramos solo para tener ayudas, nosotros hemos aportado desde el principio elementos como, por ejemplo, la ciudadania europea que pedia el Parlamento, yo como presidente del Parlamento la pedia, pero quien la introduce nel Tratado de Maastricht fue Felipe González, que la entroduco en la agenda…”.    

     La politica estera iberica è stata sempre basata, da quando esiste la democrazia, nella convinzione che la Spagna è un Paese occidentale, europeo e atlantico, fermo difensore delle libertà politiche ed economiche, della stessa democrazia, dei diritti umani e della certezza del diritto. Tutto ciò si concretizza in primo luogo all’interno dell’Unione Europea che, come è stato più volte detto, rappresenta l’ambito primario dell’azione estera del Paese. Il completamento dell’allargamento ad Est, il nuovo Trattato di Lisbona che ha portato importanti modifiche istituzionali, insieme allo sviluppo della Politica Estera di Sicurezza e Difesa, così come la Cooperazione Giudiziale e Penale più stretta, implicano nuove sfide per la Spagna. Il Paese della dinastia Borbone sarà infatti chiamato ad elaborare una politica europea coerente ai suoi interessi nazionali e alle sue plurime “vocazioni”, chiaramente definita e adattata alle nuove esigenze e aspirazioni di una società che, dopo quanto fino ad ora detto, possiamo dire con convinzione abbia raggiunto con successo la sua integrazione in Europa; quella “europeizzazione” tanto cara al filosofo Ortega y Gasset, e con lui a gran parte della migliore tradizione liberale e umanista spagnola del secolo XX.  

     Il Trattato di riforma dell’Unione Europea firmato a Lisbona è stato un Accordo che ha permesso all’Europa di uscire da una pericolosa crisi politica e istituzionale, la cui origine era stata causata dal rigetto del Trattato di Roma che istituiva una Costituzione per l’Europa, da parte di due grandi Paesi fondatori: la Francia e l’Olanda. In quei momenti di difficoltà nel processo d’integrazione, sarebbe forse stato utile leggere alcuni passaggi del “Diario europeo” di Altiero Spinelli, scritto nel 1955, poco dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa. Scriveva Spinelli: “Da un anno a questa parte io e Monnet stiamo tirando la carretta come due somari cocciuti. Lui sperando di ottenere dai governi una nuova iniziativa, io nella speranza di ottenere dai movimenti un nuovo slancio… Entrambi decisi a non mollare, perché entrambi convinti che se teniamo duro i fatti si piegheranno e si adatteranno alla nostra volontà; entrambi circondati da ironico scetticismo… Eppure vinceremo noi.”. La storia della costruzione europea ci insegna come questa sia sempre stata caratterizzata dalla necessità di fare compromessi, talvolta anche dolorosi, per lo sviluppo di quella unità che recentemente, a fronte della crisi greca, è sembrata vacillare, anche per l’assenza di un governo politico europeo capace di rispondere unitariamente ed efficacemente ai problemi, e per l’assenza di chiare regole comuni nei vari campi.   

     Il nuovo Trattato di Lisbona, che per la Spagna è stato firmato dal Presidente del Governo José Luis Rodríguez Zapatero e dal ministro degli Esteri Miguel Ángel Moratinos,  nonostante alcune rilevanti riserve, tra cui il rinvio previsto per la modifica delle regole di voto e per l’ampliamento del voto a maggioranza, ha portato con se alcuni progressi istituzionali.   

