Nel precedente numero del Menabò ho iniziato a trattare il ruolo del fisco nella redistribuzione del reddito e della ricchezza parlando del ruolo delle imposte sul patrimonio e sui trasferimenti di ricchezza. In questo articolo affronto il tema della redistribuzione del reddito, in particolare dell’evasione e dell’erosione.
L’IRPEF, l’imposta progressiva onnicomprensiva sul reddito delle persone fisiche, la principale nel nostro sistema tributario, persegue gli obiettivi dell’equità verticale con la progressività del prelievo (proporzionalmente crescente al crescere del reddito) e dell’equità orizzontale imponendo uguale carico a redditi di uguale importo. Il problema, ben noto e radicato nella storia fiscale del nostro paese, è che mentre alcuni redditi subiscono l’imposta interamente col prelievo in busta paga (lavoratori dipendenti e pensionati), altri (imprenditori e professionisti) hanno vaste possibilità di occultare entrate, ”aggiustare” i conti, in sostanza evadere. E più evadono, più si sottraggono alla progressività, cioè riducono l’aliquota media. Effetti analoghi produce l’erosione, cioè la decisione del legislatore di mandare esenti, o sottoporre a trattamento agevolato, specifiche tipologie di reddito che, in principio, dovrebbero entrare nella base imponibile dell’imposta personale. Il problema quindi è principalmente, in diritto o nei fatti, di diverso trattamento tra le diverse categorie reddituali, a parità di reddito effettivo.
Per ridurre le iniquità, sia verticali che orizzontali, è quindi prioritario aggredire l’evasione e l’erosione. Va innanzitutto sottolineato il loro forte collegamento. Per un’azione veramente efficace contro l’evasione è prioritario ridurre l’erosione. Le esenzioni e le agevolazioni rispetto alle imposte ordinarie sono percepite (e di fatto costituiscono) “evasione legale”. Le disparità di trattamento a favore di specifici settori economici e categorie di contribuenti aumentano la percezione di un fisco iniquo ed ingiusto e stimolano i non beneficiati a cercare altre strade per contenere il proprio carico fiscale, a ”farsi giustizia da soli”, come diceva Cosciani alla metà del secolo scorso (C. Cosciani, Il problema dell’evasione fiscale, in «Il Ponte», 1952). Antonio Pedone (“Ascesa, declino e destino della progressività tributaria–Lectio brevis”, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma, 2019) segnala la “disintegrazione” dell’imposta personale progressiva sul reddito complessivo sotto il proliferare dei trattamenti tributari differenziati.
Le forme di erosione sono aumentate notevolmente negli ultimi anni. Ne sono esempio l’esenzione degli agricoltori dall’IMU e dall’IRAP e l’esclusione delle rendite dei loro terreni dall’IRPEF. Dal 2019, la forte estensione del regime forfettario dei minimi.
Quest’ultima misura è un esempio emblematico dello stretto collegamento tra i trattamenti di favore e l’evasione. Il regime forfettario di tassazione per i professionisti e le imprese individuali era nato per agevolare attività marginali, di piccole dimensioni (con vendite fino a 30 mila euro), poco strutturate. La manovra di bilancio per il 2019 ha esteso fortemente la soglia dei ricavi per l’ammissione al regime, portandola a 65 mila euro, ed ha eliminato i limiti all’utilizzo di dipendenti e collaboratori e di immobilizzazioni materiali. Con il regime sostitutivo che era previsto per il 2020 per i contribuenti tra 65 e 100 mila euro di ricavi, fortunatamente sospeso dalla manovra di bilancio per il 2020, è stato valutato che solo il 20 per cento circa dei professionisti e delle imprese individuali sarebbe rientrato nel regime ordinario (Ufficio Parlamentare di Bilancio, La tassazione del reddito d’impresa dopo il decreto crescita, Focus Tematico n. 4, 10 giugno 2019). Il nuovo regime (battezzato “la flat tax” delle partite IVA) diventava così il regime ”naturale” per circa l’80 per cento di professionisti e imprenditori. In sostanza, si è legalizzato che imprenditori e professionisti paghino meno Irpef.
Le disuguaglianze tra categorie di contribuenti sono state accentuate: a 60 mila euro di reddito un dipendente o un pensionato subisce un’aliquota media Irpef di 10-15 punti percentuali più alta. E poiché i contribuenti forfettari non hanno l’obbligo della fattura elettronica e sono esclusi dagli ISA, le possibilità di controllo sono molto ridotte, a conferma che siamo di fronte a una forma di erosione che riduce fortemente la platea dei contribuenti su cui agire per il contrasto all’evasione.
