È cambiato il paradigma sulle pensioni?

Nicola Salerno si occupa di pensioni sottolineando come la crisi iniziata nel 2008 abbia marcato un cambio di direzione delle riforme in molti paesi europei, tra cui l’Italia: dalla flessibilità dei requisiti di pensionamento con adeguamenti attuariali degli assegni alle modalità flessibili con cui restare in attività per raggiungere requisiti di pensionamento rigidi. Salerno ragiona sulle motivazioni di questo cambiamento e sugli interventi in grado di attenuarne le possibili conseguenze negative sul benessere dei lavoratori e sul sistema economico.

Pur nella diversità che i sistemi pensionistici da sempre hanno nel confronto internazionale, nel decennio precedente la crisi economica del 2008 si era andata gradualmente affermando una tendenza comune a riformare le regole verso schemi flessibili nei requisiti anagrafico-contributivi, con più ampia possibilità di scelta dell’età di pensionamento da parte del lavoratore, controbilanciata da correttivi in aumento o in diminuzione (premi e penalità) dell’assegno a seconda che l’età fosse anticipata o posticipata.

In Italia questo approccio era divenuto l’ossatura portante del sistema pensionistico contributivo, in vigore in misura completa per i neoassunti dopo il 31 dicembre 1995 e sistemi simili al nostro contributivo erano emersi anche in Svezia, Lettonia e Polonia. In altri paesi, invece, seppur senza realizzare riforme strutturali del sistema pensionistico, stava prendendo piede, in modalità differenti da caso a caso, l’applicazione di penalties e bonuses per incentivare il posticipo del pensionamento su basi volontarie, lasciando la possibilità di uscita anticipata con importo della pensione corretto al ribasso. Come testimonia l’Ageing Report 2015 della Commissione Europea, il risultato di questo percorso avviato durante gli anni Novanta è che a oggi sono 18 i paesi UE che fanno ricorso a premi e penalità nel calcolo della pensione a seconda dell’età di ritiro, cui vanno aggiunti i paesi (come l’Italia) che incorporano tali meccanismi direttamente nelle regole di calcolo della pensione.

In previsione degli effetti dell’invecchiamento sulla spesa per pensioni, l’introduzione di premi e penalità cercava di contenere tali effetti ricorrendo il meno possibile alla fissazione di requisiti di età e contribuzione per accedere al pensionamento rigidi e crescenti. Gli aspetti positivi della flessibilità dei requisiti di pensionamento sono numerosi, come segnalato, ad esempio, nei lavori di Gruber e Wise.

  • rispetto dell’eterogeneità delle preferenze e delle scelte individuali;
  • mantenimento dei livelli di produttività (che presumibilmente calano quando si è costretti a rimanere al lavoro controvoglia);
  • sostegno al fisiologico turnover giovani-anziani sui posti di lavoro;
  • predisposizione a permettere uscite anticipate a lavoratori con carriere lunghe o svolte in mansioni usuranti e pericolose;
  • predisposizione a permettere combinazioni in regime di cumulo tra pensione e reddito da nuova attività lavorativa, anche part-time o con ridefinizione delle mansioni.

Rispetto a questa tendenza, la crisi del 2008 sembra aver marcato una cesura, coglibile anche seguendo le diverse edizioni annuali di “Pensions at a Glance” dell’OCSE o confrontando le versioni degli “Ageing Report” della Commissione europea, come sintetizzato in un recente lavoro di Carone et al., in cui si sottolinea come sia mutato il paradigma di riferimento per quanto riguarda la flessibilità del pensionamento. Nelle riforme realizzate dal 2008 a oggi, l’attenzione si sposta, infatti, dalla flessibilità dei requisiti anagrafici e contributivi, con applicazione di premi e penalità, verso le modalità flessibili con cui è possibile prolungare il lavoro per arrivare a soddisfare requisiti di pensionamento più stringenti (anche soglie puntuali di età e/o anzianità) e crescenti nel tempo assieme alla vita attesa. I meccanismi di governo automatico della spesa pensionistica (aggancio alla vita attesa del calcolo dell’assegno, aumenti dei contributi pensionistici sugli attivi o dell’imposizione sulle pensioni, rideterminazione del valore dei punti di pensione in accumulazione, progressione automatica dei requisiti di pensionamento) prima della crisi esistevano nel 25% dei paesi dell’UE-28 e, dopo la crisi, nella metà degli stessi paesi.

