Valutare in che modo e fino a che punto le politiche fiscali siano in grado di porre un freno alle crescenti disuguaglianze non è un compito semplice. Un aiuto concreto arriva dal rapporto “Fiscal Monitor” pubblicato lo scorso ottobre dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e intitolato “Tackling Inequality ”.
Il rapporto si apre con la considerazione che un’eccessiva diseguaglianza può minare la coesione sociale, alimentare fenomeni di polarizzazione politica e rallentare la crescita economica. Partendo da questa valutazione il FMI analizza in che modo le politiche fiscali possano contribuire a raggiungere obiettivi redistributivi. Le analisi, basate principalmente sui dati del World Economic Outlook Database, si riferiscono a tre gruppi di Paesi: 35 economie avanzate, 40 economie emergenti e a reddito medio, 40 economie in via di sviluppo a basso reddito. Nello specifico sono tre i temi approfonditi: le aliquote fiscali sui redditi più elevati (top income), l’introduzione di un reddito di base universale e il ruolo dei trasferimenti in natura, con particolare attenzione alla spesa pubblica per l’istruzione e la sanità. In questa scheda concentreremo la nostra attenzione sui primi due temi e principalmente sulle analisi relative alle economie avanzate (ove non specificato diversamente).
È utile comunque ricordare come gli investimenti in istruzione e in sanità – ambiti rispetto ai quali molti Paesi presentano ancora oggi lacune considerevoli – contribuiscano a ridurre le disuguaglianze (non solo di reddito), contrastino la povertà, migliorino la mobilità sociale e favoriscano, infine, una crescita economica inclusiva.
Come accennato nella parte introduttiva, il FMI ribadisce l’importanza della crescita economica segnalando come in molti Paesi essa non abbia garantito un percorso inclusivo per tutte le fasce di reddito. Al contempo, IL FMI individua nelle differenti politiche fiscali una delle cause delle differenti performance in termini di disuguaglianza tra diversi gruppi di Paesi e degli stessi Paesi nel tempo.
Tali politiche, infatti, contribuiscono a ridurre, attraverso vari canali, le distanze tra i redditi. La progressività delle imposte dirette e dei trasferimenti, ad esempio, determina una maggiore riduzione delle disuguaglianze nel passaggio dai redditi di mercato a quelli disponibili. Le imposte sul consumo, invece, agiscono sul reddito disponibile “reale”.
Nel 2015 è stato osservato come, nelle economie avanzate, le imposte dirette e i trasferimenti abbiano ridotto la disuguaglianza reddituale, in media, di circa un terzo; la media del valore del coefficiente di Gini è stata pari a 0,31 per quanto riguarda il reddito disponibile, a fronte di un valore pari a 0,49 per i redditi di mercato. Tuttavia, le evidenze empiriche suggeriscono che il ruolo della redistribuzione fiscale nel compensare l’aumento delle disuguaglianze determinate dal mercato si è indebolito negli ultimi decenni. Tra il 1985 e il 1995, l’aumento della redistribuzione fiscale è stato in grado di compensare circa il 60% dell’aumento nella disuguaglianza del reddito di mercato. Di contro, l’effetto redistributivo medio delle politiche fiscali non è cambiato sostanzialmente tra il 1995 e il 2010, mentre le disparità di mercato hanno continuato ad aumentare. Ne è seguito che la disuguaglianza del reddito disponibile medio è aumentata in linea con quella dei redditi di mercato. Questo andamento segnala, quindi, che le riforme delle politiche fiscali intraprese hanno in media diminuito la progressività degli strumenti redistributivi.
Per meglio comprendere quali siano le cause di tale riduzione, è utile concentrare l’attenzione sulle imposte personali sul reddito e sui capitali. L’analisi congiunta di diverse categorie impositive può aiutare a comprendere i diversi gradi di progressività – intesa come capacità di prelevare più che proporzionalmente dai ricchi e meno che proporzionalmente ai poveri.
