Il 24 maggio del 2012 Mario Draghi tenne nella Facoltà di Economia della Sapienza una Lezione nella “Giornata in ricordo di Federico Caffè”, con il quale si era laureato, nel Centenario della nascita e a 25 anni dalla misteriosa scomparsa.
Prima di esprimere la mia opinione sul rapporto tra Caffè e Draghi trovo utile ricordare i passaggi essenziali di quella Lezione che conteneva un’ampia illustrazione delle scelte della BCE nella fase in cui la complessa architettura istituzionale dell’UE appesantiva la risposta dei singoli Paesi alla crisi. Inoltre, tali Paesi avevano sottoscritto da poco il Fiscal compact, che sanciva l’affermarsi normativo della “visione dell’austerità”, restrittiva della politica fiscale, in quanto centrata sul principio del pareggio di bilancio.
In questo contesto Draghi si proponeva, già dal titolo della sua “Lezione”: Politica economica, crescita e welfare: un percorso per l’Europa”, di definire una visione diversa.
Il suo modello di riferimento era quello classico della teoria della politica macroeconomica di Frisch e Tinbergen, insegnatoci da Caffè e da tutti noi trasmesso a generazioni di studenti. Esso si riferiva essenzialmente alla politica macroeconomica con l’individuazione di un modello di decisione, utile ai responsabili della politica economica, contenente obiettivi, strumenti e vincoli.
In quel periodo il dibattito economico riguardava essenzialmente due obiettivi (stabilità monetaria e livello di occupazione) e due strumenti (politica monetaria e politica fiscale). Il contesto era quello, in cui l’obiettivo esclusivo assegnato alla BCE era la stabilità monetaria, tradotta operativamente dal suo Consiglio Direttivo in “una variazione dei prezzi inferiore al 2%, da mantenere in un orizzonte di medio termine”.
Draghi accennò anche, da un lato, ad alcuni raffinamenti dell’impostazione di Frisch e Tinbergen e, dall’altro, alle critiche mosse a quell’approccio, ma il suo ragionamento proseguiva, sostanzialmente, affidando compiti molteplici allo strumento monetario, essendo la politica fiscale impoverita dal Fiscal compact. Un certo conforto derivava dalla constatazione che, anche altrove, le politiche monetarie espansioniste delle Banche Centrali non generavano tensioni inflazionistiche, particolarmente temibili in Eurozona. Con l’ulteriore limite per la BCE di non poter svolgere la funzione di prestatore di ultima istanza nei confronti di titoli del debito pubblico di uno Stato sovranazionale inesistente, a differenza dei Paesi in cui le Banche Centrali avevano alle spalle Governi nazionali.
In questo sentiero stretto la BCE, come ricordava Draghi, doveva dunque assolvere il proprio compito di esclusivo ed autonomo gestore dello strumento monetario, garantendone l’efficace trasmissione dei suoi impulsi all’economia reale attraverso l’operato del sistema finanziario, a cominciare dalle banche.. Su quel sentiero stretto si sono misurati studiosi ed esperti di politica monetaria per elaborare gli strumenti attraverso i quali il riferimento schematico allo strumento monetario si traduce nel comportamento concreto delle autorità monetarie.
Ciò è avvenuto, naturalmente, anche nell’attività svolta dalla BCE, illustrata con sapienza didattica da Draghi, il quale ha anche inteso nobilitare in qualche modo l’obiettivo perentorio della stabilità monetaria richiamando quel filone teorico secondo cui il benessere sociale ne riceverebbe un impulso positivo, soprattutto in termini di stabilità del tasso di aumento del Pil.
Il passaggio successivo è stata la descrizione puntuale degli strumenti innovativi, introdotti dalla BCE per consentire una buona tenuta dei sistemi produttivi dei Paesi dell’Eurozona, e contestati da altri membri del Consiglio Direttivo della BCE che ritenevano, soprattutto le Longer Term Refinancing Operation (LTRO), una forma di finanziamento dei deficit pubblici.
D’altra parte l’insieme di questi strumenti, spiegati con puntiglio e convinzione in una sede accademica, ha consentito a Draghi, neanche due mesi dopo, di formulare il ben noto “whatever it takes”, i cui destinatari erano investitori e dirigenti di azienda, partecipanti alla Global Investment Conference di Londra, tra i quali c’erano certamente soggetti interessati a compiere attività speculative nei confronti dell’euro.
