ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 217/2024

15 Giugno 2024

Il merito e la mobilità sociale scomparsa

Francesco Farina si chiede: considerato che nella gran parte dei paesi avanzati la mobilità sociale di chi nasce in un contesto svantaggiato è oggi pregiudicata dalla bassa crescita, dalle crescenti disuguaglianze, e dall’essere relegato nel lavoro povero a causa di un precario accesso all’istruzione, che ruolo si può attribuire al concetto di merito? Per rispondere, Farina delinea alcuni degli argomenti che sviluppa nel suo volume “Il merito tradito. Perché la mobilità sociale è scomparsa” (Donzelli, 2024).

Il modo di pensare dominante ci ha abituati – quasi senza che ce ne accorgessimo, complice la fine delle ideologie dopo l’avvento del neoliberismo – a vederci come individui che si muovono nel mercato senza vincoli o impedimenti. I destini individuali non appaiono più condizionati da categorie ottocentesche. Prova ne sia che le classi sociali non sono più definite in base ai rapporti di produzione – gli imprenditori-proprietari di risorse da un lato, e i lavoratori salariati dall’altro – e neppure in base all’evoluzione verso la società interclassista, dopo l’ascesa dei ceti medi fra i due gruppi fondamentali, e dei servizi a settore che produce la quota maggiore del Pil. Un segno dei tempi è lo slittamento lessicale verso la definizione dei gruppi sociali in termini puramente generazionali. L’elenco delle classe sociali viene stilato in base ad una classificazione per coorte di nascita: i Baby boomers (1946-1964); la Generazione X (1965-1980); i Millennials (1981-1996); la Generazione Z (i nati tra i medio-tardi anni Novanta del XX e i primi anni 2010).

Nel mondo neoliberista degli individui “liberi ed eguali” tende ad essere sottaciuto un aspetto fondamentale della realtà economico-sociale in cui viviamo. L’enorme espansione dell’interazione sociale pone al centro la questione delle esternalità che si sviluppano in un contesto capitalistico di libero mercato. Un’esternalità negativa sorge quando un soggetto influenza il benessere di un altro soggetto, senza che questi ne abbia responsabilità e senza che riceva una compensazione. Una società in cui la libertà di un individuo viene limitata dall’agire degli altri non è d’altronde una società in cui la libertà di tutti sia rispettata. Il funzionamento del sistema economico guidato dal profitto di breve periodo, perseguito dalle grandi imprese e dalla finanza, appare sempre più distante dall’idea di J.S. Mill della libertà come diritto a non subire esternalità negative in seguito alle azioni altrui. Le limitate chance di una buona vita delle persone “svantaggiate” – prima del mercato e nel mercato – sono il riflesso di esternalità negative. La compressione della libertà dei soggetti svantaggiati è un’enorme iceberg, di cui nella realtà dei mercati in cui operiamo non vediamo che la punta. Gli esempi più eclatanti sono però sotto gli occhi di tutti: la disoccupazione tecnologica, che sta cancellando anche molte posizioni a media qualificazione; il licenziamento collettivo, perché una multinazionale può chiudere l’impianto per delocalizzarlo in un paese a più basso salario; lavori poveri e privo di tutele, operati da un’anonima piattaforma digitale. Queste, e tante altre, sono tipiche situazioni del mercato del lavoro che riflettono esternalità negative riconducibili all’asimmetria di potere fra impresa e lavoratori. L’evoluzione del sistema produttivo guidata dal movente del profitto fa poi sì che uno stesso livello di impegno lavorativo venga remunerato diversamente a seconda del diverso grado di avanzamento tecnologico del tessuto produttivo in cui il lavoratore è inserito, dall’impresa grande o piccola in cui è occupato, e così via.

