Diritti fondamentali al volgere del Millennio

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… la filantropia, o amore universale e dell’umanità, non fu proprio mai né dell’uomo né de’ grandi uomini, e non si nominò se non dopo che, parte a causa del Cristianesimo, parte del naturale andamento dei tempi, sparito affatto l’amor di patria, e sottentrato il sogno dell’amore universale (ch’è la teoria del non far bene a nessuno) l’uomo non amò veruno fuorché se stesso…

(Giacomo Leopardi)

L’anno Duemila sarà forse ricordato dai posteri come qualcosa di più di un simbolo in questa nostra civiltà occidentale.

A partire dalle conquiste dei cittadini greci, dalle lunghe e faticose lotte degli schiavi in tutto il mondo per l’abolizione della loro condizione di esseri umani di seconda classe, dalla liberazione dalla servitù della gleba, dalle lotte degli eretici per ottenere un riconoscimento che non fosse quello della graticola, fino agli scioperi e alle manifestazioni dei lavoratori, alle battaglie delle donne e degli omosessuali; il mondo che ora definiamo industrializzato ha visto importanti gruppi sociali ottenere il riconoscimento dei loro diritti dopo anni, secoli, di battaglie, dopo essere stati sterminati e impotenti per generazioni.

In questi giorni i governi europei hanno deciso, effetto forse del fascino giubilare, di invertire il corso della storia. Hanno messo al lavoro i loro migliori specialisti per stilare una esauriente carta dei diritti fondamentali di noi cittadini europei. Un importante lavoro che nessuno aveva domandato.

Ma c’è di più. Da più parti si ventila l’ipotesi di referendum nazionali sulla suddetta carta. In pratica, al volgere del Millennio i diritti sono qualcosa da cui gli stessi cittadini si devono difendere con tutti gli strumenti disponibili. Magari vedremo i cittadini danesi scappare a gambe levate dal pericoloso mostro ripetendo il no di poco tempo fa alla moneta unica.

Esiste dunque questo paradosso cui bisogna trovare una risposta.

Per dare un senso alle affermazioni precedenti occorre prima di tutto considerare perché ci troviamo di fronte al paradosso di diritti ‘gettati’ dai governi in pasto a cittadini indifferenti. La mia risposta è essenzialmente che non esiste alcun paradosso: i cittadini europei sono indifferenti al tema dei diritti perché questi sono già efficacemente tutelati dagli stati facenti parte dell’Unione e dal sistema comunitario.

Il trattato di Parigi e quello di Roma non fanno esplicita menzione alla protezione dei diritti umani fondamentali. Tuttavia l’Unione, prima Comunità, è stata nel corso della sua storia ‘costretta’ ad affrontare il nodo della protezione dei diritti fondamentali. E’ stata costretta a farlo da quando la Corte di giustizia delle Comunità ha messo a punto la sua giurisprudenza definendo i principi della supremazia delle leggi comunitarie e del loro effetto diretto[1] sul cittadino. Tali principi non sarebbero stati sostenibili, non sarebbero stati riconosciuti dalle nazioni europee, senza essere incardinati in un sistema di garanzie legali e giuridiche che vi ponessero un freno.

La Corte di Lussemburgo ha dunque elaborato un approccio alla tutela dei diritti fondamentali che tiene conto dei diritti sanciti nelle costituzioni nazionali nonché nella Convenzione europea dei diritti umani, ma segue un suo criterio particolare che si fonda sull’interesse generale:

The introduction of special criteria for the assessment stemming from the legislation or constitutional law of a particular Member State would, by damaging the substantive unity and efficacy of Community law, lead inevitably to the distruction of the unity of the Common Market and the jeopardizing of the cohesion of the Community.

Così com’è impostata, la difesa dei diritti fondamentali postula un cittadino europeo dalla doppia identità. La sua identità nazionale viene salvaguardata da una difesa dei diritti da parte delle istituzioni nazionali, mentre la sua identità di cittadino dell’Unione gli vede riconosciuti una serie di diritti garantiti dalle istituzioni comunitarie. A ciò va aggiunto che il Trattato sull’unione europea fa esplicita menzione nell’articolo 6 alla difesa dei diritti fondamentali.

Seppure la modalità della difesa dei diritti fondamentali può sembrare complessa, non si può certo dire che il cittadino comunitario sia carente in diritti o in balia di poteri incontrollati.

