ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 216/2024

1 Giugno 2024

Rinnovare il Green Deal per rilanciare l’economia europea

Paolo Guerrieri, sulla base del suo recente libro con Pier Carlo Padoan (Europa Sovrana. Le tre sfide del Nuovo Mondo) sostiene che la strategia europea di transizione ambientale ha prestato scarsa attenzione agli sfasamenti temporali tra costi e benefici e alla asimmetrica distribuzione dei costi di aggiustamento e considera necessario un ripensamento delle politiche europee del Green Deal lungo tre direzioni: maggiore condivisione sociale, politiche industriali comuni, adeguati finanziamenti anch’essi comuni.

Ancora prima della crisi pandemica e fin dall’insediamento della Commissione Von der Leyen alla fine del 2019, l’Europa si è data con il Green Deal ambiziosi obiettivi per il raggiungimento della neutralità climatica, in termini di riduzione delle emissioni di gas serra del 55% entro il 2030 e raggiungimento di emissioni zero nel 2050. Venne poi deciso fin da subito di trasformare il Green Deal in una strategia di crescita sostenibile dell’Unione, dal punto di vista ambientale e sociale, ispirata alla doppia trasformazione verde e digitale.

La transizione verde venne così vista come l’opportunità di modernizzare e rilanciare l’economia europea, dopo la sua modesta performance nell’ultimo decennio, soprattutto se comparata a quelle di Stati Uniti e Cina. Una riconversione necessaria in quanto la crisi energetica unitamente ai conflitti geopolitici ha fatto perdere competitività e rimesso in discussione la struttura produttiva dei paesi europei, ancora troppo incentrata sull’energia importata a basso costo dalla Russia di Putin, su comparti a medio-bassa tecnologia e sul traino delle esportazioni nette verso il resto del mondo, in particolare verso la Cina e l’Asia del Pacifico. Una conferma è venuta dalla fase di grandi difficoltà attraversata in questi anni dalla Germania e dalla sua industria manifatturiera.

Tutto ciò rappresenta, è evidente, una grande e difficile sfida per l’Europa. Il processo di risanamento ambientale e di maggiore sicurezza energetica va perseguito unitamente al rilancio della competitività dell’industria europea, intrecciando tra loro politiche per contrastare il cambiamento climatico e politiche industriali e tecnologiche.

Ed è questa la strada che l’Unione ha cominciato a seguire ma con risultati che si sono rivelati, almeno finora, inferiori alle attese. Il contributo agli investimenti verdi del settore privato, ad esempio, è stato finora molto inferiore al fabbisogno annuo stimato necessario per la transizione ecologica e digitale. Altrettanto serio è il problema che interessa la maggioranza dei paesi europei e riguarda il ridimensionamento di numerosi progetti di investimenti in rinnovabili dei grandi gruppi di utilities. Ancor più preoccupanti sono le forti proteste e contestazioni generate dalle politiche e misure di transizione verde varate dalla Commissione. Con gli agricoltori in prima fila, ma spalleggiati da molti altri settori e categorie.

Come si sosterrà in questo articolo la nuova Commissione e il nuovo Parlamento europei dovranno affrontare seriamente nella nuova legislatura che si aprirà a settembre prossimo la questione della gestione della transizione verde e del consenso che è necessario alla sua attuazione. Non può essere considerata in effetti una risposta efficace quanto avvenuto finora ovvero il rinvio, le modifiche o l’annullamento delle misure più controverse. In realtà, vanno in parte riformulate e/o integrate con pragmatismo e lungimiranza alcune politiche e misure da adottare per la transizione ecologica lungo direzioni che verranno indicate qui di seguito.

Il mix di strumenti micro e macroeconomici di una strategia di transizione. Si possono delineare in estrema sintesi le caratteristiche principali di una strategia per affrontare dal punto di vista economico il cambiamento climatico (J. Pisani-Ferry e S. Mahfouz, Les incidences économiques de l’action pour le climat, France Stratégie, 2023), mettendo in evidenza i seguenti aspetti:

i) Lo sforzo per contrastare il cambiamento climatico è enormemente dispendioso e richiederà un notevole ammontare di tempo per essere pienamente dispiegato. La tentazione di ritardare la sua implementazione comporterebbe solamente un aumento dei costi della transizione e andrà pertanto contrastata.

ii) La strategia di crescita sostenibile si deve basare su tre pilastri: investimenti per rimpiazzare il capitale ad alta intensità energetica con capitale verde; risorse per facilitare la transizione verso un nuovo paradigma di consumi e welfare; risorse per attivare investimenti in direzione di innovazioni che sono necessarie per completare la transizione.