Per analizzare i fenomeni di esternalità, è indispensabile un quadro interpretativo che dia spazio all’analisi delle esternalità. L’agire individuale andrebbe esaminato nel contesto dell’”interdipendenza sistemica” fra le persone (si veda Francesco Farina, Lo Stato sociale. Storia, politica, economia, Luiss University Press, 2021). Se invece il merito può essere presentato come un concetto che vanta il crisma dell’evidenza oggettiva è proprio perché è il concetto-chiave della nuova “costellazione delle idee” della società senza classi, perché è l’espressione dell’individuo quale homo faber suae fortunae. Una volta abbandonate le ideologie, il guadagno tende ad essere considerato un merito acquisito dal singolo individuo in piena autonomia, il puro corrispettivo dell’impegno lavorativo. La produzione non è tuttavia un’attività solipsistica, ma una joint venture che risente delle interdipendenze e dalle diseguaglianze che attraversano la società. “Guadagnare” e “meritare” sono separati dalle tante forme in cui si manifesta l’asimmetria di potere che nel contesto dell’”interdipendenza sistemica” caratterizza l’economia capitalistica. L’idea che il livello della remunerazione possa essere univocamente ricondotto all’impegno personale sul lavoro è resa debole sia dalla crisi della mobilità assoluta – “la marea che porta su tutte le barche”, oggi frenata da tassi di crescita molto bassi – sia, e ancora di più, dalla crisi della mobilità sociale relativa, che penalizza soprattutto i ceti subalterni. L’ascesa o la caduta lungo i gradini della scala sociale è ad esempio pesantemente influenzata – senza responsabilità del lavoratore – dall’impatto che il progresso tecnico e la globalizzazione hanno sulla creazione e sulla conservazione dei posti di lavoro. Le innovazioni di prodotto e di processo derivano naturalmente dalle conoscenze scientifiche che la ricerca rende disponibili. Il comando delle imprese sull’impiego del progresso tecnico fa tuttavia sì che la creazione dei posti di lavoro e l’andamento delle remunerazioni salariali siano sempre più finalizzate al conseguimento del profitto e sempre meno all’esigenza della società di espandere occupazione e benessere in modo da favorire l’inclusione sociale.

La dinamica che si sviluppa all’interno della stratificazione sociale è un processo tutt’altro che naturale. Se il contesto non è quello del “contratto sociale” ma del “conflitto sociale”, la mobilità sociale relativa è il risultato della competizione fra le persone per salire i gradini della scala del reddito, e dalla contrapposizione fra i gruppi sociali nell’accrescimento del rispettivo livello di benessere. La mobilità verso l’alto o verso il basso viene innanzitutto condizionata da un quadro di opportunità individuali che è profondamente segnato da ciò che avviene nell’ambito della famiglia e dell’ambiente sociale di cui si è parte alla nascita. Prima del mercato, i diseguali livelli di reddito e di cultura della famiglia di origine – che causano la diseguaglianza delle “circostanze” fra i giovani, e il loro diseguale accesso alle opportunità di istruzione – hanno già esercitato il loro effetto. Al momento dell’ingresso da adulti nel mondo del lavoro, poi, giocano un ruolo decisivo la diversa capacità di guadagno che il mercato ha dato l’opportunità di acquisire e le molte “imperfezioni del mercato” che riflettono l’asimmetria di potere nelle varie dimensioni del benessere individuale e nei vari contesti della sfera socio-economica. La possibilità che i talenti dei giovani appartenenti a famiglie “svantaggiate” riescano ad emergere è a questo punto, almeno in parte, compromessa. Innumerevoli indagini empiriche concordano nel dimostrare quanto elevata sia la probabilità che i giovani di oggi raggiungano uno status economico e sociale inferiore a quello dei genitori. L’impasse della mobilità non riguarda tuttavia allo stesso modo tutti i giovani delle nuove generazioni che si affacciano nel mercato del lavoro. A dover temere questo esito con una probabilità enormemente più alta sono i giovani che provengono da famiglie “svantaggiate”. La mobilità intergenerazionale di reddito e di status sta diventando un privilegio.

Il neoliberismo ha portato ad un radicale cambio di scenario anche nel discorso pubblico. In democrazia, il bisogno delle persone di immaginare il proprio futuro dovrebbe spingere le classi dirigenti a proporre idee-guida di fiducia nel futuro. Per trarre legittimazione presso una popolazione estremamente frammentata per opinioni ed interessi, il sistema politico ed economico dovrebbe ricorre a segnali concreti di capacità di governo e di progresso. Il più importante, appunto, è poter vantare una buona capacità di promuovere la mobilità sociale. Il fatto è che quando la società è segnata da una forte asimmetria di potere, le persone sono diseguali nei loro diritti e la mobilità sociale risulta gravemente ostacolata. Quella che viene proposto da governi rassegnati ad accettare l’egemonia culturale neoliberista è la ricetta del trickle-down: affinché la crescita economica possa rinvigorirsi, per poi “scorrere” lungo i gradini della scala sociale fino ai più poveri, occorre dare più soldi da investire ai ricchi, e al contempo ridurre il salario dei lavoratori poco qualificati se si vuole favorirne l’occupazione, per quanto precaria. Una ricetta, questa, che ha i contorni del ritorno alla divisione in caste, alla società gerarchica medioevale. È dall’assenza di proposte e di segnali più credibili e più rassicuranti che nasce la “crisi della democrazia”. La tendenza a lasciare che la società nell’adattarsi al mercato si disarticoli – rinunciando ad includere “chi sta indietro” – genera una crescente disillusione nei cittadini. Dopo l’abbandono dell’obiettivo della democrazia economica, prodotta dall’avvento del neoliberismo, rischia oggi di crollare anche l’argine della democrazia politica. I segnali si susseguono sempre più numerosi.