Perché dunque il Consiglio europeo di Colonia del 3-4 giugno 1999 ha adottato una ‘decisione’ in merito alla stesura di una Carta dei diritti fondamentali del cittadino europeo? Perché tanto sforzo per costituire una Convenzione incaricata della redazione di questa Carta? Una Convenzione che ha lavorato con celerità e ha prodotto un documento in attesa di giudizio al prossimo Vertice di Nizza di dicembre.

La mia spiegazione è duplice. L’attenzione ai diritti fondamentali, i riflettori puntati su questo retaggio di lotte passate, maschera i veri problemi che l’Unione deve affrontare: l’elaborazione di una Costituzione per l’Europa intesa come un nuovo patto fra i cittadini delle nazioni e le istituzioni europee, nonché la definizione del modello economico e sociale che viene auspicato per lo spazio europeo. Mentre può risultare relativamente facile far passare senza suscitare clamori e subbugli in tutta Europa un documento sui diritti, un elenco di articoli già sottoscritti, un dibattito sulla Costituzione dell’Unione risulterebbe drammatico, lungo, porrebbe in discussione la stessa democraticità della costruzione comunitaria. Va notato a margine che lo stesso originale sistema della Convenzione in cui sono rappresentati i principali organi comunitari nonché i parlamenti nazionali prefigura un organo destinato a compiti più elevati.

Il dibattito politico di quest’anno sta a dimostrare chiaramente quanto detto sopra. Sono intervenuti, tra gli altri il ministro, tedesco Fischer, il presidente francese Chirac, il presidente italiano Ciampi, il presidente della Commissione europea Prodi, il primo ministro inglese Blair, tutti parlando del futuro dell’Unione, tutti accennando di sfuggita alla Carta ma centrando la loro attenzione ad una Costituzione per l’Europa. Nel recente intervento del commissario Antònio Vitorino su La Carta de Derechos Fundamentales y el Futuro de la Uniòn Europea[2] l’unico concetto del lungo discorso evidenziato in grassetto è ‘la dimensiòn constitutional’. Un recente numero di the Economist titolava “our Consitution for Europe” e inseriva come allegato un documento prodotto dagli esperti legali vicini al settimanale britannico. Nell’ultimo intervento del leader dei verdi europei Daniel Cohn-Bendit nella stessa pagina si fa riferimento otto volte ad una Costituzione e solo una alla Carta. Ma non si tratta solo di una questione di numeri.

Il problema è che accogliendo, sebbene gradualmente, una parte d’Europa che per cinquant’anni ha vissuto un sistema politico e sociale diverso dal nostro, ci troviamo nella necessità, come in un modello di filosofia dialettica, di definire noi stessi. Cos’è l’Europa, qual’è la sua Costituzione? La necessità di codificare i nostri diritti non è che un simbolo di un problema più grande.

Wieler cita in inglese un passo del Vecchio Testamento, un passo che lui chiama ‘momento costituzionale’, laddove si dice:

And Moses wrote all the words of the Eternal…And took the book of the Convenant and read in the audience of the people: And they said, All the Eternal hath spoken we will do, and hearken”[3]

Questo sistema di fondazione di una comunità è evidentemente qualcosa di lunga durata nella tradizione Occidentale che vale in parte anche per la creazione delle Comunità Europee dopo la Seconda guerra mondiale. A una società in crisi e devastata dalla guerra, si pensi in parallelo alla tragedia del popolo ebraico in fuga dall’Egitto, viene proposta la visione di futuro di pace basato sull’accettazione di alcune regole di convivenza; cosa potevano fare gli europei se non accettare tali regole e solo in un secondo tempo pensare a caricarle di linfa vitale.

I governi europei si trovano a confrontare, in questi anni dopo la caduta del muro di Berlino, in questi stessi giorni, un nuovo ‘momento costituente’. Emerge la necessità di un nuovo patto costituzionale fra il popolo europeo e le sue istituzioni comuni. Si tratta di legittimare, forse per la prima volta, decisioni prese nell’immediato dopoguerra sotto il duplice impulso della fame e del pericolo di espansione dell’Unione Sovietica. Il problema è che non si tratta di un popolo europeo con le spalle al muro, vittima della guerra e della fame, memore di massacri, ma di un popolo che vive in uno stato di benessere come mai prima d’ora.