Successivamente sappiamo che la scelta espansionistica della politica monetaria della BCE, descritta anche come Quantitative easing (QE), si è consolidata nel corso degli anni ed è stata riconfermata dalla Lagarde, succeduta a Draghi, durante la fase della pandemia che ha visto emergere il nuovo orientamento delle istituzioni europee anche nella politica fiscale. Al riguardo è utile ricordare che nella sua “Lezione” Draghi affermò che “il processo di integrazione europea per sopravvivere ha bisogno di un coraggioso salto di immaginazione politica. E’ in questo senso che ho richiamato la necessità di un growth compact accanto al ben noto fiscal compact”. I tre pilastri del growth compact erano: una nuova costruzione politica ed economica a sostegno della moneta unica; l’adozione generalizzata di riforme strutturali nel mercato dei prodotti e del lavoro per aumentare reddito ed occupazione, anche introducendo flessibilità e mobilità, senza però dimenticare l’equità e l’inclusione sociale; il rilancio degli investimenti pubblici nelle infrastrutture e nel capitale umano. E se è vero che la timida delibera del Consiglio Europeo del giugno del 2012 si preoccupava di tenere comunque in piedi il Fiscal compact, mi sembra ragionevole ritenere che essa costituiva un segno importante di quel diverso orientamento della politica economica dell’UE, che è avvenuto lo scorso anno, quando i suoi membri sono stati scossi dalla crisi pandemica.
Vengo ora al rapporto tra Caffè e Draghi. Intanto vanno segnalati i richiami espliciti che Draghi faceva ad alcune affermazioni caratterizzanti il pensiero del Maestro, come lui stesso lo definisce qualificandosi suo allievo; si tratta di tre obiettivi fondamentali che attribuisce all’azione pubblica: Stato sociale, equità, piena occupazione. Su quest’ultimo Draghi, davanti ad un uditorio composto soprattutto di giovani, ricordava che, come ammoniva Caffè nel 1986, non si può “accettare l’idea che una intera generazione di giovani debba considerare di essere nata in anni sbagliati e debba subire come fatto ineluttabile il suo stato di precarietà occupazionale”. Sono questi frammenti sufficienti per mettere in evidenza alcuni tratti salienti del suo “riformismo radicale”, sintesi di economia, etica e storia, come ho voluto definirlo in un recente intervento (“Economia e Lavoro”, 2020), con l’invito a leggere direttamente almeno alcuni dei suoi scritti. Tuttavia è bene ricordare che Caffè condivideva con Samuelson l’idea che “l’eclettismo nella scienza economica non è tanto qualcosa che si desideri quanto una necessità” (Caffè, 1984). Quindi non mi è mai piaciuta la definizione di Caffè come un keynesiano di stretta osservanza; basta ricordare il rilievo assegnato all’”economia del benessere” espressa essenzialmente dalla teoria neoclassica; il rispetto per pensatori liberali italiani come Ferrara, Del Vecchio ed Einaudi. Radicale era certamente la critica della visione apologetica del mercato, rilanciata dal neoliberismo contemporaneo, con il conseguente rigetto del ruolo dello Stato nell’economia.
Per tale motivo ho sempre preferito definire Caffè “interventista” e ritrovare così il suo modo di interpretare l’opera di Keynes, perché “nel pensiero keynesiano non vi è soltanto un apparato di analisi, un insieme di suggerimenti per la politica economica…, ma una visione del mondo che affida alla responsabilità dell’uomo le possibilità del miglioramento sociale “ (Caffè, 1986). Tutto ciò senza attenuare il grande contributo innovativo dato da Keynes, all’inserimento strutturale della politica fiscale tra gli strumenti ordinari a disposizione dell’azione pubblica; abbattendo cioè il paralizzante principio del pareggio di bilancio, che aveva inizialmente condizionato pure l’azione di Roosevelt. Questi ricorse infatti, prima di tutto alla politica monetaria e alla manovra del tasso di cambio, come leve macroeconomiche per ridare slancio alla depressa economia degli Stati Uniti.
L’eclettismo si ritrova in Caffè quando si considerino gli indirizzi culturali; nel caso italiano perché “linee di pensiero …diverse da quelle ispiratrici del riformismo laico” possono alimentare “una concezione economico-sociale progressista” (Caffè, 1986). Del resto è opportuno ricordare la consistente collaborazione con le “Cronache Sociali” dei cattolici dossettiani nell’immediato dopoguerra.
