Tassi di fecondità e natalità ed invecchiamento della popolazione in Italia

Il convegno conclusivo della ricerca

I dati del problema e le proposte non “natalistiche” per l’Italia

Il 14 dicembre 2007 si è tenuto a Roma il convegno conclusivo della ricerca condotta da “Etica ed Economia” sull’andamento del tassi di fecondità e natalità, sulle ripercussioni che esso ha in Italia sull’invecchiamento della popolazioni e sulle proposte per fronteggiarne le conseguenze sullo sviluppo del Paese.

Il convegno si è tenuto presso il salone dell’Uval ed è il presidente dell’Uval, Giampiero Marchesi, che ha aperto i lavori con un saluto ai partecipanti, ricordando l’importanza del tema affrontato dalla ricerca. Ha quindi ceduto la presidenza a Luciano Barca.

Barca dopo aver ricordato e ringraziato quanti hanno contribuito alla ricerca a partire dall’on. Giglia Tedesco, scomparsa ad ottobre, ha dato la parola ai due relatori che hanno impostato e coordinato la ricerca: la dott. Maria Giovanna Piras (Istat) e il dott. Francesco Zollino (Banca d’Italia).

 

I dati del problema e i possibili rimedi

In molti paesi occidentali il numero di figli per donna, rilevano le relazioni collegate di Giovanna Maria Piras e Francesco Zollino, è sceso recentemente su livelli storicamente bassi, che comportano in prospettiva una riduzione della popolazione in assenza di cambiamenti nelle determinanti di fondo. Secondo le più recenti proiezioni effettuate dall’ONU nel 2006, in Italia la popolazione rimarrebbe pressoché invariata, intorno agli attuali 58,6 milioni, sino al 2030, per poi avviarsi in un graduale declino, scendendo al di sotto dei 55 milioni nel 2050. L’andamento sarebbe solo marginalmente più favorevole nello scenario di previsione dell’Istat, che sconta un più elevato saldo migratorio, ipotizzato pari a circa 150.000 persone all’anno.

In merito all’andamento del saldo naturale, che insieme a quello migratorio determina la variazione della popolazione, per l’Italia è previsto un progressivo peggioramento negli anni a venire: all’aumento del numero dei decessi, che è dovuto all’invecchiamento della popolazione cui contribuisce l’allungamento della vita media, si aggiunge il sostanziale mantenimento del tasso di fecondità su livelli minimi nel confronto con i principali paesi industriali.

Alla fine degli anni novanta, il numero di figli per donna è sceso in Italia all’1,21, riducendosi di oltre un punto in cinquant’anni; rispetto alla media eurpea, ci collochiamo nella banda inferiore in compagnia dei paesi mediterranei e, caso unico nell’Europa continentale, con la Germania (1,34), mentre nella banda superiore si trovano i paesi scandinavi, Francia e Regno Unito – tutti con valori intorno a 1,70 – oltrechè Belgio e Irlanda (1,90). Eccetto per quest’ultimo, piccolo paese, emerge un ampio divario con gli Stati Uniti, che hanno recuperato il tasso di rimpiazzo, statisticamente collocato al 2,1, che consente di preservare in futuro lo stesso livello della popolazione attuale, al netto del saldo migratorio.

Ad abbassare il tasso di fecondità italiano negli anni novanta hanno contribuito fattori di natura temporanea, riconducibili al ritardato recupero, rispetto ad altri paesi europei, delle condizioni di accesso al mercato del lavoro da parte delle donne. Esse plausibilmente hanno a lungo differito le decisioni di natalità allo scopo di accumulare il capitale umano necessario a contrastare le disparità con gli uomini nelle opportunità professionali. Il picco nel tasso di fecondità, che negli anni settanta si registrava ai 24 anni, si è progressivamente spostato in classi di età superiori, pari a 33 anni nel 2005. Ora che il processo di aggiustamento nell’inserimento femminile al mercato del lavoro si è in parte realizzato e si approssima l’età matura per la generazione che vi è stata per prima interessata, in Italia si registra una ripresa nel tasso di fecondità, che è tornato a salire in questo decennio, collocandosi a 1,35 figli per donna nel 2006. Nelle proiezioni dell’Istat, la convergenza verso la media europea dovrebbe proseguire negli anni a venire. È confortante osservare che il risultato risente non solo della maggiore fecondità delle donne straniere residenti in Italia (2,61 figli per donna), ma anche di un aumento della fecondità di quelle italiane (da 1,19 a poco meno di 1,3 in dieci anni).

Nel 2006 sono in particolare le regioni del Nord, come il Trentino la Lombardia, il Veneto e l’Emilia a determinare una crescita del tasso di fecondità italiano. Tra le regioni del Sud che registrano alti tassi di fecondità rispetto alla media italiana si segnalano la Sicilia e la Campania. Differenze evidenti tra le regioni si registrano anche nell’età in cui si ha il primo figlio: al Sud e nelle isole sono più frequenti le nascite di donne appartenenti a classi di età più giovani. Ad esempio in Sicilia il 14,2% dei nati hanno una madre tra i 20 e i 24 anni. Nel Lazio e in Liguria meno del 7% delle nascite riguarda donne nella stessa fascia di età. Sempre in Liguria oltre il 31% dei nati ha una madre con più di 34 anni. In Campania poco più del 19% dei nati è figlio di donne con 35 anni e oltre.