Nelle menti dei politici, nonché di tutti coloro che in un modo o nell’altro meditano il dibattito sul futuro dell’Europa si va riproponendo la discussione aperta in Germania sulla ratifica del trattato di Maastricht. Si poneva allora la questione del prevalere o meno della legislazione europea su quella nazionale e in particolare su chi fosse giudice della ‘competenza delle competenze’ fra legislazione nazionale e comunitaria: se la Corte costituzionale tedesca o la Corte di giustizia europea. Un dilemma che sembrava doversi risolvere nell’ambito tecnico-giuridico ha assunto un significato ben più ampio coinvolgendo un eminente giurista tedesco, Dietmar Grimm, e uno dei più popolari filosofi tedeschi, Jurgen Habermas. L’Europa aveva bisogno di una nuova costituzione?[4]

Il dibattito ha chiaramente assunto carattere filosofico. Laddove Grimm ammoniva contro l’imposizione di un’astratta cittadinanza europea e delle sue istituzioni imposte, nel timore che una Costituzione europea che non fosse l’espressione e il prodotto vitale di un popolo europeo avrebbe unicamente creato una nuova classe di burocrati sovranazionali senza rapporti con la società e nemici della democrazia. Habermas rovesciava la questione mettendo sotto accusa l’idea di una cittadinanza fondata sull’esistenza di un non meglio definito, peggio ancora se definito etnicamente, popolo europeo e valorizzava la capacità creativa delle norme, in modo speciale la capacità creativa dei diritti incardinati in una costituzione. In poche parole nel pensiero di Habermas se un popolo europeo non c’è bisogna inventarlo, non ultimo valendosi delle possibilità di coinvolgimento ideale offerte dall’adozione di una Costituzione.

Il dibattito sulla Carta dei diritti cela questo ben più ampio dibattito sulla legittimità della costruzione europea, aggiungerei anche sul suo modello socio-economico. Questo è ben dimostrato dal fatto che gli articoli più discussi durante l’elaborazione della Carta sono stati quelli sui diritti sociali. Solo i diritti sociali (forse insieme a quelli sul patrimonio genetico) sono in grado di suscitare un vero dibattito, dividere governi e poteri economici, gli stati che per tradizione si rifanno al pensiero di Smith da quelli che hanno una tradizione di interventismo.

Robert Batinter[5], che è stato ministro della Giustizia in Francia nonché presidente della Corte Costituzionale francese ammonisce che se la Carta “devait marquer un renoncement à la reconnaissance dans l’Union des droits sociaux que la France tient pour fondamentaux, alors la charte constituerait, non pas l’affirmation d’un progrès mais l’expression d’un recul au regard des nos valeurs fondamentales”. L’animosità suscitata dal tema diritti sociali mostra che questi sono al cuore, insieme alla necessità di una Costituzione, del vulcano eccitato dell’integrazione europea. Il dibattito di ‘Etica ed Economia’ sul futuro del Welfare state investe il tema della costituzione economica dell’Europa.

Non bisogna diluire il tema dei diritti fondamentali nell’oceano dei diritti di un’umanità che come tale non esiste, memori del timore del Leopardi verso un generico amore per il prossimo che altro non vuol dire se non la rinuncia ad agire, il ritorno al proprio particolare di chi non vede nell’uomo un animale sociale. In questo senso mi sembra positiva la decisione di stilare una lista dei diritti del cittadino europeo, contributo alla creazione di un sentimento di patria europea, per infondere linfa vitale a una costruzione che si è evoluta in gran parte nell’incoscienza generale.

Dobbiamo però renderci conto che viviamo il momento della definizione di una nuova patria dai confini differenti dalla nostra patria nazionale, una patria che si viene modellando nella dialettica con i paesi dell’Europa dell’Est, che deve produrre una Costituzione come nuovo patto con i cittadini dell’era del benessere, che deve indagare il modello economico e sociale da perseguire. La costruzione europea sembra ora una chiassosa processione che muove senza sapere verso quale chiesa spiegando alto lo stendardo dei diritti fondamentali e sperando che questo porti consiglio.

[1] Questi principi sono stati affermati negli anni 60 principalmente nelle sentenze van Gend and Loos e Costa v. Enel

[2] Antonio Vitorino La Carta de Derechos Fundamentales y el futuro de la Union Europea, conferencia de Clausura, Madrid, 20 ottobre 2000

[3] J.H.H. Weiler op.cit.

[4] Contentuo in AAVV Europe 1996

[5] Le Monde, 20 giugno 2000

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