L’aspetto paradossale è che anche nell’ambito degli imprenditori e professionisti le disuguaglianze sono aumentate: chi supererà la soglia di vendite del regime forfettario entrerà in quello ordinario Irpef, con aliquote progressive (fino al massimo del 43 per cento), e sarà soggetto alla normale IVA e all’IRAP.
Così si spingono le imprese verso il nanismo economico: quelle piccole sono disincentivate a crescere, mentre quelle più grandi cercheranno di “immergersi” (magari frammentandosi) sotto la soglia forfettaria. La soglia delle vendite per l’accesso al regime forfettario diventerà una sorta di ”muro” dimensionale che spingerà imprenditori e professionisti a restarvi sotto. E’ ragionevole prevedere che pochi si azzarderanno a superare il muro, in salita, mentre molti saranno tentati di trovarvi rifugio, attraversandolo in discesa: il muro spingerà a crescere nel sommerso, ampliando anche il ricorso al lavoro irregolare. Estendendo a dismisura un regime di favore si sono rafforzati gli incentivi all’evasione.
Questa decisione del governo giallo-verde, la cui componente maggioritaria peraltro assume tradizionalmente una posizione fortemente anti-evasione sintetizzata nello slogan “manette agli evasori”, andrebbe modificata, riportando il regime dei forfettari alla sua funzione originaria, cioè riducendone l’ambito di applicazione. Si potrebbe anche estendere ai forfettari la fatturazione elettronica, in modo da avere traccia dei rapporti che intrattengono con il resto del sistema, o farli rientrare nel mondo degli ISA, magari con adempimenti semplificati o limitati a quelli di maggiori dimensioni.
Tuttavia il nuovo governo giallo-rosso non ha intrapreso questa via, per l’opposizione della componente gialla. Questa stessa componente ha invece insistito per un rafforzamento del penale tributario, in omaggio al ricordato slogan “manette agli evasori”. Alle soglie per la punibilità innalzate e alle pene detentive rafforzate si è affiancato un nuovo reato: la confisca per sproporzione. In sostanza, si può procedere alla confisca se ricchezza o tenore di vita sono “sproporzionati” rispetto ai redditi dichiarati. Inoltre è stata estesa all’evasione fiscale la responsabilità delle società di capitali prevista dal D.Lgs. 231/2001. Di queste novità francamente non si sentiva il bisogno; il sistema sanzionatorio era stato riformato e razionalizzato nel 2015 in attuazione della delega Monti.
Sembra farsi strada l’idea che il rafforzamento del contrasto all’evasione possa essere fondato solo sulla deterrenza (psicologica) delle accresciute sanzioni penali e che l’evasione fiscale sia solo quella dei “grandi” contribuenti, dei molto ricchi, delle società di capitali, mentre ai “piccoli” imprenditori individuali e ai lavoratori autonomi può essere garantito il trattamento di favore e lo “scudo” del regime forfettario. L’impressione di scarsa coerenza nella lotta all’evasione è rafforzata dalla raffica di sanatorie che è stata disposta con la manovra per il 2019, che ha interessato tutte le fasi del procedimento fiscale: dal verbale di constatazione, agli avvisi di accertamento, di rettifica e di liquidazione, al contenzioso in commissione tributaria, alla riscossione coattiva.
Un’efficace opera di contrasto all’evasione richiede un’azione ben più ampia. Innanzitutto occorre accrescere la funzionalità delle agenzie fiscali, consentendo loro di uscire dalle carenze organizzative, in primo luogo di reclutamento e inquadramento di quadri e dirigenti che si è innescata dopo la nota sentenza della Corte Costituzionale (n. 37 del 2015).
Soprattutto occorre cogliere tutte le opportunità e le sinergie offerte dalla fatturazione elettronica, dalla dichiarazione IVA pre-compilata, dalla lotteria dello scontrino, dalla cooperative compliance e dagli ISA, utilizzando al meglio le banche date e incrociando le informazioni con quelle sui versamenti.
Ma sarebbe sbagliato puntare solo su controlli massivi e automatizzati, basati sull’utilizzo meccanico di banche dati informatizzate, cui far seguire accertamenti automatici o presuntivi. Come sosteneva Cosciani, il padre della riforma tributaria del 1972-73, era fondamentale allora ma lo è anche oggi una riforma dell’amministrazione fiscale e un salto qualitativo nelle modalità di controllo e accertamento. La lotta all’evasione deve essere fondata anche e soprattutto sull’azione non massiva ma casistica di controllo svolta da un’amministrazione altamente professionalizzata, capace di selezionare i contribuenti ‘a rischio’ e di entrare in contraddittorio con loro già in fase di verifica, dotata di informazioni e strumenti analitici che consentano di perseguirli con strumenti tecnici e giuridici solidi.