Le ragioni di fondo e i possibili rischi

In molte zone d’Europa la fecondità iniziò a cadere tra il 1870 e il 1930, in seguito alla riduzione della mortalità, iniziata nell’Europa nord occidentale attorno al 1800, data di avvio della cosiddetta prima transizione demografica. Attorno alla metà degli anni sessanta del Novecento, in cui si data l’inizio della seconda transizione demografica, il calo della fecondità si era accentuato, a partire dai paesi dell’Europa del Nord, dove la flessione delle nascite prosegue fino all’inizio degli anni ottanta, per poi pressochè arrestarsi. In Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Irlanda la forte riduzione della fecondità è avvenuta con circa un decennio di ritardo ed è proseguita fino alla fine del secolo scorso. Come si è già ricordato, anche nel nostro paese sono emersi più di recente segnali di un lieve recupero, che rimane comunque ampiamente insufficiente per compensare il crescente numero di decessi in presenza di una popolazione che continua a invecchiare grazie ai progressi nelle condizioni di vita.

La lunga tradizione di analisi delle cause degli andamenti demografici sembrava indicare, almeno per Europa preindustriale all’epoca della prima transizione, la prevalenza di una relazione Maltusiana tra l’andamento della popolazione e quello dell’economia: un rapido aumento della prima era destinato a scontrarsi con la scarsità delle risorse, si accrescevano così miseria e mortalità, si riduceva la fecondità sino a recuperare un volume di popolazione compatibile con le risorse disponibili.

L’interpretazione Maltusiana perde terreno nella seconda transizione demografica, in cui il calo della fecondità sembra accentuarsi per fattori economici diversi dalle condizioni di sussistenza, ai quali si aggiungono, con forza crescente sino a diventare prevalente, variabili di natura sociale e culturale. Da un lato aumenta l’incentivo verso la formazione di famiglie poco numerose e quindi a investire di più nella qualità dei figli piuttosto che nella loro quantità alla nascita, che in passato valeva come assicurazione di un numero sufficiente di prole a rimanere in vita. Anche lo sviluppo dei sistemi di protezione sociale e dei mercati assicurativi, riducendo l’importanza del ruolo tradizionale della famiglia, contribuiscono ad attenuare la domanda di prole. Nello stesso tempo, elevati tassi di disoccupazione giovanile e le difficoltà di alloggio possono ritardare l’età al matrimonio e influenzare l’età media al parto e le decisioni sul numero di figli. Dal lato dei fattori sociali, culturali e religiosi, un ruolo di rottura con il passato è stato giocato da una varietà di conquiste nel campo della pianificazione familiare, del diritto delle coppie a decidere liberamente in merito al numero e alla cadenza delle nascite, della concezione della relazione e dei vincoli di coppia, della rivendicazione di indipendenza e di emancipazione femminile; anche l’affermarsi di modelli di vita fondati sul successo professionale e sull’autorealizzazione, per sé e/o per i propri figli, può talvolta costituire un freno alla fecondità.

Come discusso in Livi-Bacci (2001), l’Italia presenta due ordini di specificità che aiutano a comprendere le ragioni di un tasso di fecondità tra i più bassi nel mondo occidentale:

1) la rapidità del cambiamento sociale e culturale, alla quale non è corrisposto un pieno adattamento dell’organizzazione della società e dei modelli produttivi, comportando un aggravio dei costo a carico delle madri; ne sono testimonianza la difficile compatibilità tra orari scolastici e di lavoro, la spesa modesta, nel confronto europeo, nei servizi e infrastrutture per bambini, così come in trasferimenti pubblici a favore della popolazione giovane internazionale, l’asimmetrica divisione dei compiti famigliari tra i coniugi, il limitato ricorso al congedo per paternità nel nostro paese;

2) la cosiddetta sindrome del ritardo, che induce a posporre le decisioni in merito alla strategia famigliare da parte delle generazioni più giovani, con particolare riferimento all’attività riproduttiva, al completamento dei percorsi formativi, alla stabilizzazione del rapporto di lavoro, alla sistemazione abitativa, al distacco dalla famiglia di origine. Ne consegue che il numero desiderato di figli è spesso rivisto al ribasso, talvolta per l’insorgere di situazioni di infecondità dovute alla tarda età.

In assenza di chiare indicazioni teoriche in merito alla dimensione ottimale della popolazione, il calo della fecondità non è necessariamente un costo ai fini del benessere, individuale e sociale. La valutazione assume tuttavia toni più preoccupanti in associazione con il contestuale allungamento della durata della vita, in quanto ne deriva una profonda ricomposizione della struttura per età della popolazione. Nella UE dalla metà degli anni ottanta all’inizio del 1995 la quota di persone di età superiore a 64 anni è aumentata dal 13,6 al 15,4 per cento; in Italia, dal 12,7 al 16,4 per cento. Nelle più recenti proiezioni dell’Istat, essa dovrebbe superare il 20 per cento nel 2010, salendo al 33,6 nel 2050.

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La proporzione tra giovani e anziani tende a ribaltarsi. Nel 1950 il 32,2 per cento della popolazione dei paesi dell’Unione europea aveva meno di 20 anni e il 13,9 per cento più di 60; i giovani eccedevano di 18,3 punti percentuali. Nel 2004 le proporzioni erano pressoché equivalenti. Nel 2040 sarebbero i più anziani ad eccedere di 13,1 punti percentuali rispetto ai giovani.

In Italia le tendenze sono più accentuate: l’indice di dipendenza degli anziani (dato dal rapporto tra la popolazione con 65 o più anni e la popolazione tra 15 e 64 anni) raggiungerebbe il 31 per cento nel 2010 e toccherebbe il 63 nel 2050. Nelle valutazioni dell’ONU, insieme al Giappone l’Italia e’ il paese con il più rapido tasso di invecchiamento demografico sotto una varietà di indicatori.

