ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 216/2024

1 Giugno 2024

Dimensione e struttura dei contratti collettivi nazionali di lavoro

Roberto Romano e Valerio Venditti analizzano il tema della contrattazione collettiva nazionale, basandosi su un più ampio articolo recentemente pubblicato su “Moneta e Credito”. Gli autori analizzano il rapporto tra distribuzione funzionale e settoriale del reddito, da un lato, e numero di lavoratori coinvolti nei contratti collettivi e valore aggiunto sottostante ogni contratto, dall’altro e sostengono l’importanza di definire un benchmark quali-quantitativo per riscrivere la matrice dei contratti collettivi nazionali.

Questo articolo prende le mosse da un lavoro sull’attuale articolazione dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL), il cui numero è oggi superiore a 1.300 (D. Rapiti, R. Romano, V. Venditti, “Dimensione e struttura dei contratti collettivi nazionali di lavoro”, Moneta e Credito, 2024) . La crescita dei CCNL ha ridotto sia il numero di lavoratori per ogni contratto sia il valore aggiunto sotteso alle rivendicazioni dei sindacati, in particolare di CGIL-CISL-UIL; infatti, la crescita del numero dei CCNL, non è legata solo ai cosiddetti contratti pirata: gli accordi sottoscritti dalle principali organizzazioni sindacali registrano un aumento continuo e progressivo. Attualmente tali contratti sono oltre 200, riducendo così il potere contrattuale di ciascun CCNL, sebbene nel complesso la rappresentanza sindacale di CGIL-CISL-UIL sia notevole, coinvolgendo poco più di 14 mln di lavoratori, pari al 96% dei lavoratori coinvolti dai CCNL.

La polverizzazione dei CCNL ha indebolito la rappresentanza sindacale e frammentato l’impatto di ogni contratto nazionale di settore. Il paper pubblicato su Moneta e Credito analizza il sistema della contrattazione collettiva nazionale non solo in Italia, ma anche in Germania, Francia e Spagna. In queste note concentreremo, però, le nostre riflessioni sul rapporto tra salario e valore aggiunto settoriale a livello nazionale, sul numero dei lavoratori coinvolti nei contratti collettivi e le rispettive quote salariali sul valore aggiunto. Scopo di queste riflessioni è mostrare l’importanza di riscrivere la matrice dei contratti nazionali alla luce di due criteri: un numero adeguato di lavoratori per contratto e valore aggiunto sottostante ogni contratto. Infatti, nella nostra valutazione è importante costruire un benchmark quali-quantitativo per ridurre il numero dei contratti collettivi nazionali di lavoro in Italia, in modo da restituire ai sindacati la forza contrattuale necessaria per adempiere al ruolo di “autorità salariale”.

Il problema va inquadrato nel contesto del conflitto tra capitale e lavoro, nel quale la dominanza dell’uno sull’altro, esplicitata chiaramente dalla distribuzione del reddito in misure differenti tra le due parti, condiziona le principali variabili macroeconomiche: consumi, investimenti, uscite ed entrate fiscali, ricerca e sviluppo e PIL.

L’attuale ripartizione del reddito da lavoro. Per indagare la distribuzione del reddito nazionale, abbiamo considerato e comparato l’Italia con Francia, Germania e Spagna, i quali rappresentano quasi l’80% del PIL dell’Area Euro. L’Italia manifesta una forte diminuzione della quota salariale sul valore aggiunto a partire dalla metà degli anni Settanta (50,4% nel 1975), fino all’inizio degli anni Duemila (41,1% nel 2001). Soltanto dal 2002 si registra una debole ripresa di tale quota, che torna a livelli simili a quelli dell’inizio degli anni Novanta (44,8% nel 2019). Questa tendenza, sebbene a livelli più alti, si registra anche negli altri Paesi considerati: nel 2019 la quota salariale sul rispettivo valore aggiunto di ogni Paese è pari al 50,8% in Spagna, al 57,3% in Germania e al 58,2% in Francia, mentre la quota di profitto sul valore aggiunto passa dal 21% del 1975 al 35% del valore aggiunto nel 2019.

Se analizziamo il reddito da lavoro settoriale (NACE-ATECO) rispetto al valore aggiunto nazionale tra il 1990 e il 2019, escludendo i settori pubblici, sostanzialmente regolati da proprie norme contrattuali, identifichiamo alcuni settori in cui la quota dei salari nella distribuzione del reddito primario raggiunge livelli più elevati: manifattura (56,8%), approvvigionamento idrico, fognature, gestione dei rifiuti e attività di bonifica (58,3%), costruzioni (45,9%), trasporto e stoccaggio (46%), servizi di alloggio e ristorazione (46,4%), attività finanziaria e assicurativa (44,7%), attività amministrative e di servizi di supporto (58.4%).

