Il welfare in azienda: suggerimenti per discuterne utilmente

Emmanuele Pavolini si concentra sul welfare aziendale, oggetto di una crescente attivismo da parte di imprese e sindacati e anche di un rinnovato interesse da parte del Governo. Dopo averlo definito, Pavolini sottolinea che, pur essendo in crescita, il welfare aziendale in Italia è ancora molto meno esteso che nel Centro-Nord Europa; inoltre, si sofferma sul rapporto che esso ha con il dualismo nel mercato del lavoro, mostrando che sono soprattutto alcuni tipi di lavoratori e di lavori a beneficiare delle forme di welfare aziendale.

In Italia il rapporto fra welfare, da un lato, e imprese e sindacato, dall’altro, ha tradizionalmente visto questi ultimi impegnati a negoziare con lo Stato il livello di risorse da prelevare ai lavoratori e alle aziende per finanziare la spesa sociale (in primis per pensioni e sanità). A partire dagli anni ’90, e soprattutto nell’ultimo decennio, questo rapporto ha iniziato a cambiare: il ruolo delle parti sociali e delle aziende nell’erogazione e gestione diretta di prestazioni di welfare è cresciuto. Dato che si tratta di un fenomeno relativamente nuovo nel panorama italiano, la terminologia per definirlo non è sempre chiara. Termini quali welfare “aziendale”, welfare “contrattuale”, welfare “integrativo” o “categoriale” vengono spesso utilizzati come sinonimi ed indicano che le imprese si impegnano in modo attivo e diretto per assicurare ai propri lavoratori, e talvolta ai loro familiari, alcune prestazioni di welfare.

In generale, possiamo sinteticamente definire come “welfare in azienda” quelle forme di protezione sociale destinate ai lavoratori offerte volontariamente dalle imprese, anche a seguito di accordi collettivi, decentrati o categoriali. Nello specifico, aggettivi quali “contrattuale” o “categoriale” si riferiscono, invece, a quei casi in cui l’offerta delle prestazioni non è il frutto di una decisione unilaterale dell’azienda, ma di una contrattazione con il sindacato, al livello della singola impresa o della sua categoria di riferimento. Alcune esperienze di welfare in azienda si possono rintracciare nella storia passata del capitalismo italiano (si pensi a casi come l’Olivetti); tuttavia, il fenomeno a cui si fa qui riferimento prende forma innanzitutto negli anni ’90 in seguito alle riforme del sistema pensionistico e di quello sanitario. Il decreto legislativo 124/1993 delineò il passaggio verso un modello multi-pilastro in campo pensionistico, mentre il decreto legislativo n. 229/1999 (all’interno della cosiddetta “riforma Bindi”) istituì i “fondi sanitari” (che erano già stati precedentemente delineati nelle leggi n. 917 del 1986 e n. 502 del1992). Nell’ultimo quindicennio l’attivismo di imprese e, spesso, dei sindacati si è manifestato in molti altri campi del welfare, oltre la sanità e le pensioni: dagli interventi per favorire la conciliazione fra lavoro e attività di cura (asili nido aziendali, voucher di conciliazione, “smart working” e forme di maggiore flessibilità degli orari di lavoro, etc.), o per alleviare i bisogni di cura degli anziani a carico, fino alle misure di integrazione del reddito (come i “fondi di solidarietà” per alcune categorie di lavoratori non coperte dalla Cassa Integrazione).

La recente Legge di Stabilità 2016 sembra sancire in maniera sostanziale un rinnovato interesse dello Stato per queste forme di protezione sociale, associandole sempre più alla contrattazione decentrata. In particolare tale normativa disciplina in maniera nuova il funzionamento del premio di produttività e l’incentivazione fiscale del welfare aziendale in sostituzione del salario in busta paga.

Rispetto a questo secondo aspetto, la Legge di Stabilità 2016 modifica il Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR), eliminando il cosiddetto requisito della volontarietà nella concessione di tutta una serie di prestazioni di welfare da parte delle aziende: nella vecchia normativa del TUIR le imprese potevano avere accesso a vari benefici fiscali solo se unilateralmente concedevano dei benefit ai propri lavoratori; la Legge di Stabilità 2016 consente, invece, alle parti sociali di negoziare tali prestazioni, individuando il welfare in azienda come un oggetto importante per la contrattazione decentrata.

Accanto all’attività governativa, si registra una certa effervescenza nelle proposte di ulteriore radicamento del welfare in azienda provenienti dalle parti sociali. A dicembre del 2015, ad esempio, Confindustria e Confcommercio hanno presentato una proposta congiunta per integrare primo e secondo pilastro della sanità (ovvero lo schema pubblico con quelli privati). Le trasformazioni demografiche (con relativo invecchiamento della popolazione), i tagli alla sanità pubblica e la rilevante mole di risorse spese annualmente dagli italiani per curarsi sono alla base della proposta delle due associazioni di prevedere una disciplina normativa che favorisca e faciliti l’accesso ai fondi sanitari da parte dei cittadini e, al contempo, regoli in maniera migliore l’integrazione fra sanità pubblica e fondi.

A fronte di queste trasformazioni appare utile porsi almeno due domande per meglio inquadrare quanto sta accadendo e, eventualmente, definire il più adatto meccanismo di regolazione del welfare in azienda: i) quale è la reale estensione del fenomeno oggi in Italia?; ii) quanto marcate sono le differenze fra profili di lavoratori nell’accesso al welfare in azienda?

Le risposte che si possono offrire a queste due domande andrebbero intese, soprattutto, come un invito al dibattito.