La maggiore incidenza degli anziani rispetto ai giovani puo’ avere rilevanti ripercussioni economiche negative. Considerando la struttura della spesa pubblica, le proiezioni demografiche comportano che l’aggravio della spesa per anziani sarebbe solo in parte compensato dalla riduzione di quella per i giovani, sollevando in Europa problemi di sostenibilità degli attuali modelli di protezione sociale, con il rischio di alimentare il conflitto intergenerazionale laddove l’invecchiamento si accompagni con una riduzione della quota della popolazione attiva, su cui si concentrerebbero gli oneri del finanziamento. In Italia le pressioni sul tasso di attività potrebbero essere più marcate che in altri paesi occidentali, anche per la più bassa partecipazione al mercato del lavoro già oggi prevalente specie nelle fasce di età più anziane. I fenomeni demografici potrebbero influenzare l’accumulazione di capitale umano e la sua congruità rispetto alle esigenze produttive dell’attuale società, considerando che il rapido progresso tecnologico rischia di rendere obsolete le conoscenze acquisite dai lavoratori più anziani.

Il calo dell’offerta di lavoro associato all’invecchiamento della popolazione aumenta inoltre l’attrazione di flussi migratori, che possono assumere rapidamente una forte intensità, tale da acuire i problemi di integrazione e di coesione sociale. Ne possono conseguire segmentazioni sul mercato del lavoro, in termini di salari, di sicurezza e di protezione sociale, così come nell’organizzazione della società e del consenso politico nelle democrazie occidentali; ne potrebbe risentire la domanda di equità e, più in generale, lo stato dei diritti soggettivi.

Indicazioni per l’agenda politica

Alla luce dell’importante conquista in termini di durata della vita, agevolata dagli avanzamenti della medicina e da un loro più diffuso accesso da parte della popolazione, le attuali tendenze demografiche possono essere contrastate su due livelli: i) innalzare il tasso di fecondità, per riportarlo sui livelli congrui al riequilibrio del saldo naturale, ora fortemente negativo soprattutto in Italia; ii) accrescere i flussi migratori, per compensare dall’esterno l’invecchiamento della popolazione residente. In linea con la recente esperienza nelle economie europee, riteniamo che la priorità si collochi nel campo del primo livello, attenuando quindi le barriere che attualmente ostacolano la libera determinazione delle decisioni di natalità; agevolare una migliore programmazione dei flussi migratori rappresenta un importante complemento, soprattutto per un migliore funzionamento del mercato del lavoro, ma non può fornire l’efficace contrasto alle attuali tendenze demografiche, in quanto l’ampia dimensione negativa del saldo naturale richiederebbe afflussi netti insostenibili nelle attuali configurazioni degli equilibri politico-economici. Questa indicazione risulta rafforzata se si considera che l’anomalia italiana nella forte denatalità si caratterizza per un insieme di fattori sui quali le politiche potrebbero avere un impatto significativo, come per esempio l’inadeguatezza dei servizi per l’infanzia, l’insoddisfacente funzionamento del mercato del lavoro e degli affitti, un sistema di tassazione sfavorevole alle coppie con figli.

L’evidenza empirica disponibile nella letteratura internazionale non produce tuttavia indicazioni univoche in merito agli effetti delle politiche sulle decisioni riproduttive di una coppia. Talvolta non se ne riscontra un impatto rilevante, soprattutto nel caso di misure temporanee di incentivo connesse al momento della natività; esse si rivelano in genere meno efficaci di progetti di intervento di medio periodo, integrati tra differenti strumenti, che attenuino in modo credibile i fattori di ostacolo nella decisione di avere un figlio, dal momento della nascita sino alla sua maturità. La combinazione tra i vari strumenti, per esempio tra trasferimenti monetari e l’offerta diretta di servizi per l’infanzia, va calibrata sulle specificità di un paese, in particolare con riferimento alle attitudini culturali, l’organizzazione sociali e ai vincoli che appaiono più stringenti alle famiglie, se di bilancio o di razionamento di servizi.

A nostro avviso un’area prioritaria di intervento in Italia è rappresentata dai sistemi di istruzione per la prima infanzia, in cui ci caratterizziamo per un’offerta pubblica di elevata qualità, con costi relativamente contenuti e di norma sussidiati, cui si contrappone tuttavia un forte razionamento della domanda. In rapporto al totale della popolazione con meno di tre anni, i posti disponibili in Italia rappresentano tuttora una quota inferiore al 10 per cento, che sale all’11 se si includono anche le strutture innovative e integrative (come l’affido domiciliare e le ludoteche). Pur in lieve miglioramento negli anni, la capacità ricettiva della nostra rete di servizi per l’infanzia è assai lontana dall’obiettivo del 33 per cento indicato dall’agenda sociale europea per il 2010, confrontandosi con risultati di gran lunga più positivi già conseguiti in paesi come Francia (29 per cento), Belgio (30), Irlanda (38), Norvegia (40), Svezia (48) e Danimarca (64).

Si riscontra inoltre il persistente di un’accentuata disparità tra la maggiore offerta di servizi nelle regioni del Centro-Nord (pari al 22,8 per cento del totale dei bambini con meno di tre anni in Emilia Romagna) e in quelle del Sud (intorno a 1 per cento in Campania e Calabria). Un altro aspetto è che la domanda sembra accrescersi con l’espansione dell’offerta, in quantità e qualità, come segnalato dal fatto che le regioni in cui la capacità ricettiva è nettamente migliorata negli anni recenti non hanno registrato un calo delle liste di attesa, che invece sono risultate spesso in aumento.

Posto che il migliore accesso agli asili nido agevoli le decisioni di natalità da parte di una coppia, soprattutto se già inserita sul mercato del lavoro, queste indicazioni sembrano segnalare che la linea di intervento sia più nell’espansione dei posti disponibili che nei trasferimenti monetari alle famiglie, che si possono operare a vario titolo e dai diversi livelli di governo. Tuttavia, considerando che recentemente una quota crescente della ricettività fa capo a operatori privati, che spesso applicano delle rette orarie più elevate dell’operatore pubblico, lo strumento del sussidio monetario può talvolta concorrere in larga misura nel garantire l’effettivo accesso ai servizi di cura della prima infanzia.

