ALL'INTERNO DEL

Menabò n. 216/2024

1 Giugno 2024

Chi ha paura del Welfare State ora?

Anton Hemerijck e Manos Matsaganis illustrano le tesi principali contenute nel loro recente libro, il cui titolo (Chi ha paura del Welfare State, ora?) rende sintetizza la più generale e forse anche la più ‘provocatoria’ di esse: siamo entrati (quasi senza accorgercene) in una nuova epoca di consenso nei confronti del Welfare State. Un consenso fondato sull’idea che robusti sistemi di protezione sociale, se ben disegnati, rendono le nostre economie più dinamiche, le nostre società più serene, e le nostre democrazie più forti.

Il titolo del nostro libro (Who’s Afraid of the Welfare State Now?, Oxford University Press, 2024) sintetizza la tesi, che in esso sosteniamo, secondo la quale siamo entrati (quasi senza accorgercene) in una nuova epoca di consenso. Questo consenso è fondato sull’accettazione dell’idea che robusti sistemi di protezione sociale, se ben disegnati, rendono le nostre economie più dinamiche, le nostre società più serene, e le nostre democrazie più forti.

Forse serve ricordare brevemente le tappe precedenti, senza dimenticare che quello che noi chiamiamo “welfare” una volta non esisteva affatto, e di conseguenza la vita per molti cittadini era brutta e breve. Poi, gradualmente, e più sistematicamente dopo la Seconda guerra mondiale, le cose sono cambiate, e in quegli anni si è consolidata l’idea di un modello sociale europeo. Infatti, nel trentennio glorioso (1945-1975) lo stato sociale godeva di un vasto consenso politico: pure i conservatori, una volta vinte le elezioni, stavano attenti a non allontanarsi troppo né dal paradigma keynesiano di gestione dell’economia tramite l’intervento pubblico, né da quello beveridgiano.

I padri (e le madri) del modello sociale europeo non furono tutti di sinistra. Anzi, una certa sinistra ha guardato a lungo il welfare con sospetto, come l’ennesimo trucco degli sfruttatori per ammorbidire lo sfruttamento, e per distrarre l’attenzione dall’obiettivo imprescindibile di superare il capitalismo. Certo, molti socialisti, socialdemocratici, e alcuni comunisti (compresi gli italiani) hanno sostenuto con entusiasmo la costruzione di sistemi robusti di protezione sociale nel loro paese e in Europa. Ma giocarono un ruolo decisivo anche molti liberali (per esempio in Inghilterra lo stesso Beveridge era liberale, come peraltro lo era Keynes), democristiani, perfino conservatori, come Bismarck, il cancelliere di ferro che già negli anni Ottanta dell’Ottocento creò in Germania i primi sistemi di assicurazione sociale sperando di arginare in questo modo l’ascesa dei sindacati e dei socialdemocratici, che aveva appena messo fuori legge). Ogni forza politica lasciò il proprio segno sull’evoluzione del modello sociale europeo, rendendolo mutevole nello spazio e nel tempo, e ampliando il consenso di cui godeva.

Le due crisi petrolifere degli anni Settanta frantumarono questo consenso e misero fine al “trentennio glorioso” di crescita robusta, sostenuta e inclusiva. All’improvviso, le ricette keynesiane, che avevano funzionato pressoché perfettamente fin dai tempi del New Deal rooseveltiano, smisero di funzionare: quasi tutti i paesi occidentali entrarono nel vortice di stagnazione e inflazione (la famosa stagflazione). Nuove idee (diciamo liberiste, termine spesso abusato) apparvero convincenti, e diventarono dominanti.

È a questo punto che lo stato sociale, con i suoi eccessi, veri o presunti, iniziò ad essere dipinto come fonte di ogni male: debito pubblico fuori controllo, tasse troppo alte, disincentivi al lavoro ecc. Nella vita reale, la retorica liberista raramente ha portato ad uno smantellamento anche solo parziale dello stato sociale, e ciò perfino nell’Inghilterra della Thatcher. Ma spesso la retorica ha effetti lenti, erode il consenso politico, toglie risorse, fa venir meno la fiducia dei cittadini nelle strutture pubbliche, innescando un circolo vizioso con effetti deleteri di lungo termine. Basta guardare a come è ridotto il NHS, il sistema sanitario inglese (una volta davvero glorioso), nonostante la professionalità e l’umanità di medici e infermieri. Oppure quello italiano.