Indipendentemente dalla misura utilizzata, nel rapporto si mostra che il grado di progressività delle imposte personali sul reddito nei Paesi Ocse si è ridotto in modo consistente durante gli anni ’80 e ’90, per poi rimanere stabile. La diminuzione registrata è coerente con il forte calo delle aliquote sui redditi più elevati avvenuto in molti Paesi. Questa tendenza potrebbe essere spiegata con la teoria dell’imposta ottimale: essendo impossibile che le imposte non distorcano le scelte, la minore progressività potrebbe essere motivata da una maggiore elasticità dei redditi imponibili dei più abbienti al livello delle aliquote, da una riduzione della quota di reddito posseduta dai più abbienti o da un maggiore peso attribuito dalla società al benessere degli individui con redditi elevati.
Il rapporto del FMI ha verificato queste ipotesi osservando, per prima cosa, che negli anni non si è osservata alcuna variazione nell’elasticità dei redditi elevati; inoltre, la continua riduzione delle aliquote sui redditi delle società potrebbe aver determinato uno shift dai redditi personali a quelli societari. In secondo luogo, nel tempo la quota dei redditi guadagnata dai più abbienti non è diminuita, anzi è aumentata, come si osserva dalla Figura 1. Da ultimo, non emergono variazioni significative delle preferenze della società che potrebbero spiegare un maggior favore verso i più ricchi.
Queste tre evidenze mostrano, quindi, come sia difficile giustificare il declino delle aliquote sui redditi più alti utilizzando la teoria dell’imposta ottimale; pertanto sembrerebbe possibile aumentare la progressività del sistema fiscale senza avere impatti negativi sulla crescita. Il rapporto accenna solo brevemente alle difficoltà di natura politica connesse all’adozione di simili misure, laddove, a nostro parere, l’influenza che i ricchi esercitano sulla classe politica (se non proprio la loro coincidenza) meriterebbe, invece, maggiori approfondimenti.
L’analisi sulla progressività delle imposte che gravano sui top income si chiude esaminando le imposte sui redditi da capitale, il cui calo sembra aver avuto un ruolo rilevante nella diminuzione della progressività. A riguardo, è sufficiente ricordare che i redditi da capitale, i profitti, gli interessi ed i capital gain, oltre ad essere distribuiti in modo molto diseguale (e ben più diseguale dei redditi da lavoro), sono spesso assoggettati ad aliquote fiscali inferiori rispetto ai redditi delle persone fisiche.
Per quanto riguarda la parte bassa della distribuzione del reddito, il FMI propone una riflessione sulla scelta tra trasferimenti universali o means-tested (ovvero soggetti alla prova dei mezzi), quando si vogliano perseguire obiettivi redistributivi. In primo luogo, il FMI mostra che i disincentivi al lavoro associati agli attuali sistemi means-tested sono elevati e sono aumentati tra il 2011 e il 2015 in molte economie avanzate (Figura 2).
Per contrastare questi disincentivi, i trasferimenti means-tested sono spesso condizionati alla partecipazione attiva sul mercato del lavoro o a programmi di inserimento. Altri aspetti problematici degli strumenti means-tested sono i forti vincoli informativi (che spingono verso sistemi di targeting semplificati basati sulle caratteristiche familiari), gli alti costi amministrativi e i problemi di stigma sociale (cui può associarsi un basso utilizzo dei trasferimenti anche da parte di chi avrebbe diritto ad esserne beneficiario). Di conseguenza, i trasferimenti means-tested non riescono spesso a raggiungere adeguati livelli di copertura dei poveri e, al contempo, possono implicare sprechi di risorse. Per questi ed altri motivi di natura non strettamente redistributiva – tra i quali i rischi di disoccupazione strutturale connessi allo sviluppo dell’automazione e l’aumento del lavoro precario – l’idea di un reddito di base universale è stata al centro di numerosi dibattiti negli ultimi anni (sul Menabò si vedano, tra gli altri, gli interventi di Granaglia e Franzini e Granaglia).