Prende ora la parola il prof. Enrico Todisco, demografo (La Sapienza, Roma)

Demografia camaleontica

Il prof. Enrico Todisco rileva che se guardiamo la storia archeologica della presenza dell’uomo sulla terra possiamo stimare una evoluzione molto, molto lenta che è andata avanti per centinaia di migliaia di anni, se non addirittura milioni. Si parla di tasso di accrescimento annuo dello 0,000015%. La popolazione umana è andata sviluppandosi, sia in termini quantitativi che in termini di accrescimento intellettuale e sociale, non in maniera lineare ma combattendo avversità quotidiane di sopravvivenza che hanno fatto registrare periodi di espansione a periodi di recessione. All’epoca della nascita di Cristo, quando ormai l’insediamento dell’uomo ha toccato tutti i continenti, la stima quantitativa parla di trecento milioni di individui. Sono occorsi 19 secoli dell’era cristiana per toccare il primo miliardo di individui sul nostro globo (inizi del 1800). Alla fine del 1800 la popolazione umana si trovava ancora abbastanza lontano dai due miliardi (1,7 miliardi). E’ il 1900 il secolo delle enormi trasformazioni in cui la popolazione, al giro di boa del millennio, supera i 6 miliardi ed il tasso di incremento supera abbondantemente l’1% annuo.

Se questa è la situazione globale, ovviamente stimata, la situazione continentale e quella dei singoli paesi è molto differenziata. Chi avrebbe potuto mai presagire (forse qualche demografo futurista e menagramo) che la popolazione italiana da serbatoio di manodopera per l’Europa sarebbe diventato il paese con più bassa natalità nel mondo e fra i paesi più invecchiati?

Tutto ciò è per sottolineare come la demografia ha registrato ritmi evolutivi estremamente lenti per poi esplodere in una dinamica camaleontesca sviluppatasi in appena un centinaio di anni. Ed è proprio questo lasso di tempo, approssimativamente, che viene preso in considerazione per considerare la storia recente delle popolazioni umane durante la quale si passa da regimi di alta natalità e alta mortalità, in cui le condizioni sociali ed ambientali sono ad un livello pressoché primordiale, a regimi di bassa natalità e bassa mortalità quando la popolazione ha raggiunto uno stadio evolutivo elevato. Nella fase iniziale la mortalità incide drammaticamente sulla sopravvivenza in quanto le condizioni ambientali, sanitarie, alimentari sono poco controllate e controllabili, così come la natalità è priva di limitazioni sociali, al di là dei limiti imposti dalla natura. Si tratta di una condizione di basso rendimento demografico in quanto si nasce molto ma si muore anche molto. I tanti che nascono, però, muoiono presto. La popolazione nel complesso è giovane. Nello stadio finale, invece, la mortalità si è ridotta notevolmente in quanto le condizioni sanitarie, la profilassi delle malattie, l’allontanamento del pericolo di epidemie, la stessa evoluzione delle conoscenze mediche e farmaceutiche, hanno consentito di procrastinare l’evento ineluttabile finale della vita umana. Anche la natalità si è abbassata per effetto di un forte condizionamento sociale. Le coppie fanno ricorso alla limitazione delle nascite, gli Stati ricorrono alla pianificazione familiare e al supporto dei consultori. Questa volta si nasce poco ma si vive molto più a lungo. Il rendimento demografico è molto elevato: le limitate unità aggiuntive sopravvivono ad età molto più avanzate. Di conseguenza la popolazione invecchia in quanto si deve registrare la presenza di persone via via più anziane. Tra questi due stadi, iniziale e finale della evoluzione delle popolazioni, vi è una fase intermedia, di transizione, in cui si registra dapprima una discesa della mortalità a cui fa seguito, slittata nel tempo, una contrazione anche della natalità. E’ proprio questa transizione a dare il nome alla teoria o modello demografico. Durante la fase transitoria, nel passaggio da un regime di basso rendimento ad uno di alto rendimento demografico, il differenziale tra natalità e mortalità è molto elevato; durante la transizione demografica la popolazione cresce numericamente in maniera molto significativa quando non addirittura esplosiva. Se guardiamo la collettività umana oggi, troviamo che i Paesi occidentali, più sviluppati economicamente e socialmente, essenzialmente quelli Europei e quelli appartenenti all’area OCSE, si trovano tutti nello stadio finale della transizione in cui l’invecchiamento e l’abbassamento della fecondità dominano il quadro demografico. Al contrario, praticamente tutti i Paesi in via di sviluppo si trovano in piena fase transizionale in cui la natalità è molto più rilevante della mortalità.

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Questi brevi riferimenti dovrebbero fornirci qualche indicazione sulle attuali situazioni demografiche delle società contemporanee. Negli Stati più avanzati, tra cui si colloca il nostro Paese, la contrazione della fecondità ha portato la riproduttività molto al di sotto del livello di guardia. Siamo cioè in una situazione di preoccupazione sociale, se non di una vera e propria emergenza, in cui non è assicurato un ricambio generazionale ed in cui i nuovi contingenti di nati, sempre più ridotti numericamente, si troveranno nel corso della loro vita produttiva, a dover sostenere gli anziani, questi sì in forte fase espansiva. Per il solo effetto del movimento naturale (escluse cioè le migrazioni) le morti hanno superato le nascite ed è ampiamente iniziato il declino demografico che potrebbe portare alla progressiva eliminazione, teorica ma non tanto, della popolazione stessa. Basta riflettere che se la popolazione invecchia senza un ricambio adeguato, si arriva in una condizione in cui ci sono solo donne al di sopra di 50 anni di età (limite della riproduttività femminile) e quindi non ci sarebbe più nessuno in grado di mettere al mondo nuovi esseri e la popolazione sarebbe destinata ad estinguersi.