iii) Benefici in termini di crescita della produttività si materializzeranno solo nel lungo periodo. Nel breve e medio periodo la produttività tenderà, viceversa, a rallentare a causa dell’aumento degli investimenti e dei costi per sostituire il capitale marrone (la cosiddetta ‘tragedia dell’orizzonte temporale’).

iv) All’inizio saranno gli investimenti pubblici a guidare la transizione, mentre quelli privati diventeranno più significativi e addirittura determinanti a medio e lungo termine. Il coinvolgimento del settore privato richiederà incentivi adeguati e un insieme di strumenti all’altezza della sfida, compresi la tassazione dell’inquinamento, i sussidi alla R&S e all’innovazione e la regolamentazione

Sono queste delle linee guida alle quali anche la strategia seguita fin qui dall’Europa appare essersi attenuta. Ma solo in parte. I maggiori scostamenti che sono alla base delle difficoltà e dei problemi oggi da fronteggiare riguardano, soprattutto, tre fronti: la gestione del consenso di cittadini e imprese riguardo alle politiche adottate; le politiche industriali e tecnologiche a complemento delle misure ambientali varate; il finanziamento delle politiche di intervento e la copertura dei costi dei processi di aggiustamento..

L’asimmetrica distribuzione dei costi di aggiustamento. Il cambiamento climatico è certamente una battaglia fondamentale per il futuro dell’umanità, e non c’è dubbio che i benefici futuri in termini di sostenibilità ambientale e nuove opportunità economiche saranno superiori agli investimenti e ai costi da sostenere. Ma i costi della fase di transizione sono elevati e vanno sostenuti oggi e subito. In primo luogo, per sostituire – semplificando al massimo – l’attuale stock di capitale altamente inquinante con il nuovo capitale pulito e a emissioni zero. Con la complicazione di profonde differenze nella distribuzione di questi costi, dal momento che a sostenere i maggiori oneri in termini relativi sono i gruppi di cittadini meno abbienti e le imprese e i settori più energivori e marginali. I ritorni e i benefici si potranno riscuotere, viceversa, a medio e lungo termine.

Sono necessarie, dunque, una strategia e delle misure che si facciano carico sia di questo sfasamento temporale tra costi concentrati nell’immediato e benefici proiettati in un orizzonte temporale di medio e lungo termine, sia dell’asimmetrica distribuzione tra cittadini e imprese dei costi della transizione. E non si può certo dire che le strategie e politiche europee finora adottate abbiano adeguatamente fronteggiato questi problemi. A giugno 2021 è stato istituito il Fondo per la transizione giusta per contrastare le conseguenze economiche e sociali nelle aree più fragili ma dotandolo per l’intero periodo 2021-2027 di soli 20 miliardi di euro. Più interessante il Fondo sociale per il clima varato nel maggio 2023 per contribuire a una transizione socialmente equa e dotato di 65 miliardi di euro, provenienti parte dal bilancio Ue e parte da cofinanziamenti degli Stati membri, ma diverrà operativo solo a partire dal 2026.

Bisognerà dunque fare di più e meglio su questo fronte, soprattutto di fronte all’estensione al settore immobiliare e dei trasporti e quindi a milioni di utenti e cittadini delle misure di riconversione energetica necessarie. A questo riguardo realismo e pragmatismo significano politiche che si facciano carico delle distorsioni esistenti, introducendo adeguate misure per mitigare i costi della transizione e la loro iniqua distribuzione. Altrimenti, sarà difficile vedere un adeguato incremento dei consensi. Anche perché partiti e movimenti politici della galassia dei sovranismi nazionali stanno sfruttando a loro vantaggio i disagi dei ceti e settori più colpiti e vulnerabili.

Si può così aggiungere che la progettazione di tali misure sarà una delle sfide principali per la nuova Commissione ed i Paesi dell’UE nella prossima legislatura europea.

Politiche industriali e scala europea degli interventi. La competitività e le politiche industriali dell’Unione sono temi profondamente intrecciati a quelli ambientali. È un fatto noto come l’Europa abbia perso competitività in questo ultimo decennio rispetto a Stati Uniti e Cina, soprattutto in termini di capacità tecnologica. Per recuperare il terreno perduto serve riqualificare l’offerta produttiva europea attraverso uno spostamento dell’allocazione delle risorse da produzioni ad alta intensità energetica verso comparti industriali a minore intensità di energia e tecnologie verdi e digitali.