     In questo nuovo contesto la Spagna, nei prossimi anni, sarà chiamata a consolidare la sua posizione all’interno delle Istituzioni europee e la sua partecipazione nelle politiche del “nucleo” o dei “nuclei duri” che, ci si augura, si svilupperanno. Dovrà infatti partecipare come membro attivo a tutte quelle iniziative di integrazione, denominate “cooperazioni rafforzate”, che coinvolgeranno i suoi interessi, in aree come la difesa, l’immigrazione, la politica estera, la sicurezza interna ed estera, le politiche di investimento e di sviluppo, l’energia, l’ambiente, il cambio climatico, ecc. In un mondo regolato dalle conseguenze della globalizzazione economica e politica, solo quelle economie che riusciranno ad essere più competitive potranno occupare funzioni di responsabilità nello scenario internazionale, e rispondere efficacemente alle sfide dell’espansione dei mercati. Così come l’irruzione nello scenario internazionale di nuovi e potenti attori che, come Cina, India, Russia o Brasile, stanno trasformando i modelli tradizionali di crescita economica, della produzione industriale e della distribuzione commerciale. Sarà necessario proiettare l’azione politica della Spagna prendendo in considerazione le nuove prospettive globali. Come è noto, la politica economica e commerciale, come anche la linguistica e la culturale, sono porzioni centrali della politica estera della Spagna. Inoltre l’integrazione delle economie nazionali nell’economia internazionale è la formula più efficace di sviluppo e benessere per i popoli. Economie aperte e prospere sono la migliore forma per stimolare le relazioni pacifiche fra le nazioni. Questo vale per l’Africa, per i Paesi iberoamericani e altre parti del mondo, come sta già succedendo in Asia e nel Pacifico.

     Come la storia ci avvalora, il processo d’integrazione è prima di tutto uno sviluppo dinamico di realizzazioni per tappe. L’attuale crisi ci fa sempre di più essere convinti che oggi, in Europa, è certamente necessario ricreare una nuova leadership collettiva, fermamente europeista, che prenda atto del fatto che l’epoca del “consenso permissivo”, della delega della costruzione europea a un’élite è finito da tempo, e che si impegni con forza per convincere i governi a mobilitare i propri cittadini in favore del rilancio dell’Europa. Perché l’Europa, come questi più di cinquant’anni di pace e prosperità nel Vecchio Continente ci dimostrano è, e rimane, la nostra unica speranza. L’unità europea, nei suoi primi passi, quasi forzata dalla volontà di Alcide De Gasperi, Robert Schuman e Konrad Adenauer, è ancora oggi l’unica realtà che può consentire dignità, peso politico e stabilità economica ad un’Europa che già si trova di fronte alla forte pressione delle sterminate popolazioni asiatiche e latinoamericane, decise a conquistare un loro ruolo nella nuova dimensione mondiale. Alle novità e alle complessità che potranno porsi davanti al cammino, l’Unione Europea, a differenza di quanto sta accadendo in questi giorni, dovrà dimostrare di avere un’unità politica forte capace di rispondere ai problemi che le si presenteranno. La forza del progetto europeo, dimostrata durante i suoi primi cinquant’anni, ci fa confidare come Jean Monnet, sul fatto che “l’Europa si farà tra le crisi e che l’Europa sarà esattamente la somma delle soluzioni che daremo a queste crisi”.    

     A Lisbona, il 14 dicembre 2007, nel tentativo di dare una risposta alle domande dei cittadini, di assicurare la continuazione del progresso economico, la stabilità sociale, lo sviluppo sostenibile e la lotta contro il cambio climatico, è stato costituito il cd. “Gruppo dei Saggi”. Questo Gruppo di Riflessione, alla cui presidenza il Consiglio Europeo ha designato un convinto europeista quale è l’ex presidente del Governo spagnolo Felipe González, risulta formato da personalità di riconosciuto prestigio, provenienti dal mondo politico ed accademico, il cui obiettivo fondamentale sarà quello di tracciare le linee maestre per garantire la “modernizzazione del modello europeo”. Il Comitato alla fine dei sui lavori dovrà elaborare un documento che dia risposte alle sfide che l’Europa si troverà di fronte negli anni 2020-2030 e di cui la crisi in atto anticipa la portata.     

     Nei prossimi anni, dunque, la priorità per l’Europa, e per la Spagna, dovrebbe essere quella dell’applicazione e dello sviluppo del nuovo Trattato di Lisbona in misure concrete che siano in grado di rispondere pienamente alle preoccupazioni dei cittadini. Di fronte a questi appuntamenti, che si auspica possano essere ricchi di fruttuose novità per il processo d’integrazione, il Governo di Madrid potrà dare un importante contributo. Con questi strumenti la Spagna avrà un’occasione in più per confermare la scommessa, iniziata ormai già venticinque anni fa, e fino ad ora perfettamente riuscita, di stare dentro l’Europa e contribuire attivamente al suo sviluppo.

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