I neobrandeisiani presi sul serio

Andrea Pezzoli interviene sull’approccio neo-brandeisiano all’antitrust che critica l’adozione, come unico criterio del benessere del consumatore, schiacciato sull’efficienza di breve termine, e propone di attribuire alla disciplina della concorrenza molteplici obiettivi, alcuni squisitamente politici. Pezzoli ritiene che il diritto antitrust non sia appropriato per raggiungere quegli obiettivi e sostiene che, invece, focalizzandosi sul nesso tra efficienza e libertà economica e sulla tutela del processo competitivo, si possono dare basi economiche più solide all’approccio neo-brandeisiano.

Per molti economisti è forte la tentazione di fare la caricatura dei sostenitori del così detto approccio neo-brandeisiano all’antitrust, definito anche hipster antitrust, in tono scherzoso ma un po’ denigratorio per sottolinearne il carattere anticonformista. D’altro canto persino coloro che hanno patito non poco i condizionamenti della scuola di Chicago nell’applicazione della disciplina della concorrenza (per l’eccesso di entusiasmo nei confronti del laissez faire) di fronte ad alcune posizioni della critica neo-brandeisiana, provano più di un disagio. Lo provano, in particolare, quando la critica allo standard del benessere del consumatore – totem degli ultimi decenni, schiacciato su prezzi, quantità e sull’efficienza di breve periodo – si estende fino a auspicare come alternativa uno standard nebuloso, inclusivo di una molteplicità di obiettivi, come la tutela della privacy, delle piccole imprese, dell’occupazione, dell’ambiente e la lotta alle diseguaglianze (cfr. H. Hovenkamp, Whatever Did Happen to the Antitrust Movement?, 94 Notre Dame Law Review, 2019; C. Shapiro, Antitrust in a Time of Populism, International Journal of Industrial Organization, n. 61, 2018). Obiettivi assolutamente meritevoli (e in larga misura condivisibili) ma che rischiano di spostare la disciplina della concorrenza su terreni dove altre politiche pubbliche e altre istituzioni possono essere più efficaci. Una cosa, infatti, è l’esigenza di adeguare le regole della concorrenza e la strumentazione a disposizione delle autorità alle sfide, prepotenti, della digitalizzazione e della globalizzazione. Un’altra è pensare che la strada per “rivitalizzare un antitrust decisamente esangue” e probabilmente responsabile di aver sottovalutato i pericoli legati alla crescita incontrollata delle grandi piattaforme digitali, possa essere quella di un nostalgico ritorno al “piccolo è bello”, alla demonizzazione delle grandi dimensioni ovvero quella di attribuire all’enforcement antitrust compiti impropri. Una tentazione, questa, che nel ricomprendere all’interno dell’antitrust valutazioni meta-concorrenziali, nel rivolgersi contemporaneamente a questioni di carattere economico e a questioni più squisitamente di natura politica, nel voler ampliare a dismisura i confini della disciplina antitrust, sconfinando spesso in un approccio regolatorio, può finire paradossalmente per ridurne lo spazio di azione. Dovendo occuparsi di tutto, le autorità di concorrenza potrebbero finire per occuparsi di molto poco…

La protezione del processo competitivo e la libertà economica. Focalizzandosi invece sull’obiettivo originario del giudice Luis Brandeis – la protezione del processo competitivo – e provando a valorizzarlo con argomentazioni di natura economica piuttosto che con quelle di carattere prevalentemente giuridico che lo hanno sin qui promosso (cfr. L.M. Kahn, Amazon’s Antitrust Paradox, in Yale Law Journal, vol.126, n. 3, 2017; T.Wu, The Curse of Bigness. Antitrust in the New Gilded Age, Columbia Global Reports, 2018; J. Tepper e D. Hearn, The Myth of Capitalism. Monopolies and the Death of Competition, Wiley, 2018), si può uscire dalla sterile contrapposizione tra coloro che sostengono che se i mercati garantiscono prezzi contenuti e quantità crescenti allora il problema non esiste e coloro che invece, confinando all’efficienza di breve periodo il contributo dell’analisi economica, ne sottolineano la povertà.

Più esplicitamente, se recuperando l’originaria attenzione per la concorrenza come processo si rinsalda il nesso tra efficienza e libertà di competere, in questi anni sempre più sbiadito fino a individuare l’efficienza come un fine a sé stante (anche al prezzo di una minore concorrenza), la critica neo-brandeisiana al consumer welfare standard può trovare un supporto economico piuttosto robusto (cfr. M. Grillo, Competition, Efficiency and Liberty, working paper, 2021). Si possono pertanto legittimare su un terreno prettamente economico le perplessità in merito alla liceità di quelle condotte che, restringendo la libertà degli altri operatori, conducono a aumenti quantitativi dell’offerta, a riduzione dei costi e al contenimento dei prezzi. E rispetto alle quali, invece, l’applicazione della disciplina antitrust, soprattutto negli Stati Uniti, si sarebbe tradotta in un indulgente under-enforcement meno attento all’impatto sul processo competitivo e, soprattutto, alla struttura dei mercati.

Una disattenzione che si è fatta forza della preoccupazione, solo in parte fondata, che il ritorno a un approccio strutturalista finisse per garantire la sopravvivenza anche ai concorrenti inefficienti e, in ultima analisi, per vanificare i benefici in termini di efficienza derivanti dal confronto concorrenziale. Una disattenzione alla quale può essere attribuita larga parte della responsabilità della crescita incontrollata delle grandi piattaforme digitali.