L’ombra lunga di questa sfiducia nello stato sociale si percepì in pieno nella gestione della crisi chiamata “del debito sovrano”, anche se l’indebitamento pubblico era eccessivo solo in Grecia e in Italia. Infatti, il racconto della crisi come risultato dell’incontinenza fiscale dei governi faceva acqua da tutte le parti. Alla vigilia della crisi, in Irlanda e in Spagna, paesi pure entrati nel mirino dei mercati, il debito pubblico era bassissimo, mentre quello privato era incredibilmente alto, e lo era anche in paesi non particolarmente colpiti dalla crisi come l’Olanda e la Danimarca. Peraltro, in Italia, il debito pubblico mastodontico era stato accumulato negli anni Settanta e Ottanta. Al contrario, i governi recenti avevano gestito i conti pubblici con ammirevole sobrietà: dai tempi di Maastricht (inizio anni Novanta) fino al Covid e al Superbonus, il saldo primario (cioè, al netto degli interessi sul debito) del bilancio pubblico italiano è stato positivo tutti gli anni tranne il 2009, mentre quello tedesco è andato in deficit ben sei volte.

Ciò nonostante, la crisi dell’euro è stata raccontata come colpa esclusivamente dei governi, e dei loro sistemi di protezione sociale troppo generosi. L’austerità (che, come insegnava Keynes, è giustificata in tempi di boom economico) è stata applicata quando l’economia era in ginocchio, con effetti prevedibili: l’economia europea nel suo insieme è inutilmente rimasta in recessione più a lungo rispetto a quella statunitense (dove invece la presidenza Obama ha puntato sullo stimolo fiscale). Nei paesi più colpiti dalla crisi, quando la disoccupazione è salita a livelli spaventosi (con un picco del 29% in Grecia nel novembre 2013), i sistemi di sostegno al reddito dei disoccupati in Grecia, Irlanda, Spagna, e Portogallo sono stati depotenziati. Al posto del doveroso riequilibrio dei sistemi del welfare a favore di cui hanno lottato tanti riformisti (per capirci: meno pensioni baby e più asili nido), i programmi di austerità imposero tagli spesso indiscriminati.

Tutto ciò è piuttosto noto. Forse meno noto è che quella fase è ormai conclusa: non stiamo più vivendo sotto il segno dell’austerità, né sotto quello della sfiducia nello stato sociale. Per inerzia, le idee superate connesse a quella fase resistono nell’immaginario collettivo, e questa è un’altra lunga ombra della retorica ultraliberista.

Paradossalmente, la narrazione della presunta incompatibilità fra economia di mercato e stato sociale è tacitamente condivisa da molti nostri colleghi, studiosi di welfare, che sembrano convinti che le tensioni fra stato e mercato non possono che esplodere, prima o poi, e risolversi a favore del mercato. Infatti, fin dagli anni Settanta numerosi esperti hanno dedicato migliaia di pagine alla “crisi del welfare”, a volte in termini piuttosto apocalittici (cfr. Farnsworth e Irving, “Crises of the welfare state, resilience, and pessimism of the intellect”, Social Policy & Administration, 2024). Viene in mente l’agit-prop dell’Internazionale comunista quando negli anni Venti del Novecento predicava la fine imminente del capitalismo (ancora vivo e vegeto un secolo dopo).

In modo simile, la profezia del declino dello stato sociale, ripetuta a destra e a manca, con esultanza o con afflizione a seconda delle preferenze, non si è ancora avverata. Intanto, tra molti studiosi di politica sociale serpeggia una implicita (e a volte anche esplicita) nostalgia per la presunta età d’oro dello stato sociale – il secondo dopoguerra -, quando gli uomini studiavano poco e lavoravano molto (quasi sempre nello stesso mestiere), mentre le donne stavano a casa a curare i figli. E per quanto riguarda il futuro, nella nostra professione prevale un cupo pessimismo.

Su questo punto il nostro libro suona una nota di dissenso. Noi non risparmiamo critiche all’austerità della prima metà degli anni Dieci, né ai danni che ha fatto non solo al welfare ma anche all’economia europea. Ma non possiamo non notare la svolta ‘sociale’ che ne è seguita, a partire da quelle tre parole (Whatever it takes) pronunciate da Mario Draghi al culmine della crisi dell’euro, che calmarono i mercati e segnarono il giro di boa. Il Pacchetto di investimenti sociali per la crescita e la coesione del 2012, la Garanzia giovani del 2013, il Pilastro europeo dei diritti sociali del 2017, lo Strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione (SURE) del 2020, e la Direttiva sul salario minimo del 2022 sono stati alcuni dei momenti chiave di questa svolta, arrivata al culmine con la decisione del luglio 2020 di istituire un Fondo europeo per la ripresa e la resilienza, di cui – come è noto – l’Italia è il maggior beneficiario in termini assoluti (e la Grecia in termini relativi).