Quanto al modo di essere Maestro di Caffè mi è apparsa sempre congeniale la descrizione di Umberto Eco: Maestro è colui che “insegna che ciascuno deve diventare qualcosa di personale e di diverso; ed una scuola diventa quindi una varietà di mense dove vengono posti e approfonditi diversi modelli di ricerca”. Non è casuale, quindi, che nell’incipit della sua “Lezione” Draghi dica del suo Maestro che “ai suoi allievi ha insegnato a pensare con la propria testa, non ha trasmesso un credo vincolante”.
Draghi, in effetti, ha avuto una formazione cattolica solida durante tutto il suo percorso scolastico, completato mentre, a soli quindici anni, era divenuto capo famiglia di tre fratelli con i genitori morti a poca distanza di tempo. Credo che tale situazione fosse ben nota a Caffè, tramite il contatto diretto con il padre di Mario, collega in Banca d’Italia e forse anche tramite Alfonso Caffè, suo fratello, docente al Liceo dei gesuiti Massimo, frequentato da Draghi.
Era indubbia, per noi più “anziani”, la particolare attenzione riservata da Caffè all’allievo Mario, che poi era divenuto studente della Facoltà di Economia e si era non solo laureato con lui, ma ne era divenuto collaboratore precario fino all’ottenimento di un posto di assistente di ruolo. Allora Mario, incoraggiato da Caffè, era in procinto di partire per l’MIT, dove ebbe modo di rinsaldare la sua preparazione a contatto con un gruppo di economisti autorevoli, tutti futuri Premi Nobel, come Modigliani, Samuelson e Solow, che, seppure “keynesiani bastardi” come provocatoriamente li definiva Joan Robinson, erano convinti sostenitori dell’importanza stabilizzatrice della politica fiscale a sostegno della domanda nei momenti ricorrenti di difficoltà delle economie di mercato. Ottenuto il Ph. D e rientrato in Italia, egli ottenne molto giovane la cattedra universitaria, che ricoprì per poco tempo perché non perse l’occasione per iniziare un percorso di “civil servant” ricoprendo, per conto del Governo italiano, un importante incarico presso la Banca Mondiale. Ciò avvenne con grande e aperto disappunto di Caffè, desideroso che il suo allievo, certamente a lui particolarmente caro, proseguisse lungo un futuro soprattutto accademico.
Il percorso di Mario è stato però eccezionale e, vincendo la mia riluttanza a fare questo tipo di esercizio metafisico su Caffè redivivo, sono convinto che avrebbe avuto le lacrime agli occhi vedendo Mario ascendere alla carica di Governatore della Banca d’Italia, l’istituzione alla quale aveva dedicato grandi energie, serbandone sempre gratitudine e rispetto. Altrettanta partecipazione emotiva avrebbe avuto per il precedente incarico di Mario a Direttore Generale del Tesoro e a quello successivo di Presidente della BCE..
Forse una certa delusione l’avrebbe provata quando Mario accettò, anche se per pochi anni, quell’importante incarico presso la Goldman & Sachs, che lo ha dirottato in un’altra direzione. Sono d’altra parte valutazioni e sensazioni che, nel mio ruolo più modesto, ho vissuto pure io che ho seguito, per attività professionale e passione politica, le scelte di Mario spesso non condivise.
Non mi è mai venuto in mente di mettere in discussione la soddisfazione di Mario, come quella di tutti noi, di sentirsi un allievo di Caffè perché è diventato, in grande, “qualcosa di personale e di diverso”. Mi è venuto in mente, al riguardo, la vicenda più lacerante di questi rapporti personali quando Caffè si trovò a prendere posizione diversa da quella del suo allievo Tarantelli nella fase più acuta del dibattito sulla scala mobile in Italia: dissenso profondo che non alterò l’altrettanto profondo rapporto umano che li legava.
Dunque attendiamo ora che Mario Draghi si faccia conoscere e valutare come nostro Presidente del Consiglio, incarico che, si può essere certi, svolgerà “con disciplina ed onore”, come previsto dall’art. 54 della nostra Costituzione, cara a Caffè, e come è avvenuto con gli altri incarichi pubblici ricoperti sinora. Se potessi suggerirgli qualcosa all’orecchio, vorrei che riuscisse a mostrare che, come ha sostenuto recentemente più volte, il debito pubblico può essere anche “buono” e ridare così allo strumento fiscale una credibilità nel senso comune dei cittadini italiani.
Per concludere, rispetto alle numerose decisioni che il suo Governo dovrà prendere, mi sento di affermare con convinzione sin da ora che, qualunque esse saranno, ciò non significherà per me perdere la comune qualifica di “allievi di Federico Caffè” se, come certamente accadrà, alcune di tali decisioni mi vedranno, come semplice cittadino, tra i suoi critici più severi e battaglieri.