Dopo la crisi, quasi tutti i paesi, Italia inclusa, come noto, hanno adottato misure restrittive sui requisiti di accesso al pensionamento e, contemporaneamente, misure di “accompagnamento” per rendere meno drastico il cambiamento. Che il tema della flessibilità in uscita dal mercato del lavoro per far fronte a requisiti di uscita rigidi abbia assunto una maggiore rilevanza di policy rispetto a quello della flessibilità dell’età pensionabile basata (entro certi limiti) sulla libera scelta individuale, di fronte a premi e penalità, lo si intuisce anche guardando a come si sono evoluti nel tempo i contenuti del capitolo del rapporto periodico Pensions at a Glance dell’OCSE dedicato al “Flexible Retirement in OECD Countries”. Storicamente questo capitolo ha ospitato esempi di buone pratiche sia dell’una che dell’altra accezione di flessibilità, mentre da qualche anno a questa parte (e nello specifico in quello del 2017) l’attenzione è tutta sull’invecchiamento attivo, ossia sulle modalità per favorire il prolungamento della vita lavorativa e posticipare il momento del pensionamento definitivo.

Tra le misure restrittive adottate nel post crisi compaiono, come avvenuto in Italia, aumenti con effetto immediato o quasi immediato dei requisiti di pensionamento ed eliminazione o riduzione significativa delle possibilità di pensionamento anticipato. Chi non è intervenuto con irrigidimenti dei requisiti di pensionamento ha agito con tagli diretti sugli assegni in pagamento, sospensioni o riduzioni delle rivalutazioni, aumenti delle aliquote contributive sugli attivi. Non sono mancati interventi riequilibratori per le finanze pubbliche sul fronte dei pilastri pensionistici privati sia volontari che ad adesione obbligatoria. Ed è proprio il mix di tutte queste misure che, dal 2009 a oggi, ha fatto aumentare l’età media effettiva di pensionamento dell’UE-25 di quasi un anno e mezzo per le donne e di circa un anno per gli uomini, come riportato in Pensions at a Glance 2017.

Per l’Italia il cambiamento è stato profondo e le misure pensionistiche adottate nel dopo crisi hanno rappresentato un vero e proprio abbandono del pensionamento flessibile nell’accezione con cui era comparso nel 1995 come tassello della riforma “Dini”, ovvero lasciare liberi i lavoratori di scegliere fra una pensione anticipata di minore importo e una posticipata di importo più consistente.

Ricapitolando, se prima della crisi sembrava in atto una, sia pure lenta, convergenza dei sistemi pensionistici verso un modello meno dipendente dell’identificazione di requisiti stringenti per l’accesso alla pensione e con un ricorso a correzioni in aumento o in diminuzione degli assegni, nel post crisi questa logica viene meno, le ricette di policy dei vari paesi si differenziano, ricompaiono requisiti stringenti e, lì dove se ne fa a meno, sono attivate misure che indirettamente comportano di fatto una minore flessibilità nella scelta del momento del pensionamento. Così è sicuramente per i tagli agli assegni (di ratio diversa da premi e penalità), per la riduzione/cancellazione della loro rivalutazione, per l’aumento dell’imposizione sulle pensioni; tutte misure che, riducendo i benefici accessibili, hanno funzionato e stanno funzionando come forte incentivo al posticipo del pensionamento.

Ma cosa può aver determinato questa modifica? Da una parte, la crisi ha mutato i vincoli a breve-medio termine delle finanze pubbliche obbligando a rivedere le regole dei sistemi pensionistici per controllare la spesa corrente immediata. Dall’altra, la stessa crisi ha velocizzato quelle tendenze, già in atto, a ripensare al ruolo degli schemi pensionistici all’interno dei sistemi di welfare anche al fine di liberare risorse per altre componenti del welfare. Ad esempio, anche un paese come l’Italia che, come noto, grazie alle riforme introdotte dagli anni ’90 ha realizzato la stabilità tendenziale della spesa pensionistica sul PIL, potrebbe continuare a intervenire sulla spesa per pensioni per liberare risorse verso altre componenti di welfare, sia monetarie (sussidi di disoccupazione, redditi minimi) che in natura (sanità e assistenza a anziani e bambini).