Il FMI, facendo uso sia di microsimulazioni statiche che di simulazioni macroeconomiche dinamiche condotte con modelli DSGE (dynamic stochastic general equilibrium models) fornisce un’analisi dell’impatto potenziale su disuguaglianza e povertà e dei costi fiscali associati all’introduzione di un reddito di base universale, inteso come trasferimento monetario destinato a tutti, indipendentemente dalla condizione economica[1]. In estrema sintesi, i risultati dell’analisi suggeriscono che la convenienza ad adottare un reddito di base universale dipende dagli obiettivi di policy che si vogliono raggiungere, tra i quali possono esservi la trasformazione o l’integrazione dell’attuale sistema di protezione sociale e la necessità di fornire una soluzione alla crescente insicurezza dei redditi da lavoro. Rispetto a quest’ultimo aspetto, il FMI raccomanda di inquadrare il reddito di base universale all’interno di un più ampio sistema di assicurazione del reddito, di cui fanno parte anche altri strumenti (ovvero imposte e trasferimenti progressivi).
In generale, il FMI osserva che i vantaggi di un reddito di base universale sono da valutare in relazione alle caratteristiche del sistema di protezione sociale in vigore nel singolo Paese, in termini di efficienza, prospettive di miglioramento nella gestione amministrativa delle misure selettive e di generosità, grado di copertura e progressività dei trasferimenti means-tested. Con riferimento alle economie in via di sviluppo, il FMI indica che un reddito di base universale può rappresentare uno strumento utile, nel breve periodo, per migliorare la condizione dei gruppi a più basso reddito, che non beneficiano attualmente di adeguate reti di protezione sociale, ma, affinché sia efficace e sostenibile, tale misura deve essere finanziata attraverso oculati tagli alle uscite e aumenti delle entrate fiscali (ad esempio, eliminazione di sussidi ed ampliamento della base imponibile per le imposte sui consumi, in particolare quelli legati ad esternalità negative). Diversamente, per le economie avanzate il FMI conclude che la sostituzione di sistemi di protezione sociale che prevedono trasferimenti generosi, ampia copertura e forte progressività con un reddito di base universale potrebbe comportare una sostanziale riduzione dei trasferimenti per i gruppi a più basso reddito. In tal caso, sembrerebbe più opportuno un rafforzamento degli schemi esistenti, aumentando il grado di copertura delle reti di protezione sociale e riducendo i disincentivi al lavoro per i lavoratori a basso reddito.
In conclusione, sebbene l’analisi della capacità redistributiva delle politiche fiscali proposta dal FMI fornisca interessanti spunti di riflessione su importanti e attuali temi di policy, ci sembra necessario ricordare che l’alta disuguaglianza osservata è in larga parte il risultato di meccanismi che operano prima dell’intervento redistributivo dello Stato. Maggiore attenzione dovrebbe quindi essere rivolta all’analisi dell’efficacia delle politiche di “predistribuzione” nel contrastare le crescenti disuguaglianze dei redditi di mercato. Se, come indicato anche dal FMI, investimenti pubblici in istruzione e sanità giocano un ruolo fondamentale nel ridurre le disuguaglianze nel medio termine, limitarsi alla considerazione di questi aspetti appare insufficiente. Come ampiamente argomentato sul Menabò, adeguate strategie di predistribuzione dovrebbero riguardare le fondamentali regole di funzionamento dei mercati, in particolare quell’insieme di fattori che consentono la formazione di rendite e rendimenti spropositati legati a un’eccessiva concentrazione del potere di mercato, ai diritti di proprietà intellettuale, ai meccanismi di notorietà, al ruolo del capitale relazionale.
[1] Le simulazioni sono condotte su un campione di otto Paesi (Brasile Egitto, Francia, Messico, Polonia, Sud Africa, Gran Bretagna, Stati Uniti), selezionati al fine di assicurare eterogeneità in termini geografici, grado di sviluppo e generosità/progressività dei trasferimenti previsti nei rispettivi sistemi di protezione sociale. Analisi specifiche sono invece condotte per India, Bolivia e Stati Uniti.