Un orientamento dell’istruzione all’empowerment dei giovani “svantaggiati” rappresenta il primo, fondamentale, fattore di accrescimento del grado di salute di una società democratica. Gli ostacoli all’accesso di questi giovani ad un elevato livello educativo continuano però ad essere molto forti. In tutti i maggiori paesi avanzati “l’élite dell’istruzione d’eccellenza” tende a coincidere con “l’élite del danaro”. L’equivalente dell’obiettivo dei nobili del ‘700 di assicurarsi un erede maschio al quale trasmettere il proprio titolo nobiliare è rappresentato dall’obiettivo dei genitori ricchi di trasmettere l’opportunità di guadagni elevati ai propri figli, attraverso un ingente investimento di danaro in un’istruzione di eccellenza presso le università d’élite. Se è vero che l’organizzazione educativa rappresenta una formidabile spinta per l’attivazione della dinamica sociale, il suo ancoraggio all’obiettivo “dell’eguaglianza dei punti di partenza” – dagli asilo-nido pubblici a un’organizzazione dell’istruzione universitaria fondata sulla residenza e sulle borsa di studio per gli studenti “svantaggiati” – è un compito di primaria importanza, in pari modo per il benessere dei singoli e per il benessere della collettività. Le nazioni avanzate dovrebbero mettere mano alle politiche pubbliche necessarie ad avviare a soluzione il problema dell’acquisizione da parte di tutti delle capacità necessarie a realizzare il proprio progetto di vita. Nell’epoca del neoliberismo, questo fondamentale compito – che ha a che fare sia con il sistema d’istruzione, sia, più in generale, con la distribuzione del potere fra i gruppi sociali – sembra tuttavia uscito dall’agenda dei governi.

La mobilità sociale si è fermata perché sviluppo non è più sinonimo di progresso. Queste due parole racchiudevano in sé la centralità dell’individuo, ma intendevano lo sviluppo individuale come l’empowerment di tutti i giovani, soprattutto di quelli che ai “blocchi di partenza” della vita partono indietro. Nella serrata competizione nei mercati globalizzati l’assoggettamento delle innovazioni tecnologiche all’obiettivo del profitto a breve termine sta riducendo le opportunità di “meritare” attraverso l’impiego in “buoni lavori” Ciò nonostante, l’idea del “merito” viene propagandata nel dibattito pubblico in un’accezione individualistica diretta a mascherare le diseguaglianze di fondo che compromettono la valenza etica del concetto. Lo svantaggio di partenza dei giovani appartenenti a famiglie disagiate non viene colmato dalle politiche pubbliche, che hanno ormai abbandonato l’obiettivo della coesione sociale. Questo svantaggio getta luce sul tradimento dell’idea vera di merito: il diritto di tutti i giovani, quale che sia il contesto in cui diventano adulti, a mettere alla prova i propri talenti per farli fiorire e realizzare il proprio progetto di vita.

Il libro sviluppa l’argomento della mobilità sociale in modo interdisciplinare, sottolineando le interrelazioni dell’analisi economica della mobilità sociale con la sociologia e la filosofia politica. Si tende a sottovalutare come la mobilità sociale andrebbe valutata con riferimento ad ambedue gli obiettivi dell’efficienza e dell’equità. La sostanziale impasse della mobilità sociale non è solo l’effetto di una crescita economica molto lenta e discontinua. E’ sempre di più il risultato della perdita di efficienza che il sistema economico subisce a causa della mancata emersione dei talenti di tutti i giovani. Questo è “il” problema della società in cui viviamo. È indispensabile un intervento correttivo del sistema capitalistico all’insegna di un «universalismo differenziato». Per impedire che l’ideologia neoliberista finisca per favorire il ritorno ad una società di caste separate, le politiche pubbliche devono attribuire un valore maggiore al benessere di chi è svantaggiato. La «società giusta» è quella che realizza l’«equità nell’istruzione». Per rendere gli individui eguali l’unica via è trattarli in modo diseguale. La “stella polare” di un auspicabile ritorno alla democrazia solidale dovrà essere il sostegno in tutti i gradi dell’apprendimento ai giovani ai quali l’ambiente famigliare e sociale preclude un futuro dignitoso.

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