In mancanza di una adeguata politica demografica (ma quale?), “per fortuna” che ci sono le migrazioni a supplire questa astenia demografica. Guardiamo la situazione del nostro paese. Vi è una leggera ripresa dei matrimoni, così come di una lieve riconquista di posizione delle nascite, dovute all’apporto dei nuovi cittadini, originanti dall’esterno. Da un punto di vista strettamente numerico, evitando qualsiasi considerazione di carattere etico, religioso, di integrazione, si può pensare che gli immigrati possano compensare queste minacce demografiche. La logica numerica ha una sua validità e prettamente da un punto di vista quantitativo è difficilmente attaccabile. Ma non abbiamo a che fare con pedine di un Risiko mondiale né con cavie da laboratorio o animali da allevamento. Stiamo parlando di esseri umani, anzi meglio, di cittadini che hanno un proprio percorso ed eredità culturale, storica, educativa, formativa. Si tratta di miscelare condizioni quasi sempre fondamentalmente diverse che, almeno all’inizio, portano ad un irrigidimento di posizioni, sia da parte di chi riceve sia da parte di chi arriva. L’integrazione deve essere capita e condivisa in tutti i suoi molteplici riflessi, positivi o negativi che siano. Se guardiamo bene non c’è una vera e propria razza italica. Le differenze antropomorfiche dei cittadini italiani tra le diverse parti del territorio nazionale, in termini di colore degli occhi, dei capelli, della pelle, di statura, di linguaggi, sottolineano come si è arrivati ad una tale configurazione della popolazione italiana attraverso un lento processo storico in cui provenienze esterne hanno contribuito a modificare un assetto interno, attraverso meticciamenti dovuti a motivazioni nemmeno sempre pacifiche. Basti pensare alle invasioni e alle guerre.

Certamente non tutto è positivo e non tutto può essere visto in termini solamente positivi. Per rimanere in campo demografico, l’asserzione che il ricorso alla immigrazione consente di recuperare il “degrado demografico” in quanto i nuovi arrivati hanno una riproduttività molto più elevata dei nazionali, deve essere ridimensionata. E’ vero che le marocchine hanno un TFR (tasso di fecondità totale, dall’inglese Total Fertility Rate) di 4-5 figli per donna in età feconda, contro 1,7 delle donne italiane. Valori così elevati del TFR sono da riferirsi alle donne marocchine (qui sono prese solamente come esempio) in patria. Ma una volta che emigrano, anche queste danno luogo a forti ridimensionamenti. Da valori di 4-5, si scende a valori di 2-3. Sempre di più delle autoctone, ma non ai livelli su cui avevamo fatto i nostri calcoli.

Ci sono da fare due ordini di considerazioni, l’una di tipo culturale e l’altra di tipo contingente. Per gli aspetti comportamentali collegati alla cultura, cosi come è emerso da numerosissimi studi internazionali svolti in varie parti del mondo, le donne nel paese di origine fanno ricorso ai metodi contraccettivi in maniera molto ridotta data la scarsa conoscenza che se ne ha. Una volta emigrate, la vicinanza con donne locali, più avvezze ad un controllo della fecondità, porta a condividere gli schemi riproduttivi adottati dalla popolazione del posto. Di qui il ridursi della dimensione familiare.

L’altro aspetto, di natura contingente, è connesso alla influenza del fattore tempo. La donna marocchina, tanto per riprendere l’esempio precedente (ma il tema ha carattere generale), ha 4, 5, 6, …. figli nel proprio paese di origine perchè si sposa a 20 anni, quando non addirittura ad una età molto più giovanile. Ha perciò davanti a se un periodo di convivenza feconda di 25-30 anni (fino al raggiungimento della menopausa). La donna che emigra, invece, si ricongiunge con il marito oppure si sposa con il coniuge migrante, oppure si sposa con un cittadino del paese di destinazione (cosa questa che sta diventando sempre più ricorrente), ad una età più avanzata anche di 10 anni rispetto all’età media al matrimonio in patria. Si riduce perciò il periodo di convivenza feconda e quindi la probabilità di fare un numero elevato di figli. Peraltro questa limitazione della convivenza feconda si registra nel periodo iniziale, verso le età più giovanili, dove la potenzialità riproduttiva è fisiologicamente più consistente e dove la probabilità di avere un figlio è più rilevante.

In conclusione, è difficile trarre….conclusioni. Non ho affrontato, anche qui per insufficienza di tempo, le motivazioni che hanno portato all’abbassamento del TFR delle donne italiane al di sotto del livello di sostituzione. Si tratta di considerazioni di carattere economico, organizzativo, sociale, comportamentale, educativo, dalle quali emergono le situazioni che hanno portato ad una diversa collocazione della donna nella società. Si tratta di valutazioni di carattere sociologico che la ricerca di Zollino e Piras ha messo al centro della attenzione. La letteratura in merito è ormai molto vasta, anche in Italia. Si tratta di un assetto della nostra società in forte fase evolutiva che deve essere seguito e monitorizzato con continuità per poterne valutare le conseguenze. Che il tutto costituisca la base per valutazioni sul futuro della nostra società e per una sollecitazione della classe politica in questo senso, è ovvio. Ma non scontato.

Il presidente dà la parola alla prof. Elena Granaglia che ha partecipato sin dall’inizio alla ricerca..

Una politica non natalistica

La prof. Elena Granaglia (Università della Calabria) ritiene che la ricerca elaborata da Etica ed Economia sia assai meritoria, sotto diversi punti di vista, da quello della messa a fuoco delle dimensioni della denatalità nel nostro paese a quello della discussione del carattere problematico di tale denatalità ai fini dello sviluppo economico, nonché della sostenibilità del welfare, e della difesa di una politica non natalistica per la natalità.

Obiettivo del suo intervento è mettere un po’ più nitidamente a fuoco quelli chei sembrano dover essere i presupposti valoriali e le implicazioni istituzionali di una tale politica.