All’interno di questo “nuovo corso” delle riforme pensionistiche, l’Italia non appare, dunque, un’eccezione, nonostante il dibattito nazionale ne sottolinei a volte una pesante singolarità (requisiti di pensionamento troppo alti o addirittura esosi, parametri incompatibili con il mercato del lavoro dei giovani e con la resistenza psicofisica degli anziani). Interventi restrittivi sono stati adottati quasi ovunque e per le stesse ragioni. Persino i ricorsi in Corte costituzionale contra le suddette misure, spesso commentati come caratterizzanti il nostro ordinamento giuridico, sono stati attivati anche altrove.

Se questo è il nuovo paradigma, da subito bisogna impegnarsi allo sviluppo della nuova idea di flessibilità, intesa come modalità per alleggerire gradualmente il carico di lavoro negli ultimi anni prima del raggiungimento dei requisiti per la decorrenza della pensione, permettendo varietà di scelte adattabili alle esigenze individuali. Senza questa flessibilità, le nuove regole pensionistiche restano incomplete.

Un contributo significativo potrebbe arrivare dalla promozione di accordi tra lavoratore e datore di lavoro di progressivo rimansionamento, con passaggio a funzioni meno gravose ma nelle quali l’esperienza sia elemento saliente e fonte di esternalità positive sui processi produttivi. Il rimansionamento potrebbe combinarsi con regole che favoriscano, anche con opportuni incentivi contributivi, che gli ultimi 3-5 anni di lavoro siano svolgibili in modalità part-time con percentuali di riduzione dell’orario lavorativo adattabili al singolo caso. Tra le funzioni verso cui orientare il rimansionamento e il part-time, una posizione specifica potrebbe essere prevista per la trasmissione del know-how ai più giovani, con periodi di affiancamento e di alternanza. Un’altra forma di flessibilità potrebbe esser costituita dal telelavoro e dal “lavoro agile” come lo si è definito nel dibattito italiano. Per le Pubbliche Amministrazioni un contributo positivo potrebbe arrivare anche dalla mobilità interna tra funzioni di uno stesso ufficio e tra uffici. Infine, ogni miglioramento degli ambienti e delle condizioni di lavoro (in primis la sicurezza ma anche la comodità) va nella direzione di favorire l’uscita graduale. Alcune delle nuove tipologie contrattuali ridefinite dal Jobs Act potrebbero essere utili proprio per favorire l’invecchiamento attivo (job-sharing, lavoro a chiamata con idoneo preavviso, etc.).

Su questi temi, tuttavia, il dibattito italiano è carente o addirittura assente. Nei mesi scorsi il confronto tra le il governo e le parti sociali sull’innalzamento dei requisiti pensionistici dal 1° gennaio del 2019, si è sviluppato integralmente sulla necessità della sua applicazione contro una disapplicazione integrale o selettiva e, come ricordato da Raitano nello scorso numero del Menabò, la legge di bilancio per il 2018 ha optato per la disapplicazione a favore di 15 categorie di lavoratori che hanno svolto mansioni faticose e pesanti.

L’auspicio è che l’agenda politica possa presto arricchirsi e approfondirsi sul piano tecnico per poter utilizzare e combinare tutte le leve di azione disponibili. Ben disegnato e articolato, l’allungamento della vita lavorativa con uscita graduale potrebbe essere l’anello giusto per tenere assieme il ricambio anziani-giovani sui posti di lavoro, il contenimento della spesa per pensioni, il rafforzamento degli altri capitoli del welfare e, nel complesso di questo mix, anche la produttività e la crescita. Tutto è complicato, vero, ma non siamo i soli a dover affrontare questi cambiamenti.

Le opinioni espresse in questo articolo sono personali e non coinvolgono in nessun modo l’Istituzione di appartenenza dell’autore.

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