La finalità di una strategia industriale europea cosiddetta ‘verde’ va pertanto al di là dei tradizionali obiettivi di aumento della produttività e di stimolo all’innovazione e comprende quelli di sostenibilità ambientale e resilienza strategica. È una sorta di ‘polilemma’ che pone ai paesi europei molteplici trade-off di grandi complessità da gestire e a più livelli, domestico, europeo e globale. Scelte alternative – va detto – che sono state comprese, almeno finora, assai poco dall’Unione e dai singoli Stati membri.

Non è questa la sede per soffermarsi in dettaglio su ciò che sia necessario fare per favorire la riconversione verde industriale. Mi limito a sottolineare a livello più generale che un contributo fondamentale deve venire da una comune politica industriale e tecnologica dell’UE, che consenta di superare posizioni nazionali divenute oggi inefficienti. Il rischio di un decentramento nei singoli paesi membri della risposta europea è che si consolidi la fase in corso di allentamento dei vincoli agli aiuti statali, cosicché i paesi finanziariamente più forti ne traggano vantaggio perseguendo politiche prettamente nazionali. Il prezzo sarebbe di minare la coesione e il buon funzionamento del Mercato interno.

Servono, invece, iniziative e interventi su scala europea come la formulazione di una versione europea della DARPA degli USA con il compito di sviluppare tecnologie per trasformazioni di base e non solo incrementali. Tutto ciò per fornire uno shock tecnologico positivo attraverso la diffusione di nuove ‘General Purpose Technologies’, quali l’intelligenza artificiale, così da innescare processi di accelerazione della crescita a livello europeo.

Tutto ciò è tanto più importante in quanto nel caso dell’Europa il futuro dell’industria condizionerà da vicino – come detto – l’evoluzione e l’esito finale dell’intero processo di transizione ecologica dell’Europa.

Il gigantesco problema delle risorse finanziarie. Infine, c’è il grande problema del finanziamento delle politiche di intervento in campo ambientale e industriale unitamente ai costi dei processi di aggiustamento. Le simulazioni effettuate presentano stime molto diverse. Ma convergono nel prevedere livelli molto elevati di spesa complessiva e quindi ingenti risorse finanziarie da dover reperire.

I calcoli della Commissione hanno finora sottovalutato sia il gigantesco impegno finanziario da sostenere sia i modi con cui farvi fronte. Va aggiunto che le misure di politica ambientale sono state finora prevalentemente decise a Bruxelles ma i costi per sostenerle si sono riversati in larga misura sui singoli Stati nazionali.

È evidente che una tale divisione del lavoro non è più sostenibile in futuro. Ancor più perché le nuove regole del Patto di stabilità e crescita entrate in vigore quest’anno hanno ristretto ancor più gli spazi fiscali di intervento di molti paesi europei e non consentiranno di fatto il finanziamento da parte dei singoli Stati membri delle spese in tema di doppia transizione, ambientale e industriale.

A parte auspicare una revisione di tali regole, tutto ciò renderà ancor più necessario il reperimento di risorse finanziarie a livello comune europeo. Qui le strade percorribili possono essere più d’una, dalla riforma e incremento del bilancio dell’Unione, oggi del tutto inadeguato a finanziare le ambiziose politiche che l’Unione si prefigge di implementare; al varo di un nuovo fondo e progetto comune come follow up del Next Generation Ue che si prefigga di creare debito europeo per finanziare parte delle spese della doppia Transizione, anche considerato che molti benefici di quest’ultima si realizzeranno in tempi relativamente lunghi; fino alla creazione di una capacità fiscale comune, pur inizialmente limitata, alimentata da risorse attivate a livello dell’Unione. Per non parlare della creazione di un vero mercato dei capitali integrato a livello europeo che rappresenta un passaggio obbligato in tema di futuri investimenti per la crescita sostenibile e il loro finanziamento.

È evidente che la mancata soluzione dei problemi di finanziamento comporterà un rallentamento o, peggio, una sospensione del processo di transizione ecologica. Al contrario, una riformulazione della strategia e delle politiche che animano la transizione ambientale dell’Europa in termini di maggiore pragmatismo e più condivisione sociale dovrà consentire di percorrere con rinnovata forza e determinazione il processo di decarbonizzazione. In Europa Sovrana. Le Tre sfide del Nuovo Mondo (Laterza, 2024)offriamo, con Pier Carlo Padoan, ulteriori spunti per dimostrare come un Green Deal rinnovato e rafforzato possa davvero servire a rilanciare l’economia europea, al pari di quanto avvenuto in passato grazie ad altri grandi progetti di trasformazione dell’Ue, quali la costruzione del Mercato interno e l’Unificazione monetaria. Anche perché non vi è nulla di più importante che contrastare il disastro climatico. E il tempo a disposizione è ormai davvero scarso.

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