Rispetto ai presupposti valoriali, il valore cruciale consisterebbe, come per altre politiche sociali, nelle opportunità o, meglio, in una nozione plurale di opportunità. Il riferimento, più in particolare, sarebbe, da un lato, alle opportunità, per i soggetti adulti, sia di fare famiglia sia di lavorare e competere agli stessi termini con il complesso dei lavoratori e, dall’altro, alle opportunità, per i bambini, di formarsi e perseguire nel tempo il proprio piano di vita: il che richiede, quando si è bambini, di essere curati, istruiti e opportunamente socializzati.

Rispetto al disegno istituzionale, tre dovrebbero essere i pilastri principali. Vi è, innanzitutto, il pilastro dei trasferimenti monetari volti al sostegno del costo dei figli: per garantire l’eguaglianza di opportunità dei genitori potenziali di fare famiglia e dei figli stessi: è evidente che occorre disporre di denaro sufficiente.

Vi è, poi, il pilastro dei trasferimenti specifici. I trasferimenti monetari, infatti, sono risorse che indistintamente vanno ai genitori e potrebbero essere utilizzate per finalità anche estranee alla cura dei figli. Non garantiscono, dunque, pienamente le opportunità dei bambini di essere curati/istruiti/socializzati. Inoltre, tendono a riflettere le stratificazioni sociali, mentre i servizi permettono l’interazione fra diversi.

I servizi, peraltro, si rivelano strumento insostituibile ai fini anche della tutela delle opportunità di lavoro delle donne. L’occupazione delle donne, a sua volta, favorisce il contrasto alla povertà dei bambini, in particolare, in presenza di rotture del nucleo familiare. Naturalmente, cruciali sono le modalità di organizzazione dei servizi stessi.

Infine, vi è il pilastro delle politiche di conciliazione paritaria fra lavoro e responsabilità di cura, essenziali di nuovo per l’esercizio delle opportunità di essere genitori e lavoratori. La qualificazione in termini di conciliazione paritaria va sottolineata, intendendo per essa una conciliazione tesa ad abbattere norme sociali discriminatorie, attraverso l’assunzione di responsabilità di cura da parte uomini. Emblematico, a questo riguardo, il caso svedese. La Svezia ha da sempre politiche di conciliazione, eppure le donne restano discriminate in termini di remunerazioni e prospettive di carriera. Una conciliazione paritaria, invece, richiederebbe interventi correttivi, di incentivazione alla cura da parte degli uomini (come, quanto meno in parte, previsto dalla recente normativa tedesca sopra ricordata).

Certo, vi è sempre il rischio che anche politiche così strutturate non generino gli effetti desiderati in termini di natalità. Un approccio non natalistico non può, però, obbligare ad avere figli e neppure discriminare fra scelte di vita, penalizzando chi non ha figli e premiando chi li ha. Al contrario, deve assicurare le opportunità degli adulti di fare i genitori senza dovere rinunciare ad altre opportunità fondamentali, quali lavorare, e dei figli di perseguire e formarsi, nel tempo, il proprio piano di vita.

La parola passa ora alla dott. Francesca Utili.

Servizi essenziali e politiche di sviluppo

La dott. Francesca Utili (UVAL) rileva che i divari tra regioni in termini di servizi disponibili per i cittadini sono più ben più marcati rispetto a quelli noti in termini di prodotto pro capite o di tassi di occupazione.

L’implicazione in termini di responsabilità della politica economica è molto grave trattandosi di disparità territoriali in ambiti essenziali – le prestazioni sanitarie, la qualità dell’istruzione, i servizi di cura per l’infanzia e la popolazione anziana, la corretta gestione dei rifiuti o dell’acqua – per i quali dovrebbe essere garantito a tutti, indipendentemente dal luogo di residenza uno standard adeguato. Quali sono le conseguenze del fatto che meno di due bambini su 100 possono avere accesso in Calabria o in Campania a servizi di asili nido, o che i quindicenni con competenze scarse in matematica sono quasi uno su due, – circa il doppio rispetto ai loro colleghi sia delle altre regioni europee sia anche del resto del paese – sulle scelte possibili, sulle opportunità disponibili per chi si trova a vivere e lavorare in quei luoghi? E quali sono le speranze di innescare percorsi virtuosi per dare alle famiglie più servizi ed elevarne la qualità e garantire diritti fondamentali?

. Per quanto riguarda i servizi di cura, tradizionalmente affidati alle donne, l’assenza di servizi pubblici di livello adeguato contribuisce ad alimentare un circolo vizioso per cui la domanda del servizio è spesso inespressa perché scarsa è la legittimazione sociale a chiedere che altri, al di fuori del nucleo familiare, si facciano carico di quelle attività. E’ dunque necessario individuare anche modi efficaci per sostenere l’espressione della domanda anche a livello locale.

Il disegno del Quadro Strategico Nazionale per la politica di sviluppo per il 2007-2013 tiene conto di queste riflessioni finalizzando esplicitamente una parte delle risorse al sostegno di alcuni obiettivi essenziali per le condizioni di vita dei cittadini e l’attrattività delle aree, tramite un meccanismo innovativo di incentivazione delle Amministrazioni regionali al raggiungimento di obiettivi fissati. La partecipazione dei governi locali alla scelta dei temi e degli obiettivi e alla definizione delle regole è essenziale per la loro “ownership”, perché questi obiettivi – relativi nel caso della natalità agli asili nido e a tutti i servizi per l’infanzia – siano fatti propri e sostenuti dalla politica.

Il conseguimento dei risultati è sostenuto tramite un meccanismo di premio/sanzione allo scopo di dare maggiore visibilità e priorità ai temi prescelti nell’agenda dei politici e degli amministratori ai vari livelli: al raggiungimento da parte di ogni regione dei valori stabiliti per ciascuno degli obiettivi è collegato un premio finanziario di risorse.