La figura 1 (“Quota salariale sul valore aggiunto per media degli addetti coinvolti nei CCNL”) restituisce l’evoluzione del numero dei lavoratori per contratto in ogni settore, contraddistinto dalla relativa lettera ATECO-NACE. Ovviamente questa rappresentazione non è esaustiva; la quota di salario sul valore aggiunto coperto da ogni CCNL non è disponibile e ciò condiziona l’analisi circa la capacità di ogni CCNL di erodere quote di valore aggiunto al profitto. Un limite informativo che non inficia l’idea di come riscrivere la matrice dei contratti collettivi nazionali di lavoro, cioè riducendo il numero dei CCNL e aumentando il potere contrattuale dei lavoratori.

Nostra elaborazione su dati OECD.STAT e CNEL

Struttura e dimensione dei contratti nazionali di lavoro CCNL. La classificazione dei contratti collettivi nazionali per settore è problematica; con il passare degli anni i CCNL sono sempre meno allineati alla nomenclatura ATECO-NACE e sono aumentati in misura eccessiva, non realizzando una classificazione omogenea a livello europeo, la quale consentirebbe efficaci analisi comparative e una più idonea integrazione all’interno dell’Unione.

In generale, la media dei lavoratori coinvolti per CCNL sottoscritto da CGIL-CISL-UIL è pari a 63.937 addetti; 38 CCNL superano questa soglia, mentre 168 restano al di sotto. In particolare, i primi 38 contratti collettivi coinvolgono 11.629.156 lavoratori (pari all’83.7% del totale), mentre i restanti 168 contratti rappresentano 2.270.100 addetti (pari al 16,3% del totale). La tabella 1 (Ripartizione dei contratti di CGIL-CISL-UIL che coinvolgono almeno 63.937 lavoratori) mostra il livello e la profondità della frammentazione dei CCNL nazionali.

Ipotesi di riforma dei CCNL. Il numero di lavoratori coinvolti e il valore aggiunto contrattato potrebbero concorrere a realizzare un benchmark (idealtipo) di CCNL che eviti l’ulteriore crescita dei CCNL. Il primo criterio, legato al numero di lavoratori coinvolti per CCNL, cerca di superare la frammentazione dei contratti collettivi; spesso il numero degli addetti coinvolti per CCNL è troppo piccolo e riduce il potere contrattuale con la controparte datoriale. Se i CCNL fossero standardizzati alla media dei lavoratori coinvolti per contratto (63.937), le rivendicazioni salariali potrebbero essere più efficaci. In alternativa, si potrebbe utilizzare come benchmark, per la ricomposizione dei CCNL, la media dei lavoratori coinvolti per CCNL nei settori che attualmente risultano competitivi all’interno del conflitto tra capitale e lavoro, ossia i settori nei quali la quota salariale è superiore rispetto alla media. In tali settori il numero medio di addetti per contratto è pari a 110.000, valore che potrebbe essere proposto come soglia minima.

Il secondo criterio, relativo alla percentuale di valore aggiunto minimo per ogni contratto, permetterebbe di aumentare la quota di valore contrattato in ogni CCNL, in particolare i 168 CCNL precedentemente citati, che attualmente coinvolgono meno di 2 milioni di lavoratori, ponendo una soglia minima dell’1% del valore aggiunto nazionale per ogni contratto, si ridurrebbero a 38 CCNL.

Infine, è anche possibile considerare un’altra via per regolamentare la frammentazione dei contratti di lavoro, senza compromettere la libertà delle parti nello stipulare il contratto: si potrebbe “importare” il modello tedesco all’interno della contrattazione collettiva italiana. Il Ministero federale del Lavoro e degli Affari Sociali tedesco, infatti, in accordo con un comitato composto da tre rappresentanti delle organizzazioni principali dei datori di lavoro e dei lavoratori, su richiesta congiunta delle parti contraenti del contratto collettivo, può dichiarare un contratto collettivo generalmente vincolante per la restante parte del settore economico, se la dichiarazione di vincolo generale appare necessaria nell’interesse pubblico.

In sintesi, ridurre il numero dei contratti e associarli ai codici NACE non è una via semplice per modificare gli assetti contrattuali, piuttosto è una soluzione per semplificare la contrattazione nazionale tra sindacati e rispettive controparti e, allo stesso tempo, assegnare un potere contrattuale a tutti i lavoratori che diversamente sarebbero rappresentati all’interno di contratti aventi una dimensione troppo limitata per avanzare una qualsiasi rivendicazione.

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