Occorre anche impostare il rapporto con il contribuente su basi più cooperative, più improntate al confronto continuo, anche in fase di verifica, e riconoscere il dato di fatto che non tutti i contribuenti sono evasori: esiste anche il contribuente spontaneamente onesto.
La cooperative compliance introdotta con la delega Monti, seguendo le raccomandazioni dell’OCSE, riconosce che una grande impresa che, nell’ambito dei controlli interni, si doti di un efficace sistema di monitoraggio e riduzione del rischio fiscale costruisce all’interno della sua governance un baluardo contro pratiche elusive (o evasive), è disposta a essere più trasparente verso il fisco in cambio di una certezza ex-ante sul trattamento fiscale di operazioni complesse e soggette a diverse possibili interpretazioni.
Gli ISA (Indicatori Sintetici di Affidabilità) non sono una rivisitazione aggiornata degli studi di settore, che sostituiscono: sono un rovesciamento di paradigma radicale. Si passa da un sistema di controlli ex-post delle dichiarazioni, che colpivano in modo massivo tutti i contribuenti, alla individuazione ex-ante di coloro che sono affidabili, i quali sono premiati sollevandoli da adempimenti e controlli e rendendo più agevoli i rimborsi, e di coloro che invece hanno basso indice di affidabilità, nei confronti dei quali, però, non si interviene dopo la dichiarazione dei redditi con accertamenti e sanzioni, ma aprendo subito un dialogo, rilevando anomalie e invitandoli a regolarizzare prima di presentare la dichiarazione, per evitare futuri accertamenti e sanzioni. I primi dati disponibili evidenziano risultati positivi in termini di gettito.
L’idea è di costruire un fisco rigoroso ma più dialogante, alieno da repressione generalizzata ma capace di individuare con analisi precise i contribuenti infedeli, incalzarli con rilievi puntuali che li spingano a dichiarare di più, e quando è il caso punirli con accertamenti efficaci, in grado di reggere il contenzioso. Un fisco consapevole che non tutti i contribuenti sono evasori, non tutti sono da perseguire allo stesso modo, da assoggettare agli stessi controlli ed adempimenti. Questa strategia potrebbe dare risultati migliori rispetto a puntare esclusivamente sulla repressione ex-post e sulla moltiplicazione degli adempimenti.
E’ inopportuno e controproducente, ogni volta che si individua una tipologia di abuso, intervenire inasprendo le sanzioni o complicando gli adempimenti o imponendone di nuovi su tutti i contribuenti, anziché puntare su controlli specifici e mirati, che colpiscano chi commette l’abuso. E’ ad esempio il caso delle recenti misure sull’obbligo di versamento delle ritenute sui dipendenti delle imprese appaltatrici, ribaltato sugli appaltatori, disposte con la manovra di bilancio per il 2020. Così facendo si esasperano intere categorie di contribuenti.
Occorre invece che l’amministrazione fiscale innovi decisamente il suo modo di operare,: non limiti i suoi controlli alla verifica delle dichiarazioni, che avviene con anni di ritardo, ma punti con decisione a contrastare le frodi in corso, cominciando dall’IVA. Utilizzando le informazioni della fatturazione elettronica, dei versamenti fiscali e contributivi, delle movimentazioni finanziarie è possibile costruire indicatori di pericolosità che orientino controlli tempestivi sulle tipologie più frequenti e pericolose di frode: le “cartiere” di false fatture per operazioni inesistenti e gli operatori che, pur essendo effettivamente operativi e corretti su altri fronti, omettono i versamenti, sapendo di poter chiudere l’attività e sparire prima che la dichiarazione fiscale venga sottoposta a controllo.
L’idea è di contrastare l’evasione con strumenti più “civili” e moderni, simili ai sistemi in funzione negli altri paesi avanzati, più rispondenti al principio (sancito dalla legislazione e dalla giurisprudenza europea) della “proporzionalità” rispetto agli obbiettivi.
D’altro canto un sistema basato su inasprimenti delle sanzioni, sulla moltiplicazione degli adempimenti, su atteggiamenti eccessivamente punitivi verso alcune categorie di contribuenti porterebbe a reazioni opposte. A forme estese di erosione fiscale, che di fatto legalizzano l’evasione, a condoni. La continua oscillazione tra repressione massimalistica da un lato e dall’altro compiacenti occhieggiamenti al “fisco amico”, alla “pace fiscale”, la concessione di esenzioni, agevolazioni e condoni impedisce al fisco italiano di trovare una “normalità”, di approdare a sistemi rigorosi ma “civili” di contrasto all’evasione.