Il meccanismo elaborato dal Dipartimento del Tesoro per le politiche di sviluppo è molto innovativo – per i temi scelti nell’ambito delle politiche di sviluppo e per la presenza dei meccanismi incentivanti applicati al comportamento di governi regionali – , e delicato perché molte e complesse sono le responsabilità condivise sui temi trattati e molti i fattori imprevisti che potranno nel corso degli anni influire sui risultati. A questo si aggiunge il fatto che l’utilizzo di valori quantificati, di “numeri”, per valutare il raggiungimento di risultati da parte di amministrazioni pubbliche, che gode oramai di una tradizione consolidata nei paesi anglosassoni, è piuttosto nuovo per le amministrazioni e per il dibattito italiano.

Tramite la diffusione pubblica di informazione sulla posizione di ciascuna regione rispetto alle altre e dei progressi fatti, si mira a indurre una maggiore consapevolezza da parte della popolazione residente, l’espressione della richiesta di migliori servizi e la responsabilizzazione di politici e amministratori locali. A questo scopo è stato attivato un apposito sito web (www.dps.tesoro.it/obiettivi_servizio ) con tutte le informazioni sul meccanismo e sugli obiettivi sui quali le Regioni si sono impegnate. Il fatto che gli obiettivi siano rappresentati da indicatori facilmente comprensibili, che corrispondono ai risultati finali delle politiche, comunemente utilizzati nel dibattito pubblico (quanta è la raccolta differenziata dei rifiuti urbani?; quanti sono i bambini che hanno accesso ad asili nido? Quali le competenze degli studenti quindicenni in matematica e in lettura?) elimina intermediazioni nell’interpretazione e comprensione dei risultati e permette a ogni cittadino di valutare l’efficacia delle politiche realizzate.

Dopo un breve intervento della dott. Laura Tagles che riprende i temi affrontati dalla prof. Granaglia e dalla dott. Utili circa il valore della quantità e qualità dei servizi offerti alla famiglia e all’infanzia prende la parola Luciano Barca.

Un problema reale per l’Italia

Luciano Barca, dopo aver manifestato il suo interesse e il suo apprezzamento per il dibattito e la ricerca conclusa, ricorda di avere sollevato nel corso della ricerca sterssa la questione se la domanda sull’utilità di favorire l’aumento degli abitanti del globo, nel momento in cui da varie fonti si annuncia una crescente scarsità di risorse, sia legittima.

I fattori da valutare sono molti e di varia natura e sembra giusta la decisione finale

fatta propria da Zollino e Piras di prescindere da fattori etici e religiosi e di concentrare la ricerca sulle implicazioni economiche della denatalità e su due entità territoriali: Europa e Cina. La distribuzione della popolazione sul globo e la presenza umana sulle varie terre è così diversa, come ha rilevato il prof. Todisco, che una risposta univoca per tutti i continenti e paesi, dalla Germania alla striscia di Gaza e alla Mongolia, appare impossibile su un piano culturale ed economico: non a caso in Cina o in India il problema che si pone è assai diverso e da quello dell’Europa.

Per l’Europa i dati sono, almeno per alcuni paesi, assai allarmanti: in Italia, in Spagna e in Grecia il tasso di fecondità oscilla tra l’1,27 e l’1,25. Un tasso che è assai lontano da quello necessario al rinnovo e incremento della popolazione,

La risposta per l’Italia alla domanda posta sulla necessità di intervenire nel pieno rispetto della libertà di scelta della donna per modificare la tendenza, rimuovendo gli ostacoli oggi posti alla crescita del tasso di natalità,non può dunque che essere positiva per più ragioni.

La prima è l’invecchiamento della popolazione. Fortunatamente la vita si allunga, anche grazie ad un sistema sanitario nazionale che molti paesi ci invidiano, e, se ciò ha molti aspetti positivi, ha anche un pesante aspetto negativo: un grave squilibrio del sistema pensionistico. L’affermazione che i giovani in diminuzione debbano mantenere un numero crescente di vecchi è del tutto falsa ed offensiva per le famiglie anziane dato che si è fortemente allungata la permanenza dei giovani nella famiglia (o a carico della famiglia originaria). Ma è indubbio che via via che peggiora il rapporto tra anziani e giovani il sistema pensionistico peggiora anch’esso, per lo meno nella struttura attuale che per alcuni anni risentirà della precedente concezione redistributiva. Più in generale un basso tasso di natalità crea diseconomie. Non si tratta – come ha sottolineato un convegno all’Accademia dei Lincei fin dal 2003 – solo di Welfare, ma anche di un freno alla produttività complessiva.

Già oggi la diminuita presenza di giovani sul mercato del lavoro crea vuoti che non possono essere riempiti da immigrati, estranei alle tradizioni del nostro artigianato o della piccola impresa. E’ in atto una perdita netta di posti di lavoratore autonomo, di tradizioni, di cultura contadina. Dobbiamo ringraziare agli immigrati per ciò che ci danno in termini di lavoro, ma il decremento di italiani pone il nodo dell’efficienza complessiva dell’Italia, del suo peso e prestigio culturale ed ecomico in Europa e nel mondo. Capire perché da noi la popolazione decresce più rapidamente che in altri paesi vicini è dunque un tema reale che può aiutare ad individuare e attuare gli interventi necessari

. Eurostat con una elaborazione del 2003 ha rilevato come l’incidenza della spesa per il sostegno alla famiglia (gravidanza, nascita, allevamento) rappresenti in Francia e nei paesi scandinavi il 12% della spesa sociale contro il 5 per cento dei paesi mediterranei e il 3,8 dell’Italia. Ma da quella rilevazione di dati del 2000 la Francia è andata ben oltre. Nel 2005 sono state adottate nuove importanti misure.