La struttura dei mercati e i timori di tutelare i concorrenti piuttosto che la concorrenza. Il ritorno alla protezione del processo competitivo proposto dalla critica neo-brandeisiana può costituire invece un importante stimolo per tornare a ragionare, anche alla luce delle caratteristiche delle grandi piattaforme digitali, su come la struttura dei mercati influenzi dinamicamente l’esito della concorrenza. In futuro, infatti, il confronto concorrenziale e gli stimoli all’innovazione potrebbero essere garantiti proprio da quelli che oggi sono considerati concorrenti “non altrettanto efficienti” e la cui esclusione, dunque, potrebbe non essere considerata illegittima sull’altare di un antitrust che ha a cuore solo l’efficienza di breve termine e una scarsa sensibilità per la struttura del mercato.

Quale efficienza? Il processo concorrenziale presuppone evidentemente l’esistenza di vincenti e di perdenti, di rivalità, e del rivale si auspica la sconfitta, l’esclusione dal mercato. E’ persino banale sostenere che l’esclusione di un’impresa non in grado di disciplinare i comportamenti del soggetto dominante e di “costringerlo alla virtù”, fa parte del gioco e non rappresenta necessariamente un problema sotto il profilo antitrust.

Tuttavia nel non prestare sufficiente attenzione agli aspetti strutturali, nel non interrogarsi su come la struttura dei mercati possa condizionare la concorrenza futura, si assume di fatto l’efficienza di oggi come miglior indicatore della concorrenza di domani. Non ci si chiede se il potere di mercato dei “vincenti” – comunque ottenuto – possa fiaccare il confronto competitivo di domani.

In questa prospettiva il consumer welfare standard, chiedendo alla disciplina antitrust solo una valutazione ex-post dell’utilizzo efficiente del potere di mercato si rivela un obiettivo inevitabilmente statico, schiacciato sull’efficienza di breve, in base alla quale viene valutata la capacità disciplinante dei concorrenti e il loro contributo al processo competitivo, meritevole o meno di tutela.

La sfida della critica neo-brandeisiana va dunque raccolta in quanto, diversamente dalla vulgata e da alcune versioni privilegiate dagli stessi sostenitori dell’hipster antitrust, non allontana necessariamente la disciplina antitrust dall’obiettivo dell’efficienza economica. Ne esige piuttosto una valutazione dinamica, ex ante, più attenta agli aspetti strutturali, alla libertà di competere dei concorrenti e dunque alle implicazioni per il processo competitivo futuro (cfr. M. Grillo. op. cit.).

L’antitrust tra ex ante e ex post…. D’altro canto, al di là delle semplificazioni che attribuiscono schematicamente alla regolazione gli interventi ex ante e all’antitrust gli interventi ex post, le autorità di concorrenza sono più che attrezzate per valutazioni prospettiche.

Non possono non farle quando svolgono il loro ruolo istituzionale di controllo delle concentrazioni. Quando si interrogano su quale sarebbe lo scenario concorrenziale in assenza dell’operazione oggetto di valutazione, il così detto scenario controfattuale.

Non possono non farle quando valutano gli effetti di condotte abusive sulla concorrenza potenziale.

La sollecitazione dei neo-brandeisiani può pertanto tradursi in un maggiore rigore e in un ampliamento dell’orizzonte temporale all’interno del quale svolgere il controllo delle concentrazioni. E, invece, proprio in questo esercizio negli anni più recenti la maggiore sensibilità per l’efficienza statica ha fatto premio su considerazioni di carattere strutturale e sulle implicazioni relative alla libertà di competere. E’ senz’altro difficile prevedere se le parti di una concentrazione potranno divenire concorrenti in futuro. Le così dette killer acquisition – quelle acquisizioni grazie alle quali le grandi piattaforme comprano i loro potenziali concorrenti quando sono “ancora in culla” – rappresentano probabilmente l’esempio estremo di questa difficoltà. Tuttavia, per rivitalizzare la disciplina antitrust può valer la pena di correre il rischio di qualche falso positivo – vietare una concentrazione e scoprire che le imprese target non sarebbero cresciute e non avrebbero disciplinato l’impresa incumbent – per evitare il rischio di falsi negativi – consentire l’acquisizione di imprese che in futuro sarebbero diventate importanti vincoli concorrenziali per l’incumbent.

Considerazioni analoghe possono essere formulate per quanto concerne la valutazione delle condotte abusive.

E’ indubbio che un test già di per sé complesso come l’as efficient competitor test – la cui razionalità sta nel non penalizzare le imprese solo perché raggiungono posizioni dominanti e nel non scoraggiare comportamenti efficienti e innovativi – può risultare ancora più complicato e incerto se aspira a valutare l’efficienza futura. In assenza di tale aspirazione, però, soprattutto (ma non solo) nei mercati caratterizzati da mutamenti tecnologici e continue innovazioni, la disciplina antitrust rischia di veder ridotto il suo ruolo a favore di soluzioni regolatorie rigide che possono rapidamente diventare obsolete.

Un’interpretazione della critica neo-brandeisiana su basi economiche più articolate appare dunque possibile senza abbandonare l’attenzione per l’efficienza ma sostituendola con una maggiore sensibilità per il contributo che la libertà di competere può dare al processo competitivo e all’efficienza del futuro. Un’interpretazione che non richiede all’antitrust di occuparsi di tutto (o di quasi tutto) e agli economisti di trasformarsi in profeti ma solo (e non è poco…) di “influire in tempo sul corso degli eventi” (J.M. Keynes, Essays in Persuasion, MacMillan, 1931).

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