Certo, i politici (come molti altri umani) raramente ammettono di aver sbagliato: semplicemente cambiano atteggiamento alla successiva occasione. Forse è quello che è successo in Europa nella seconda metà degli anni Dieci. L’arrivo del Covid ha poi ricordato a tutti (cittadini, governi e organizzazioni internazionali, compreso il Fondo monetario internazionale) l’importanza di sistemi sanitari e di sostegno al reddito inclusivi.

Con una piccola dose di iperbole, si potrebbe dire che il welfare europeo gode di ottima salute. È quello che raccontano i dati. La spesa sociale nell’Ue non è mai stata così alta. La quota dei cittadini europei che non possono permettersi le cure mediche di cui hanno bisogno non è mai stata così bassa (anche tra i più poveri). L’occupazione femminile non è mai stata così alta. Il numero di bambini in asili nido non è mai stato così grande. La durata media della vita (spesso in buona salute) non è mai stata così lunga, e così via.

Ma anche andando oltre i numeri, guardando alle politiche sociali in atto, l’immagine che emerge è molto più variegata di come viene spesso dipinta. Certo, fallimenti e lacune esistono ancora, e vanno combattute. Il bias a sfavore dei giovani è ancora presente. Troppi ospedali pubblici, in Italia ma non solo, si trovano in uno stato di sottofinanziamento cronico, avendo archiviato in fretta le promesse solenni e gli applausi al sistema sanitario del periodo del Covid. Perfino nella Grecia sottoposta ad una dose da cavallo di austerità, la rete di sostegni pubblici ai meno abbienti è venuta fuori più forte e più sana di prima. Anche in Italia – dove il governo attuale ha deciso di abolire il Reddito di cittadinanza anziché migliorarlo, rendendolo l’unico paese Ue privo di un programma di reddito minimo basato sul principio dell’universalismo selettivo – sono stati compiuti decisivi passi avanti negli ultimi anni, dall’estensione delle indennità di disoccupazione (Naspi e Discoll, nate dal famigerato Jobs Act), all’Assegno unico e universale per i figli a carico.

Nel suo insieme, il modello sociale europeo è uscito rafforzato dalla crisi del decennio precedente. Anzi, in molti paesi il welfare ha offerto un contributo decisivo per rendere gli effetti della crisi meno dolorosi per le persone e per le famiglie. Rispetto alle devastazioni della Grande Depressione degli anni Trenta del secolo scorso il contrasto è marcato, e il credito va tutto sul conto dei nostri moderni sistemi di protezione sociale. È un caso che questa volta nessun Orwell ha scritto La strada di Wigan Pier, né nessun Steinbeck Furore? L’opera forse più emblematica della crisi recente, Io, Daniel Blake, diretto dall’amabile Ken Loach, denuncia la burocratizzazione del welfare inglese, non la sua assenza.

Qual è il segreto dei più riusciti fra i sistemi di welfare europei? La nostra ricerca mostra che gli ingredienti chiave sono tre: una rete di protezione dei poveri e dei disoccupati forte e inclusiva; politiche che conciliano lavoro e apprendimento, lavoro e maternità, lavoro e pensionamento; investimenti sulla salute e sulle competenze delle persone.

Chiaramente, c’è ancora molto da fare. Nonostante i progressi recenti, molti sistemi di welfare europei sono ancora distanti dalle migliori pratiche. Nuove sfide (transizione digitale e verde) si aggiungono a quelle già presenti (invecchiamento demografico, gestione dei flussi migratori). Sono problemi difficili che non possono essere affrontati senza il contributo di robusti e ben disegnati sistemi di welfare, intenti a minimizzare i costi di questi fenomeni, massimizzarne i benefici, e distribuirne costi e benefici nel modo più equo possibile, tramite la formazione professionale continua e il sostegno al reddito.

Un’ultima parola sulle tensioni geopolitiche, e sul loro impatto sullo stato sociale. Ci sembra ovvio che l’Europa, pur impegnandosi per la pace, è costretta ad acquisire la capacità di difendersi anche da sola di fronte a minacce e aggressioni espansionistiche. Sarebbe inutile negare che l’inevitabile aumento delle spese militari restringe lo spazio fiscale per le politiche di investimento sociale che il nostro libro propone. Siamo però convinti che nel medio termine questo conflitto fra difesa e protezione sociale non esiste. Il modello sociale europeo, con la sua capacità unica al mondo di coniugare coesione sociale, prosperità economica, e libertà politica, fa parte della nostra identità. E per tutto ciò vale la pena battersi.

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