Ciò che colpisce è che il problema non sia percepito in Italia come importante e prioritario e che scarse siano le iniziative per proporlo all’attenzione di tutti nei termini opportunamente sottolineati dalla prof. Granaglia. Anche di coloro da cui dipende il più importante incentivo che è quello di garantire la certezza e la sicurezza del posto di lavoro e del salario e dare, così, sicurezza alla famiglia.uesto è un primo dato sul quale riflettere

Riprendendo il suo ruolo di presidente, Luciano Barca dà quindi la parola per l’intervento conclusivo al prof. Maurizio Franzini (La Sapienza Roma).

Le questioni demografiche e il disorientamento delle società contemporanee

Il prof. Maurizio Franzini rileva che le relazioni di Piras e Zollino e le interessanti considerazioni di tutti coloro che sono intervenuti nel dibattito, forniscono elementi di conoscenza e di valutazione molto ricchi e stimolanti rispetto alla questione, per numerosi aspetti cruciale, dell’evoluzione demografica, non soltanto nel nostro paese ma anche sull’intero pianeta. E’ superfluo affermare che la questione è estremamente complessa; forse è più utile chiedersi perché essa lo sia. L’impressione è che sulle principali questioni demografiche (la fecondità, l’evoluzione quantitativa della popolazione e il suo invecchiamento, i movimenti migratori) si scarichino le incertezze più profonde delle società contemporanee, tutto il loro disorientamento rispetto ad alcune fondamentali sfide. Provo – egli afferma – molto superficialmente, a abbozzare qualche ragionamento di sostegno a questa informazione.

E’ stato affermato, ed è certamente vero, che non si può facilmente stabilire quale sia l’estensione ottimale della popolazione. Vi sono, però, buone ragioni per ritenere che, nell’affrontare questa questione, dovrebbero essere opportunamente considerati i ritardi con i quali il mondo contemporaneo affronta, in tutti i loro principali aspetti, i problemi della sostenibilità ambientale e quello dell’accesso ad alcune essenziali risorse. Un mondo più attento a tali problemi, meno incerto nell’affrontarli, avrebbe certamente minori ragioni di carattere sociale per temere l’aumento di popolazione.

Sempre in tema di “popolazione ottimale” un ruolo diverso ma non meno importante è quello dell’invecchiamento della popolazione e dell’effetto che esso avrebbe sulla società e sull’economia. Normalmente l’invecchiamento viene visto con preoccupazione, soprattutto per gli effetti negativi che esso potrebbe esercitare sulle condizioni di vita dei giovani e sul loro benessere economico. Le preoccupazioni di un conflitto generazionale possono, talvolta, apparire eccessive non è, però, dubbio che le società contemporanee manifestano un grave ritardo nell’affrontare il problema e, dunque, accrescono l’incertezza rispetto all’evoluzione più desiderabile della popolazione.

Se ora si considera il problema della fecondità e delle scelte individuali, un elemento, sufficientemente provato – e particolarmente rilevante ai fini del ragionamento – è la frequenza con la quale le donne dichiarano di desiderare un numero di figli maggiore di quelli che hanno effettivamente avuto. Le ragioni di questa distanza tra desideri e realtà sono senza dubbio complesse e ricadono in ambiti diversi. Tuttavia esse segnalano un disagio che non viene colto da quegli approcci i quali riconducono i comportamenti a scelte “ottimizzanti” rispetto alle quali non dovrebbe emergere alcuna manifestazione di insoddisfazione. E’ molto probabile che a dare corpo a questo disagio sia, qui come in altri casi, l’incertezza non risolta che accompagna i momenti decisivi per le scelte. Il fatto che ex post emerga una diffusa delusione segnala un fallimento sociale, per porre rimedio al quale appare indispensabile approfondire – ed eventualmente estendere – l’analisi dei numerosi fattori di impedimento che il seminario ha portato alla nostra attenzione. L’impressione è che non si tratti soltanto di predisporre i pur essenziali servizi sociali a sostegno della natalità. Le ragioni dell’incertezza possono estendersi su orizzonti temporali assai più lunghi e riguardare sia i genitori che i loro eventuali figli, oltre che il grado di tolleranza rispetto a forme non comprimibili di incertezza. Anche per questo ritengo che sia necessario guardare a questioni di fondo, che toccano gli assetti economico-sociali e la cultura individuale.

L’analisi potrebbe continuare, ma il riferimento a problemi essenziali quali la sostenibilità ambientale, il rapporto giovani-anziani, l’incertezza individuale – diversi tra loro ma tutti influenti sul modo di valutare e spiegare le questioni demografiche – può essere sufficiente per dare fondamento all’affermazione che non è facile discutere i problemi della popolazione e della sua evoluzione senza affrontare i temi più gravosi e complessi che il mondo – pressochè nella sua interezza – ha di fronte, quelli rispetto ai quali più chiaramente affiora il disorientamento contemporaneo e un confuso ma preoccupante conflitto tra l’individuo e la società di cui è parte. Se ve ne fosse bisogno, crede che questo sia sufficiente a spiegare l’importanza della ricerca di “Etica e Economia” .

E.E.

Il tasso di fecondità totale o numero medio di figli per donna esprime la somma dei quozienti specifici di fecondità, questi ultimi calcolati rapportando, per ogni classe di età feconda (tra i 15 e i 49 anni), il numero dei nati vivi all’ammontare medio annuo della popolazione femminile.

Nelle proiezioni ONU, negli USA il saldo migratorio si confermerebbe nettamente positivo, contribuendo ad un aumento della popolazione dagli attuali 300 milioni a 400 nel 2050.

Livi-Bacci M. (2001), Too Few Children and Too Much Family, Daedalus, vol. 2, 139-155.

Le decisioni lavorative possono esse stesse risentire delle condizioni di accesso agli asili nido, soprattutto nei sistemi europei caratterizzati dal razionamento della domanda (Del Boca D. e Locatelli M. The determinants of motherhood and work status: a survey, CHILD Working Paper n.15, 2006)

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