L’estensione del fenomeno. Inquadrare oggi il welfare in azienda in modo lapidario con un “molto rumore per nulla” sarebbe assolutamente sbagliato. Il fenomeno sta diventando sempre più rilevante. Nel corso degli ultimi due decenni i fondi pensionistici hanno iniziato a diffondersi in maniera robusta, anche se con percentuali di adesione da parte dei lavoratori ancora lontane da quelle prefigurate ai tempi delle riforme: gli iscritti ai fondi sono passati da circa 1,5 milioni a fine anni ’90 a 6,5 milioni nel 2014 (dati Covip). Un buon successo è stato registrato anche dai fondi sanitari: se le stime di fine anni ’90 indicavano la presenza di circa 1,4 milioni di iscritti (di cui 650 mila circa lavoratori), il Ministero della Salute ha calcolato che alla fine del 2013 si era arrivati a 6,9 milioni di iscritti (di cui 5,2 milioni di lavoratori). Allo stesso tempo i dati sulle adesioni indicano chiaramente che esse sono tuttora lontane da quelle che prevalgono nei paesi del Nord Europa o in Germania, per quanto riguarda la previdenza privata, e gli Stati Uniti, per quanto riguarda il ruolo delle imprese in ambito sanitario. Se dal campo delle pensioni e della sanità passiamo, ad esempio, a quello della conciliazione, l’immagine complessiva non cambia: da un lato, crescono e si diffondono le offerte di strumenti di conciliazione in azienda (dai nidi alla flessibilità sugli orari), dall’altro, l’Italia rimane abbastanza distante da molti paesi del Centro-Nord Europa che hanno investito in servizi aziendali (come il Regno Unito) e/o in orari di lavoro più flessibili (come la Svezia). Allo stato attuale vi è, quindi, solo una minoranza corposa di lavoratori e famiglie che ha accesso alle prestazioni offerte dal welfare in azienda.

Alcuni segnali sembrano, se non contraddire, perlomeno indicare che il fenomeno del multi-pilastro in Italia non va esattamente nella direzione che si poteva immaginare. In campo pensionistico, a partire dagli anni della crisi economica, ad avere attratto nuovi iscritti non sono stati i “fondi chiusi”, derivanti da contrattazione collettiva, ma i piani individuali pensionistici di origine assicurativa (il cosiddetto “terzo pilastro”; figura 1). Occorre, quindi, prestare attenzione al fatto che il welfare in azienda in questo momento è solo limitatamente diffuso e un’eventuale crescita della domanda di prestazioni non pubbliche potrebbe essere soddisfatta non dal pilastro collettivo/occupazionale (il cosiddetto “secondo pilastro”), ma dal terzo pilastro. Con ciò non si vuole sostenere che la diffusione di un mercato assicurativo individuale in sanità e nelle pensioni sia un male, ma che occorre avere chiaro che quando si inizia a proporre un sistema di protezione multi-pilastro, non necessariamente la struttura istituzionale a cui si arriva è quella che avevano inizialmente in mente i legislatori.

Figura 1. Evoluzione del numero di iscritti a fondi pensionistici complementari in a seconda del tipo di schema di pensione complementare (anni 1999-2014)

pavolini

CPFS: fondi chiusi; OPFs: fondi aperti; P-EPFs: fondi pensione pre-esistenti; PIPs: piani individuali pensionistici di tipo assicurativo. Fonte: Elaborazione da dati Covip

Welfare in azienda e dualismi sul mercato del lavoro. La corposa minoranza di lavoratori e famiglie in Italia che in questo momento ha accesso al welfare in azienda non è distribuita omogeneamente tra lavoratori con caratteristiche diverse e tra lavori diversi. Gran parte degli studi empirici riferiti ai paesi occidentali, segnala, infatti, che alcuni profili di lavoratori (e famiglie) beneficiano più di altri delle prestazioni di welfare in azienda, salvo i casi in cui la normativa nazionale e gli accordi collettivi spingano per un quasi-universalismo della copertura (come avviene in campo pensionistico nei paesi scandinavi).

Nel caso italiano sono individuabili almeno sette differenti linee che demarcano chi ha (molte) più probabilità di avere accesso oggi a prestazioni di welfare in azienda (+) da chi ne ha molte meno (-): i lavoratori del Centro-Nord (+) rispetto a quelli Mezzogiorno (-); gli occupati nel terziario avanzato e nel nocciolo duro della manifattura e della produzione energetica (+) rispetto agli occupati negli altri settori (-); i lavoratori con contratto a tempo indeterminato (+) rispetto a quelli con contratti non standard (-); i dipendenti del settore privato (+) rispetto a quelli del settore pubblico (-); i dirigenti e i quadri (+) rispetto agli impiegati e agli operai (-); i lavoratori dipendenti (+) rispetto agli autonomi (-); coloro che lavorano nelle medio-grandi imprese (+) rispetto a coloro che sono impegnati nelle piccole imprese (-).

In un mercato del lavoro, come quello italiano, profondamente segmentato, non deve sorprendere che il welfare in azienda possa esso stesso fornire risposte segmentate ai vari bisogni sociali. Dal punto di vista della singola esperienza di welfare in azienda tutto ciò non rappresenta una problema particolarmente rilevante. A livello aggregato il rischio è, però, di generare un fenomeno di cumulazione dello svantaggio in base al cosiddetto “effetto San Matteo”: chi più ha (o è più tutelato sul lavoro), più riceverà anche sotto il profilo delle prestazioni di welfare e viceversa. Occorre, quindi, porsi anche il problema di come ridurre o contenere il rischio che le differenze create dal mercato del lavoro si aggravino per effetto del welfare in azienda.

In conclusione, il dibattito presente e futuro sul welfare in azienda e sul ruolo dell’attore pubblico nel sostenerlo, anche fiscalmente, dovrebbe concentrarsi sulle due questioni qui discusse.

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